venerdì 11 dicembre 2015

Provaci ancora Frank: Sinatra, che avrebbe 100 anni, chiese alla mafia di uccidere Woody Allen

100 Sinatra, L'Ippocampo, pagg. 287, euro 29,90

Risvolto
Sinatra 100 viene pubblicato nell’ambito delle celebrazioni per il centenario della nascita del cantante. Percorre l’arco intero della vita e della carriera di “The Voice”, dall’infanzia trascorsa nel New Jersey degli anni ’30 ai leggendari spettacoli degli anni ’60, da Las Vegas alle tournée mondiali che lo hanno visto esibirsi fino alla fine degli anni ’70.

Frutto di una stretta collaborazione con la famiglia e la Frank Sinatra Enterprises, quest'opera fondamentale raffigura il personaggio pubblico e privato attraverso foto inedite ed esclusive, ricordi provenienti dall’archivio di famiglia e immagini emblematiche, con qualche scatto rimasto nel cassetto e i provini di famosi servizi fotografici.
Dai semplici racconti dei suoi più stretti amici e collaboratori emerge il ritratto di un uomo profondamente leale nei confronti dei propri cari ed entusiasticamente dedito all’attività filantropica, un uomo che dimostrò di avere una forza e una capacità di ripresa eccezionali nel corso di una carriera incredibile durata ben sessant’anni. Ne risulta un omaggio affascinante a uno degli interpreti più amati che il mondo abbia mai conosciuto. 


Il secolo di Sinatra La Voce che scatenava l'isteria di massaEsce il libro fotografico ufficiale sul mitico Frank Una carriera favolosa, piena di avventure e di donne Antonio Lodetti - il Giornale Mer, 07/10/2015

A dicembre avrebbe compiuto 100 anni: arrivano mostre, dischi, film. Per celebrare l’icona di un Paese vincente e dimenticare le polemiche
Stampa

La vita di Frank Sinatra è un poliziesco d’altri tempi 

La musica è la nuova miniera del cinema: alla Festa di Roma l’originale documentario su The Voice, ma si racconta anche il rap 
Fulvia Caprara  Stampa 17 10 2015
Raccontare con la macchina da presa la genesi di accordi, ritmi, melodie, esplorare le radici dell’ispirazione artistica, ricostruire i percorsi esistenziali di rockstar, rapper, compositori, cantanti. La musica è la nuova miniera del cinema, e i festival sono la rampa di lancio di questa tendenza creativa, non completamente nuova (basta pensare a  L’ultimo valzer  di Martin Scorsese), ma sicuramente più marcata rispetto al passato. Se il pubblico apprezza, come ha mostrato di fare con  Amy di Asif Kapadia, dedicato a Winehouse, c’è da giurarci, il fenomeno si espanderà perchè ormai - i videoclip insegnano - tra immagini e canzoni il legame è indissolubile.

