venerdì 11 dicembre 2015
Tornano Dürrenmatt, il giudice e il suo boia
Il commissario Bärlach creato da Dürrenmatt è il più straordinario investigatore della letteratura moderna L’autore indaga tutto ciò che esiste: da Dio all’ultimo arbusto del Giura bernese
11 dic 2015 Corriere della Sera Di Pietro Citati
Friedrich Dürrenmatt, del quale Adelphi pubblica in questi giorni Il giudice e il
suo boia, con la traduzione di Donata Berra, è, in primo luogo, un narratore metafisico. Vive, ben stabile e fermo, in Svizzera, ma di lì, col suo implacabile telescopio, esplora l’universo; e spesso intuisce così a fondo gli elementi a noi nascosti, che riesce a sfondare il muro di ipotesi e di supposizioni che ci circonda, e si spinge in prossimità delle grandi leggi del mondo.
Indaga tutto ciò che esiste: da Dio all’ultima pietra, all’ultimo arbusto del Giura bernese. Analizza, domanda, mette in dubbio, ironizza: talora esplode in stupendi scoppi di buffoneria, come fosse il Rabelais dei tempi moderni, tanto più grandioso quanto più abita nel piccolo e nel minimo. Soprattutto, si sforza di essere preciso, come di rado gli uomini (e gli scrittori) sono. Non ha preconcetti. Sa che è sbagliato avere le proprie idee su un personaggio, o un criminale, o un malato, prima di studiarlo nel suo ambiente e nelle sue abitudini. Sa che ogni scrittore, a cominciare da Dostoevskij e da Kafka, è un investigatore, ma senza poteri, senza leggi, senza Stato e senza prigioni alle spalle. Ma, proprio per questo, è tremendo e crudele: tremendo come i giudici del cielo e della terra, crudele come i boia che i giudici guidano di nascosto.
L’investigazione di Dürrenmatt comincia da Dio: il poliziotto terreno studia il poliziotto del cielo. È la cosa più difficile, perché dove sta Dio? Sta lontano, occupato con gli altri pianeti, oppure studia qualche difficile problema di teologia che si è impadronito del suo spirito sublime. Dio si cela in quelle figure che noi chiamiamo bene e male. Nei nostri tempi il bene e il male si sono abbracciati strettamente e non possono venire separati. Non potremo mai più dire a nessuno: «Questo è bene e questo è male», «questo porta al bene, questo porta al male».
Una specie di fatale inclinazione conduce Dürrenmatt non verso ciò che noi chiamiamo bene, ma verso ciò che noi chiamiamo male. Egli lo scorge, nella sua interezza, forse solo una volta, quando un enorme cane assale l’eroe del Giudice e il suo boia e del Sospetto: il commissario Bärlach. Il cane è terrificante: i suoi occhi rilucono, simili a due superfici chiare ma vuote; Bärlach subisce il fascino del male, il grande enigma che si sente irresistibilmente
chiamato a risolvere. Eccoli lì, di fronte, l’inesorabile enigma del male, e la debole forza analitica dell’uomo che cerca di comprenderlo. Nel mondo accadono molti delitti, ma spesso noi non ce ne accorgiamo, perché pochissimi uomini hanno abbastanza fantasia per scorgerli attorno a loro.
Nel Giudice e il suo boia, il male ha una vasta incarnazione: Gastmann, «la bestia selvaggia», che il commissario Bärlach, ancora giovanissimo, aveva incontrato a Costantinopoli, senza riuscire per quarant’anni a fornire le prove dei delitti via via più audaci e sacrileghi che il Nemico commetteva. Come dice Bärlach, Gastmann è un nichilista: se opera il bene, lo fa per un capriccio, per un estro improvviso; e per lo stesso estro — mai in nome di un principio — opera il male. Bärlach riesce a vincere questo male soltanto grazie alla sua illimitata fantasia: non lo combatte da solo, di fronte; uccide il grande assassino servendosi di un piccolo assassino, il poliziotto Tschanz, il «boia» del giudice.
Il vero eroe del romanzo è il personaggio che incarna il principio del bene: il commissario Bärlach, la più straordinaria figura di poliziotto del romanzo moderno. È vecchio, gravemente malato di stomaco: il fumo gli fa male: l’attende un’operazione di cancro, che forse sarà mortale; la sua esperienza poliziesca non ha nulla a che fare con la moderna criminologia americana, che il suo superiore, Lutz, esalta di continuo, a volte per schernirlo o fargli dispetto. È svizzero, anzi svizzero tedesco, così profondamente e inevitabilmente come nessun altro personaggio di Dürrenmatt e di Max Frisch.
Il suo rivale, Gastmann, gli dice: «Devi sbrigarti a uccidermi. Non ti rimane molto tempo. I medici ti danno ancora un anno di vita, se ti fai operare subito». Ma Bärlach non può farsi operare, proprio perché insegue Gastmann. «Ora non
posso farmi operare, ora devo battermi. È la mia ultima occasione».
Davanti al delitto, lo assale il dolore, un immenso, rabbioso,
lancinante dolore: un sole esplode dentro di lui, lo assale, lo
accartoccia, lo brucia con vampe di febbre. «Che cos’è l’uomo?» geme.
«Che cos’è l’uomo?» ripete, con le parole di Geremia.
Bärlach difende la sua vita moribonda dalla malattia: vivere, vuole
soltanto vivere. Egli sente salire in sé l’istintiva volontà di restare
in
questo mondo, lottando per un mondo diverso e migliore anche col suo
povero corpo, che il cancro, vorace e inarrestabile, divora. Combatte:
diventa un occhio che scandaglia la notte, un orecchio che registra il
più lieve rumore, una mano che stringe il metallo freddo della pistola. A
momenti, sembra decrepito e disfatto: parla con voce appena udibile; è
grigio, riverso, stanchissimo; e le sue mani stanno abbandonate ai lati
del corpo fragile come fiori appassiti accanto a un morto.
Grazie alla collaborazione involontaria del piccolo assassino,
Bärlach scopre il cadavere del grande Assassino, l’Avversario. «Guarda
in silenzio il viso cereo del morto, la piega pur sempre ilare delle
labbra; ma gli occhi nelle orbite sono ancora più fondi, e in quegli
abissi non si acquatta nulla di terribile. Così si incontrano, per
l’ultima volta, il cacciatore e la preda. Il silenzio della morte scende
su Bärlach, s’insinua dentro di lui, ma senza accordargli la pace. I
morti hanno sempre ragione». Bärlach ama leggere il Don Chisciotte e I
viaggi di Gulliver con gli stessi occhi con cui li legge
Dürrenmatt. «La Svizzera — dice un personaggio del Sospetto — mi ha reso
un buffone, un pazzo, un Don Chisciotte che combatte contro i mulini a
vento e contro le greggi di pecore». Bärlach commenta: «Sono contento
che tu citi don Chisciotte, è il mio tema preferito. Tutti dobbiamo
essere dei don Chisciotte, se appena abbiamo un briciolo di cuore e un
po’ di cervello nella zucca. Ma non dobbiamo combattere contro i mulini a
vento come quel povero diavolo di cavaliere con la sua corazza di
latta. Oggi si tratta di combattere contro mostri giganteschi, oppure
contro veri e propri vampiri: belve che non stanno soltanto nei libri di
favole o nella fantasia, ma nella realtà. Questo è il nostro compito».
Bärlach abita in Svizzera, il Paese degli orologi, il cuore del
mondo limitato e preciso. Nemmeno in una pagina del Giudice e il suo
boia possiamo dimenticare di essere in Svizzera: anzi nel Giura bernese,
patria di Friedrich Dürrenmatt. Ecco la strada di Lamboing, il vallone
di Twann, i villaggi del Tessenberg: Berna, questa capitale «filistea e
addormentata»: la inesorabile pioggia, che dall’alba alla notte sembra
bagnare soltanto questo Paese: la vecchia, provinciale Svizzera tedesca,
insieme amata e derisa: il «Giura desolato, un luogo fuori dal mondo,
abbandonato da Dio e dagli uomini»; e la polizia svizzera, «gente — dice
Lutz — che non sa nemmeno cosa sia la criminalistica moderna e i suoi
metodi raffinati».
La vera patria di Dürrenmatt e di questo bellissimo libro è,
forse, un luogo senza nome, o con un nome fittizio, quello del caso.
Nelle prime pagine della Promessa, Dürrenmatt deride il romanzo
poliziesco tradizionale: l’inganno delle tracce, le trame costruite
secondo logica, dove tutto accade come in una partita a scacchi: qui il
delinquente, là la vittima, quaggiù il complice, e laggiù il
profittatore: «Basta che il detective conosca le regole e giochi la
partita, ed ecco acciuffato il criminale, e aiutata la vittoria della
giustizia»: non esiste il caso; o se qualcosa ha l’aspetto del caso,
ecco che subito dopo diventa destino e concatenazione. Dürrenmatt ama
l’idea opposta: proprio l’assolutamente casuale, l’assolutamente
incalcolabile, l’assolutamente incommensurabile; tutto ciò che la sua
immaginazione di moderno Don Chisciotte chiude in un intreccio libero
come il vento.
Ho fatto pace con papà Dürrenmatt
A 25 anni dalla morte la figlia Ruth ricorda l’autore svizzero “Era sigillato nel suo mondo ma adesso l’ho capito”
CONCETTO VECCHIO Repubblica 13 12 2015
ZURIGO «Non fu mai facile per mia madre essere la moglie di Friedrich Durrenmatt, non fu facile per niente. Era sempre immerso nei suoi pensieri, come sigillato nel suo mondo. Nelle cose della vita quotidiana poi era maldestro, perdeva la pazienza facilmente. Quando ero ragazza capitava di parlare con mia madre, e poi come un fulmine irrompeva papà, con lo sguardo chino su un testo da correggere, s’intrometteva senza chiedere permesso: «Lotti, ho un dub–
bio»; allora mia madre subito troncava la conversazione, e insieme cominciavano a esaminare quel foglio. Discutevano accanitamente su ogni parola, su ogni riga, e io d’improvviso non esistevo più».
Ruth Dürrenmatt assomiglia al padre. Ha 64 anni, è musicista. Venticinque anni fa (14 dicembre 1990) se ne andava Friedrich Dürrenmatt, il grande drammaturgo svizzero, l’autore del Giudice e il suo boia (ora ripubblicato da Adelphi) e de La promessa, due romanzi che hanno scardinato il genere giallo. In 32 cinema svizzeri, da qualche settimana, si può vedere il film-documentario Dürrenmatt- Eine Liebesgeschichte,
(Dürrenmatt – Una storia d’amore), sul rapporto tra il maestro e la moglie, Lotti Geissler, che fu qualcosa di più complesso di un semplice matrimonio, un sodalizio intellettuale fortissimo. Lo ha realizzato una cineasta di Zurigo, Sabine Gisiger, che per la prima volta ha convinto anche la sorella dello scrittore Verena, 91 anni, e due dei tre figli, Peter, 66, sacerdote protestante, e Ruth, a parlare della loro famiglia. Il film contiene pezzi d’archivio indimenticabili, come l’ultimo discorso pubblico di Durrenmatt, quello dove descrive la Svizzera come una prigione – dove gli svizzeri sono allo stesso tempo secondini e carcerati.
Signora Ruth, com’era Dürrenmatt da padre?
«Lui di sé diceva sempre di essere stato un cattivo genitore, per tutta la vita fu tormentato dai sensi di colpa. Non fu semplice essere sua figlia. Ma adesso lo capisco, e lo amo senza rancore: era uno scrittore di successo, pubblicava un libro all’anno. Insomma non faceva l’impiegato delle poste che alle 5 torna a casa e si mette a giocare con i figli. Ogni suo pensiero era dedicato ossessivamente alla scrittura. Lavorava senza soste. Era capace di riscrivere anche cento volte una pagina».
Colpisce l’episodio di lui che irrompe e tronca la conversazione con sua madre.
«Una volta, avrò avuto 17 anni, ebbi un bellissimo scambio con lui. In genere teneva un tono sempre oggettivo, una certa distanza dalle cose, quella volta fu finalmente personale, e io ero felice di potergli parlare un po’ di me. Poi d’un tratto lui guardò l’orologio, e disse: “Sono le 14, devo tornare a scrivere”. Lo pregai di rinunciarvi, almeno per una volta. “Non posso”, ribatté. E si rinchiuse nello studio. Per farmi notare, prendevo i piatti della cucina e li scaraventavo sul pavimento».
Suo fratello Peter nel film racconta che quando scriveva, voi figli dovevate rimanere nel silenzio più assoluto.
«E non capivamo perché, eravamo solo dei ragazzini! A scuola, quando facevo un bel tema, i compagni mi dicevano: “Eh, certo, glielo ha scritto il padre”».
Era autoritario?
«Sì, certo. Ma soprattutto era un affabulatore. Quando era rilassato, dopo cena mi portava con sé nel bosco, a spasso con il cane. E allora iniziava a raccontare storie di fantasmi. Era divino. Alcuni editori gli diedero spontaneamente degli anticipi solo dopo avere sentito i suoi racconti; naturalmente lui non scrisse una riga».
Che tipo era sua madre?
«Da giovane era stata attrice, una donna bellissima. All’inizio non avevano un soldo. Mio padre scrisse i romanzi polizieschi per denaro. Lui le chiese di rinunciare alla carriera, e da allora tutta la vita di mia madre girò attorno a lui. Al primo posto c’era Friedrich, e poi venivamo noi figli. Lei lo seguiva alle prove nei teatri, alle conferenze in giro nel mondo, correggeva i suoi testi, a volte criticava dei passaggi nei suoi manoscritti. “Non funziona!” gli diceva. Allora lui si inalberava, se ne andava furioso, e dopo un po’ ricompariva e seguiva il suo consiglio. La mamma era totalmente assorbita da lui».
E poi all’improvviso, nel 1983, Lotti muore.
«Fu una tragedia enorme. Consideri che mio padre era convinto di morire giovane. E con qualche ragione, dacché dall’età di 26 anni era gravemente malato di diabete. Intorno ai 50 anni aveva subito già due infarti. Diceva: “Voglio essere seppellito dentro una tomba piena di salsicce e spaghetti e tante tante patate!”. Aveva aperto un contocorrente alla moglie: era angosciato dal fatto che la famiglia rimanesse senza reddito. E poi lei si spense, e lui ereditò quello che le aveva versato in tutti quegli anni».
Eppure, un anno dopo, si risposò con un’altra attrice, Charlotte Kerr. Come andò?
«Mio padre aveva 62 anni. Non riusciva più a scrivere. Commise delle stupidaggini. Non era più lui. Poi un giorno arrivò la Kerr, e disse che voleva fare un film su di lui. Papà si innamorò: “È come la Lotti”, diceva. Ma non era vero. Come la mamma anche la Kerr era stata molto bella, ma era un’attrice capace di recitare un solo ruolo, ed era davvero troppo concentrata su stessa ».
Sua zia Verena sostiene che Dürrenmatt grazie a questo amore rifiorì. È così?
«Charlotte era gelosa di Lotti. Capiva che il rapporto con mio padre non avrebbe mai potuto raggiungere la stessa simbiosi che c’era con lei. Non volle avere rapporti con noi figli. Lui le tacque dove aveva conservato le ceneri di mamma».
In che senso?
«Non le disse mai che aveva tumulato le ceneri della prima moglie sotto l’albero in giardino. Mio padre non era tipo da funerali, non amava la Chiesa. Prima di morire diede disposizione di seppellire le proprie ceneri sotto lo stesso albero. E Charlotte eseguì. Quando lei morì, nel 2011, ordinò di poter essere seppellita nello stesso posto, insieme a Friedrich, mai immaginando che là già riposava Lotti».
Quindi ora riposano tutti e tre sotto lo stesso albero?
«Sì, non è un tipico finale da Dürrenmatt?» (Ruth scoppia a ridere fragorosamente).
Perché ha taciuto finora?
«Tutti mi chiedevano di mio padre. Ma io ero Ruth, e avevo la mia di vita. Ora posso fare i conti con me stessa e la mia famiglia. Domani, a Neuchatel, suonerò per papà in occasione delle celebrazioni del venticinquesimo».
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