Il Festival di Roma appena iniziato (con l’anteprima di Truth) conferma l’orientamento e propone un gioiello firmato dal regista premio Oscar Alex Gibney, Sinatra All or Nothing at All
, ritratto di «The Voice» a 100 anni dalla nascita, dall’arrivo a New York dei genitori italiani fino ai trionfi mondiali. Una ricostruzione minuziosa che, attraverso la lunga e straordinaria carriera del protagonista, delinea il profilo di un Paese. 
L’essenza di un’epoca
La chiave scelta da Gibney per affrontare lo sterminato materiale disponibile è la scaletta stilata dallo stesso Sinatra per il suo concerto d’addio a Los Angeles nel 1971: «Undici canzoni per raccontare la storia di una vita e cogliere l’essenza di un uomo e del suo tempo». Da amante dei polizieschi, spiega Gibney, «sono partito dall’idea di un mistero. Perchè Sinatra ha cercato di ritirarsi? E cosa voleva dirci con il suo concerto d’addio? Mi ha sempre interessato il Sinatra cantastorie, capace di raccontare storie potenti nell’arco di 3 minuti di canzoni. Quali storie stava cercando di raccontarci quell’anno?». 
Di sicuro quella delle sue origini semplici, delle sue fortune, e delle sue contraddizioni. Dalla nascita («Pesavo 5 chili e 700 grammi, non volevo venir fuori, per fortuna c’era mia nonna che risolse la situazione») all’infanzia e adolescenza nel quartiere di Hoboken dove «gli irlandesi amministravano tutto» e gli italiani «parlavano in 55 diversi dialetti». Dall’incontro cruciale con Bing Crosby a quello con la giovane Nancy, la prima, amatissima, moglie che lo rese padre della figlia cui dedicò il brano Nancy with the laughing face. E poi dalla guerra ai primi successi, dai rapporti con la famiglia Kennedy a quelli con Cosa Nostra, dalle innumerevoli conquiste femminili, in testa la dispotica Ava Gardner. Il film di Gibney è un’opera straordinaria che mette a fuoco, una volta per tutte, la figura complessa di un monumento della musica mondiale.
Nello stesso giorno, sul palcoscenico del Festival diretto da Antonio Monda, sfilano le sequenze di Junun, il documentario di Paul Thomas Anderson sul viaggio in Rajastan del chitarrista dei Radiohead Jonny Greenwood e sulla nascita dell’album realizzato insieme al compositore israeliano Shye Ben Tzur. Junun è la cronaca ravvicinata di una creazione artistica multietnica, nutrita da suggestioni legate alla meta del viaggio, il Forte Mehrangarh risalente al XV secolo.


Che le contaminazioni fra diverse culture siano fruttuose lo dimostra anche Street opera (presentato nella sezione «Alice nella città») dove il regista iracheno Omar Rashid descrive, nell’arco di 2 anni, il mondo dell’hip-hop italiano, dall’Alcatraz di Milano ai centri sociali e agli spazi occupati. Protagonisti del racconto i 4 rapper Clementino, Gué Pequeno, Danno, Tormento e l’attore Elio Germano con il suo gruppo Bestierare.

Gangster, pupe e Frank Sinatra
The Voice nasceva 100 anni fa Figlio di italiani, giocava a fare il duro e venne sospettato di essere “amico dei mafiosi” Ma non fu mai condannato come loro complice
Gianni Riotta  Stampa 11 12 2015

C’è la leggenda e c’è la realtà. Nella leggenda, quando il leader sovietico Nikita Krusciov visita Hollywood nel 1959 chiede di incontrare Marilyn Monroe, senza il marito scrittore Arthur Miller, sospettato di essere comunista. La moglie di Krusciov, Nina, vuole invece girare per Los Angeles con Frank Sinatra, il cantante italoamericano rilutta, e tocca al prossimo presidente Usa, il suo amico John Kennedy, convincerlo. Nella realtà, Bruce Springsteen, Boss della nuova canzone nato come Sinatra in New Jersey, ama ripetere «Mia madre da bambino, quando la voce di Sinatra fluiva sulla strada da un bar pieno di fumo, juke box al massimo, mi diceva sottovoce “Ricordati, Sinatra come te è nato in New Jersey”».
Tra mito e realtà
Nel ricordare i cento anni dalla nascita di Frank Sinatra, 12 dicembre 1915 - 14 maggio 1998, è difficile separare mito e realtà di «The Voice», come si chiama da noi, «Ol’ Blue Eyes» in America: e conviene davvero farlo, o per capire l’artista che in 63 anni di spettacolo ha venduto 150 milioni di dischi, interpretando 2200 brani in 60 album, serve avventurarsi al confine della realtà, l’atmosfera da crooner, luci basse, voce perfetta, un whisky in mano, l’amore lontano?
Sinatra era italiano, italianissimo, per tutta la vita ricevette lettere dal nostro Paese di suoi parenti, veri o presunti, uno speciale Rai Storia ha ricordato la sua divertita reazione, dir sempre di sì, pur scettico della reale parentela. Hoboken sta dall’altra parte del fiume Hudson rispetto a Manhattan. Le luci di New York contro una landa grigia. Mamma Natalina Garaventa, soprannominata Dolly, veniva da Rossi di Lumarzo, Riviera ligure, papà Antonio da Lercara Friddi, gelido paesino siciliano sulle Madonie. Il nonno Francesco emigrò, lo raggiunse poi il figlio in terza classe, in fondo alla stiva, e nel giorno di San Valentino Antonio - a quel punto diventato Anthony - sposa l’innamorata a Jersey City e mette su casa a Hoboken.
In fuga da Little Italy
Anni duri per gli italiani, sterrano le fondamenta a Manhattan, lavoro umile e pericoloso. Frank ha 16 anni quando, nel 1931, un gruppo di edili nostri connazionali alza a Rockefeller Center il primo albero di Natale, la Storia affida il loro ricordo, ogni anno, alle sue luci gloriose.
A Manhattan, nel 1929 anno della terribile crisi di Wall Street, arriva anche la famigliola Sinatra, trasferita in ferry a Little Italy, allora ancora dei nostri paisà e non inghiottita da Chinatown. Ci sono i caffè con le tazzine e la scorza di limone, ricordo di quando gli italiani sbarcavano esausti dalle navi e ricevevano per scaldarsi una tazza di caffè ripulita poi con mezzo limone, la pasta fresca, i provoloni, il vino nei fiaschi, ma a Frank il quartiere pittoresco sta stretto, vuol scappare al WNEW Dance Parade a cantare, e sperare che qualcuno ascolti le primordiali registrazioni, messe in onda alla radio via Rustic Cabin. Papà Anthony è furioso, ma sul palcoscenico la voce, lo swing e lo stile ironico di Frank furoreggiano, con il pubblico e con le ragazze, al punto che una notte finisce in gattabuia per «molestie sessuali», a suo dire carezze ingenue, con la futura moglie Nancy Barbato.
La «gang dei topi»
A molte ore di treno o con le lunghe attese dei pochi voli disponibili, il giovane cantante italiano occhieggia un altro miraggio, nel deserto, Las Vegas. Si parla di gangster, pupe avvenenti, prostitute per gli allocchi, gioco d’azzardo, macchinette con gli spiccioli o fortune perdute al tavolo verde, ma non c’è notte di Las Vegas senza musica. Sinatra è l’uomo per la stagione, crea intorno a sé il Rat Pack, la gang dei topi, i cui membri variano col tempo e gli incessanti pettegolezzi: Humphrey Bogart, Spencer Tracy, David Niven, l’altro italiano che si finge ubriaco ma ha la mente aguzza, Dean Martin, Sammy Davis Jr - irresistibile nelle sue gag: «Handicap? Io sono guercio, nero e ebreo!» -, Peter Lawford, fascinoso attore inglese che sposa una Kennedy e consacra Sinatra nel giro del giovane presidente. Da Las Vegas Sinatra torna con l’aura di «amico dei mafiosi», un po’ pregiudizio antitaliano, un po’ inchieste di giornali, un po’ suo giocare a fare il duro, ma nessuna sentenza lo condannerà mai come complice dei gangster.
Canzoni senza tempo
L’America cambia, il rock dei ragazzi bianchi, il blues dei neri, i ritmi latini mettono i crooner in giacca attillata e bourbon sul pianoforte in crisi. Non Sinatra: una sola stagione opaca ed è il cinema, con il regista Fred Zinneman, 1953, Da qui all’eternità, a rilanciarlo. Se Frank sembrava il cocco del ceto medio benpensante, repubblicano con Eisenhower, democratico con Kennedy, ecco nel 1955 L’uomo dal braccio d’oro di Preminger, dal romanzo di Algren, scrittore che fece innamorare di sé Simone de Beauvoir, compagna di Sartre, al punto da volersi far seppellire con l’anello avuto in regalo. Sinatra ammalia gli intellettuali impegnati, la pellicola - storia di un drogato in cerca di riscatto - si scontra con la censura, e in Va’ e uccidi del 1962 (ridicolo titolo italiano del bellissimo The Manchurian Candidate) di John Frankenheimer, Sinatra interpreta un soldato che soffre il lavaggio del cervello in Corea e viene trasformato in kamikaze, sceneggiatura che ancora oggi si legge rabbrividendo.
Un Oscar, 21 Grammy, 2 Emmy, la Medaglia del Congresso, quattro mogli, poi sì, ci sono le canzoni, Strangers in the Night, My Way, It Was a Very Good Year, scegliete la vostra prediletta: se ne ho parlato poco è perché Frank compie 100 anni, loro sono senza tempo.

Volevo intervistare Frank Sinatra 
Cinquant’anni fa Gay Talese scrisse l’articolo che avrebbe inaugurato l’era del “new journalism” Oggi, nel centenario di The Voice, racconta il dietro le quinte della più celebre tra le non-interviste
Il mattino seguente ricevetti una telefonata del direttore delle pubbliche relazioni di Frank Sinatra. «Ho sentito che va in giro dappertutto a incontrare gli amici di Frank, che li porta a cena », cominciò, quasi in tono accusatorio.
«Faccio il mio lavoro», dissi io. «Come va il raffreddore di Frank?». (Improvvisamente eravamo in confidenza.) «Molto meglio, ma ancora non vuole parlare con lei. Ma può venire con me domani pomeriggio a una registrazione televisiva, se vuole. Frank proverà a registrare una parte del suo special sulla Nbc… Si faccia trovare fuori dall’albergo alle tre. Passerò a prenderla».
Il pomeriggio seguente, l’impeccabile addetto stampa di Sinatra passò a prendermi con una Mercedes decappottabile: era un uomo dalla mascella quadrata, i cappelli rossicci e la pelle abbronzatissima; indossava un tre prezzi di gabardina per cui gli feci i complimenti, spingendolo ad ammettere che lo aveva ottenuto a un prezzo speciale dal sarto preferito di Frank. Durante il tragitto, la nostra conversazione rimase amabilmente incentrata su argomenti come i vestiti, lo sport e il tempo, finché arrivammo all’edificio della Nbc. Seguii l’addetto stampa attraverso un corridoio, fino a un enorme studio dove campeggiava un palcoscenico bianco, pareti bianche e decine di lampade e riflettori appesi ovunque. Sembrava una gigantesca sala operatoria. Raccolto in un angolo della stanza dietro al palcoscenico, in attesa che arrivasse Sinatra, c’era un centinaio di persone: cameramen, consulenti tecnici, pubblicitari della Budweiser, giovani donne attraenti, le guardie del corpo e i tirapiedi di Sinatra, e anche il regista dello show, un uomo cordiale dai capelli biondo rossiccio di nome Dwight Hemion, che conoscevo da New York perché le nostre due figlie andavano all’asilo insieme. Mentre chiacchieravo con Hemion, orecchiavo le conversazioni intorno a me e ascoltavo i quarantatré musicisti, seduti in smoking sul palco dell’orchestra, mentre accordavano i loro strumenti, la mia mente formicolava di idee e impressioni; e avrei voluto tirar fuori per un paio di secondi il mio taccuino, ma sapevo che era meglio di no. Eppure dopo due ore nello studio, durante le quali l’addetto stampa di Sinatra non mi mollò un secondo, nemmeno quando andavo al bagno, ero in grado di ricordare i dettagli precisi di quello che avevo visto e sentito durante la registrazione; e in albergo scrissi:
Frank finalmente arriva sul palco, con indosso un pullover a collo alto, e anche se sono lontano mi sembra abbia la faccia pallida e gli occhi umidi. Si schiarisce la gola due o tre volte, poi i musicisti attaccano “ Don’t Worry about Me”. Frank canta l’intera canzone — una prova prima della registrazione — e la sua voce mi sembra buona, e si vede che sembra buona anche a lui perché dopo la prova vuole subito fare la registrazione. Alza lo sguardo verso il regista, Dwight Hemion, che sta seduto nella cabina di controllo trasparente sopra il palco, e strilla: « Perché non registriamo questa meraviglia? » . Qualcuno ride in sottofondo e Frank rimane lì a battere il piede, aspettando una risposta.
« Perché non registriamo questa meraviglia? » , ripete Sinatra a voce più alta.
Forse Hemion ha l’interruttore spento, ed è difficile vederlo in faccia per via del riflesso dei riflettori contro il vetro della cabina. Ma ormai Sinatra si tira e si storce il pullover giallo e urla a Hemion: « Perché non ci mettiamo cravatta e soprabito e registriamo questa… » .
« Ok, Frank » , interviene calmo Hemion, apparentemente inconsapevole dell’irritazione di Sinatra, « ti dispiacerebbe tornare su… » .
« Sì, mi dispiacerebbe! » , scatta Sinatra.
(...) Alla fine Hemion riesce a calmare Sinatra, in tempo per registrare con successo la prima canzone e qualcun’altra, ma la voce di Sinatra diventa sempre più stridula man mano che lo spettacolo va avanti, e in due occasioni si incrina completamente: la cosa angoscia a tal punto il cantante che in un momento di rabbia decide di annullare tutta la sessione di quel giorno. « Lasciamo perdere, finiamola qua! State sprecando il vostro tempo. Quello che c’è lì » , continua indicando l’immagine di se stesso sullo schermo televisivo mentre canta, « è un uomo con il raffreddore » . In auto, mentre torniamo in albergo, dentro di me penso: per quanto ancora l’Esquire mi coprirà le spese? Alla fine di questa settimana avrò superato i tremila dollari, non sono ancora riuscito a parlare con Sinatra e andando avanti di questo passo forse non ci riuscirò mai…
Prima di andare a letto, quella sera, telefonai a Harold Hayes a New York, lo aggiornai su tutto quello che stava succedendo e non succedendo e gli espressi le mie perplessità riguardo al lievitare delle spese.
«Se ti sembra che stai tirando fuori qualcosa, non stare a preoccuparti delle spese», mi disse lui. «Stai tirando fuori qualcosa?».
«Sto tirando fuori qualcosa», dissi io, «anche se non so esattamente cosa».
«E allora resta lì finché non l’hai scoperto».
Rimasi altre tre settimane e il conto delle spese arrivò quasi a cinquemila dollari, poi tornai a New York e mi presi altre sei settimane per organizzare e scrivere un articolo di cinquantacinque pagine ricavato in gran parte da duecento pagine di appunti che contenevano interviste a più di cento persone e descrivevano Sinatra in posti come un bar a Beverly Hills (dove era stato coinvolto in una rissa), un casinò a Las Vegas (dove aveva perso un piccolo patrimonio a blackjack) e lo studio della Nbc a Burbank (dove, una volta rimessosi dal raffreddore, aveva di nuovo registrato lo spettacolo e aveva cantato magnificamente).
La redazione dell’Esquire intitolò il pezzo
Frank Sinatra ha il raffreddore e fu pubblicato sul numero dell’aprile 1966. Non ebbi mai l’opportunità di parlare a tu per tu con Frank Sinatra, ma forse è proprio questo uno dei punti di forza dell’articolo. Quello che avrebbe potuto dire o che avrebbe detto (essendo uno dei personaggi pubblici più protetti) lo avrebbe svelato meglio di uno scrittore attento che lo guardava in azione, in situazioni stressanti, orecchiando e aggirandosi a bordo campo?
( Traduzione di Fabio Galimberti) Da Frank Sinatra has a Cold, Taschen 2015
©RIPRODUZIONE RISERVATA

Nessun commento: