Non a caso la destra più ottusa e autolesionista lo scarica subito invece di tenerselo stretto. Sansal è un classico esempio di cooptato delirante, o di beduino bianco [SGA].
Franco Cardini, Marina Montesano:
Terrore e Idiozia. Tutti i nostri errori nella lotta contro l’islamismo, Mondadori
Intellettuale cacciato dai media: denunciò i crimini degli islamici
"Vivono
tra di loro, nelle banlieue. I francesi sono obbligati ad andarsene".
Per questa frase Eric Zemmeur è stato condannato per islamofobia
Sergio Rame il Giornale
- Sab, 19/12/2015
La fiera delle idiozie sull’islam
Lo storico vuol elencare gli errori che ci impediscono di battere i jihadisti Ma finisce per ripetere molte delle banalità buoniste che ci danneggiano
18 dic 2015 Libero FRANCESCO BORGONOVO
Che peccato. Dispiace leggere il nuovo libro dello storico Franco Cardini (Terrore e Idiozia. Tutti i nostri errori nella lotta contro l’islamismo, Mondadori, scritto con Marina Montesano) e rendersi conto che uno studioso del suo calibro, autore di tanti saggi importanti, continua a diffondere i più triti luoghi comuni sull’islam. Purtroppo, il suo pamphlet dà voce a posizioni estremamente diffuse in un’area che, per semplicità, indicheremo come «di destra». Cardini è lucidissimo quando si tratta di smascherare le bugie dell’Occidente. Racconta i tentennamenti dell’Unione Europea e la debolezza che ha esibito facendosi ricattare dal Sultano turco Erdogan; mostra perché solo la Russia di Putin sta davvero combattendo in modo efficace lo Stato islamico; è spietato nel denunciare l’ipocrisia con cui gli Stati Uniti e molti Paesi europei fanno affari con Stati come l’Arabia Saudita, il Qatar e il Kuwait. Tutte cose sacrosante, che Libero scrive da mesi (motivo per cui eviteremo di ripeterle in questo articolo).
Allo stesso modo, sul nostro giornale si è parlato in maniera totalmente disincantata delle primavere arabe che hanno fomentato il jihadismo ovunque, della scriteriata guerra alla Libia e alla Siria di Assad, e pure - in un fondo del direttore Maurizio Belpietro - dell’importante presa di posizione delle autorità religiose iraniane contro i macellai dello Stato islamico, anche se Cardini sostiene che «i nostri media non hanno accordato alcuna attenzione a quelle voci». Forse, dunque, lo storico toscano non ci legge con la dovuta attenzione, e saranno fatti suoi. Però trova lo stesso il tempo di accusarci delle peggiori nefandezze mediatiche, oltre che di essere islamofobi. La ragione di tanta acredine, manco a dirlo, è il nostro titolo «Bastardi islamici». Secondo Cardini - che me lo ha ribadito con una certa animosità durante una puntata di Agorà - avremmo dovuto titolare «Bastardi islamisti». Scrive il professore: «Solo qualche giornale italiano (uno, a dire il vero, che non è neppure il caso di citare) confonde “islamici” e “islamisti”: squallore di certa pseudoinformazione». Lungi da noi riaprire la discussione sul nostro titolo: abbiamo già dato spiegazioni più che esaustive. Il problema è che il nostro amico storico - e purtroppo sono in molti a pensarla come lui - diventa improvvisamente cieco quando si tratta di affrontare le ipocrisie e le doppiezze del mondo islamico. Di più: pur di difendere l’islam, passa dalla parte dei buonisti occidentali che contesta con tanto impegno, ripetendo le loro idiozie. Giustamente, Cardini spiega che è un errore distinguere fra «islam moderato» e «estremo». Dice che non dovremmo nemmeno parlare di un islam, ma «degli islam». Poi argomenta che i fanatici assassini visti all’opera in varie parti del mondo dovrebbero essere chiamati «islamisti», poiché fautori di una «ideologia politica». Ma allora perché sui dizionari italiani, il primo significato della parola «islamista» è «studioso dell’islam»? Semplice: perché prima dell’avvento del politicamente corretto non c’era bisogno di trovare una parola diversa da «islamici» per indicare i fanatici musulmani.
Ora, invece, poiché i musulmani si offendono, bisogna parlare di «islamisti». Ma allora che significato dobbiamo dare alla parola «islamico»? Il puntiglioso Cardini non lo spiega. A quanto pare, il temine «islamico» è da cancellare. Si può parlare di jihadisti, islamisti, mujaheddin: ma di islamici no. Il fatto è che nel mondo islamico non esiste alcuna autorità in grado di sentenziare che gli assassini del Califfato non sono islamici. Lo spiega bene Giorgio Vercellin, studioso non certo accusabile di «islamofobia». Nell’islam, scrive, «non esiste alcuna struttura “ecclesiale” abilitata a fornire un placet che legittimi un movimento religioso. Chiunque può a suo piacere costituire un gruppo o un’organizzazione religiosa che si richiama all’islam: l’unico elemento determinante è la sua accettazione da parte del resto della comunità». Quindi, lo Stato islamico è a tutti gli effetti «islamico», non «islamista».
E l’islam, benché Cardini si ostini a sostenerlo, non è una religione pacifica. Il jihad, cioè «la guerra giusta», è assimilabile ai pilastri della religione musulmana, e come ha spiegato David Cook nella sua dettagliatissima Storia del Jihad (Einaudi), un esame delle fonti dimostra che per lo più questo termine è stato ed è utilizzato in senso militare. Obietta Cardini che «la stragrande maggioranza dei musulmani di tutto il mondo è completamente estranea a questa follia». Però, quando ai musulmani viene suggerito un gesto politico come quello di scendere in piazza e prendere le distanze dalla violenza, si presentano in quattro gatti. Il loro unico obiettivo è chiedere «più moschee», e lamentarsi appunto della diffusione dell’islamofobia. Ecco, questo è il piagnisteo che alimenta nelle comunità islamiche il senso di persecuzione, e costruisce le fondamenta dell’estremismo. Il quale estremismo, per altro, si basa semplicemente su una lettura letterale del Corano, non su altro. Anche perché nell’islam non esiste separazione fra «religione» e «potere». L’autorità religiosa è anche politica, tradizionalmente.
Queste cose Cardini le sa, e le scrive perfino nel suo libro. Però si accoda a quanti dicono che l’islam è intrinsecamente pacifico. Scrive una falsità evidente, e cioè che la violenza islamica non ha nulla a che fare con l’immigrazione. Ripete che il jihadismo nasce dall’esclusione sociale. Insomma, la solita litania buonista, che non gli si addice. La verità è che è troppo accecato dal suo risentimento verso l’Occidente e considera l’islam un’alternativa a un sistema coercitivo e distruttivo dei popoli e delle identità. Non capisce che l’islam - quello sunnita in particolare, nella sua variante saudita (che è molto diffusa anche in Italia) - ha le stesse ambizioni «imperialiste», e le ha esercitate ovunque, anche in Oriente.
Cardini cita con fastidio Michel Houellebecq, lo accusa di fare soldi sulle tragedie (e lo stesso dice di Charlie Hebdo). Però ricorda un po’ il protagonista di Sottomissione, il professore che si piega all’islam per convenienza, per tranquillità. Legittimo, come no. Ma che tristezza. E che peccato.
Istruzioni per evitare la prossima Apocalisse
Intervista all’algerino Boualem Sansal: “L’islam non teme la guerra”
GLORIA ORIGGI Repubblica 18 12 2015
Boualem Sansal è un uomo mite, ironico e ispirato al tempo stesso. L’intervista avviene nella sede dell’editore Gallimard, nel cuore di Saint-Germain a Parigi. Sansal ha i capelli lunghi grigi raccolti in una coda di cavallo e un profilo da santone indiano. Il suo ultimo romanzo, “2084”, un successo planetario, di prossima pubblicazione in Italia per Neri Pozza, è ambientato in un futuro prossimo in cui il mondo libero è stato soggiogato da uno stato totalitario, l’Abistan, che controlla le menti, ha cancellato il passato
e ha reso tutti schiavi.
In che modo il suo libro visionario,“ 2084”, esprime una sua visione buia del futuro?
«Sono anni che penso che attacchi del genere di quelli che si sono prodotti a Parigi a gennaio e novembre sarebbero accaduti. Penso che l’islamismo sia ormai un fenomeno anche europeo. Ed ero sicuro che sarebbe passato in fretta alla fase violenta, ossia alla fase di guerra dichiarata.
Dunque la cosa non mi ha sorpreso: come molti altri ero convinto che un giorno o l’altro questo sarebbe avvenuto. E da qualche parte l’Europa non ha voluto vedere, ha sottovalutato il rischio».
Cosa dobbiamo sapere che non sappiamo? Che cos’è l’islamismo?
«La gente pensa che l’islamismo sia qualcosa di recente. Come il fascismo. Invece è nato insieme all’islam. L’islam viene fondato e poi comincia a dividersi. Nasce allora il sunnismo, lo sciismo, il sufismo. L’islamismo è una visione apocalittica della religione. Come in tutte le religioni ci sono movimenti apocalittici che pensano che la fine del mondo sia vicina e stravolgono tutte le credenze orientandole alla fine del mondo».
E perché oggi assistiamo al trionfo di questa visione apocalittica? Anche il suo libro è in fondo apocalittico.
«Le visioni apocalittiche hanno sempre accompagnato le religioni. In tutte le religioni ritroviamo una corrente puramente religiosa, una corrente puramente mistica e una corrente apocalittica il cui pensiero dominante è che raggiungere la fine dell’umanità significa andare incontro a Dio. È un modo di esistenza: è come portare dentro di sé una tentazione suicida che ci fa vivere in modo più “forte”, sempre all’orlo del precipizio ».
Se capisco la sua visione, l’islamismo contemporaneo non solo trae la sua forza dall’atteggiamento apocalittico, ma anche dalla dimensione globale.
«Come il cristianesimo, l’islam ha un progetto planetario. I cristiani volevano cristianizzare tutti, compresi i cosiddetti “selvaggi”, quelli che non erano nemmeno considerati esseri umani, che abitavano nelle foreste… Popolazioni che i missionari consideravano come “scimmie” eppure volevano evangelizzarli lo stesso. Per farli diventare umani. L’islam ha la stessa ambizione planetaria di fare regnare Allah sulla terra. L’unico monoteismo che non ha questa tendenza planetaria è la religione ebraica. L’ebraismo è la storia di un popolo eletto, non dell’umanità».
Lei è un laico…
«Io non sono credente, sono ateo. E dunque ovviamente sono laico, nel senso che non voglio vedere la religione interferire con le questioni di Stato».
Lei dice cose indicibili anche in Europa, per esempio contro il “politically correct” o contro le moschee e i musulmani… «Ci sono troppe moschee, ci sono troppi “barbuti”, c’è troppo rispetto ovunque per la religione. Non dirlo è il segno di una civiltà che muore, che si proibisce da sola di dire quello che pensa. Eccesso di prudenza. In Europa, nel trattato di Lisbona, si è pure inserito un principio di precauzione, come per istituzionalizzare la paura che ormai abbiamo di tutto. Gli europei si sentono circondati, minacciati, e non sono disposti a cambiare, a rinunciare a nulla».
Ha scritto cose che le hanno causato grandi problemi, ha perso il suo posto di alto funzionario a causa dei suoi libri, è stato minacciato più volte. Eppure va avanti.
«Perché non posso pensare e dire tutto ciò senza fare nulla, anche se so che non serve a niente. È una questione di coerenza personale. Poi è la mia natura. Io non posso non parlare. E non parlo mai in modo aggressivo. Però dico sempre quel che penso. Io lo posso fare perché non ho paura di perdere nulla. I politici non possono parlare liberamente perché hanno paura di perdere il potere, sono ostaggio dei loro elettori».
Non è paradossale? Sembra quasi che nelle società cosiddette liberali sia più rischioso parlare che in Algeria… «Perché sono società terrorizzate, che hanno paura di tutto, di dire quello che pensano, e non sanno nemmeno più cosa pensare. Io che vivo in Algeria, che sono stato minacciato un sacco di volte, non mi sento in pericolo. Avrei potuto ottenere il premio Goncourt quest’anno e molti altri premi se non avessi detto le cose che dico in tivù che mi fanno passare per un islamofobo... ma gli editori hanno avuto paura di dare un premio del genere a qualcuno che dice che l’islam è una vergogna. Ma io me ne infischio dei premi. Se vogliono darmeli va benissimo. Se non vogliono il problema è loro ».
Dove si trovava venerdì 13 novembre al momento degli attentati di Parigi?
«Quel fatidico venerdì, mi trovavo nella magnifica città di Uzès per presentare il mio romanzo 2084... Di fronte al nostro tavolo c’era una televisione accesa senza volume. Mentre cenavamo, guardavamo distratti i poliziotti che correvano, le ambulanze, la confusione, senza capire veramente di che si trattasse. Poi sono cominciati i sottotitoli sullo schermo: 5 morti al Bataclan, 2 allo stadio... Il mio libro, il mio racconto apocalittico diventava realtà. Mi vergognavo quasi di averlo immaginato. Come se avessi dato sostanza a quel fantasma».
La laicità francese ha fallito serve un nuovo modello
Errori Il terrorismo ha sfruttato una globalizzazione che elude il controllo degli Stati nazione
Pesca
nello scontento cronico di una situazione economica e sociale non più
sostenibile L’unica soluzione è coordinarsi a livello europeo sui
migranti Coltivare un’identità esterna a quella del Paese di residenza crea problemidi Mauro Magatti Corriere 18.12.15
Le vicende di questi ultimi tempi mettono a nudo le gravi difficoltà
nelle quali si ritrova il modello della laicità francese. Ci sono
infatti almeno tre aspetti che appaiono oggi problematici. Il primo
riguarda la possibilità di coltivare un’identità esterna a quella del
Paese di residenza. È uno degli effetti della globalizzazione: a
prescindere da dove ci si trovi a vivere è molto facile oggi comunicare,
fare affari, raggiungere il proprio Paese d’origine. I terroristi di
Parigi sono stati probabilmente addestrati in Siria e hanno comunque
sfruttato una rete organizzativa sovranazionale. Ciò costituisce un
evidente problema per il modello della laicità che presuppone invece uno
Stato nazionale in grado di esercitare il monopolio identitario. Specie
in Europa dove le frontiere sono state aperte con estrema disinvoltura.
Il secondo aspetto problematico ha a che fare con i cronici fallimenti
nei processi di integrazione sociale e economica. La laicità alla
francese fallisce poiché non ha più le risorse né le capacità per
sostenersi. Oltre alle inefficienze, sono le risorse che in un contesto
di economia aperta vengono a mancare. Come dimostrano chiaramente le
tante banlieue dove la promessa di cittadinanza viene nei fatti
sistematicamente negata. Non ci vuole molto per capire, come si è
peraltro ripetuto mille volte, che i ragazzi abbandonati dallo Stato,
dall’economia e dalla società sono le prede ideali dei gruppi
estremisti.
Il terzo aspetto ha a che fare con il deterioramento, nella sfera
pubblica, dei canoni di rispetto reciproco. In nome di una male
interpretata idea di libertà di espressione, il positivo superamento di
ogni censura è stato inteso come licenza di ingiuria e offesa. Formando
una spirale che finisce per alimentare risentimento e odio sociale. In
un mondo in cui tutto può essere detto e fatto, l’onere della
sopportazione non viene abolito: semplicemente si sposta sulle spalle di
chi è reso bersaglio.
La situazione storica nella quale ci troviamo a vivere — con interi
Paesi islamici in pieno subbuglio politico e religioso e la
contemporanea presenza di una consistente minoranza di cittadini di
quella stessa religione nelle nostre città — pone il problema (non solo
alla Francia) di quale modello di integrazione si possa e si debba
seguire.
Tornare indietro, cioè ricreare le condizioni di plausibilità per il
modello della laicità, comporta superare i tre aspetti sopra ricordati.
Cosa molto difficile. Soprattutto per Paesi come la Francia, la Germania
e l’Italia che oggi avrebbero difficoltà a invertire il processo di
integrazione europea.
Si tratta allora di ridiscutere, con maggiore adeguatezza, alcuni
capisaldi comuni di un modello sostenibile di integrazione. Muoversi per
questa via, che allo stato in cui siamo sarebbe quella più ragionevole,
comporta affrontare almeno due temi.
Il primo è quello di cui si sta parlando da mesi: una politica europea
seria e coordinata per i profughi e un controllo più accurato delle
frontiere. Facile a dirsi, difficile, pare, a farsi.
Una tale questione, per quanto urgente, non è però la più importante. La
società europea nel suo insieme — e le diverse società nazionali al suo
interno — ha bisogno di chiarirsi le idee attorno al rapporto da
tenersi con la popolazione islamica.
Anche su questo punto il modello della laicità francese ha mostrato
limiti evidenti: negare persino la visibilità della fede religiosa nella
sfera pubblica, nelle condizioni sopra ricordate, non è una buona idea.
Ciò che va piuttosto chiarito, come ha scritto Claudio Magris sul
Corriere della Sera , sono i diritti e i doveri delle comunità di fede
musulmana. Sia dentro i confini europei che fuori. A questo proposito si
possono avanzare due considerazioni. La prima riguarda l’urgenza di
rilanciare, con le dovute chiarificazioni, il principio della libertà
religiosa, affermato da tutte le istituzioni internazionali. In un’epoca
di migrazioni, la libertà religiosa va resa una priorità sul piano
concreto dei rapporti internazionali, vincolandola al principio di
reciprocità. Una linea d’azione che deve arrivare a responsabilizzare le
stesse comunità religiose qui residenti, che di norma mantengono
stretti legami etnici o nazionali: il riconoscimento in Europa non può
essere indipendente da quello che accade nei Paesi di origine.
La seconda considerazione nasce dalla riflessione sul modello italiano,
specialmente sullo strumento del concordato. Trattandosi di soggetti che
hanno un importante ruolo sociale, le chiese devono essere disposte ad
assumere una esplicita riconoscibilità pubblica, con precisi diritti e
doveri, che le renda responsabili e leali nei confronti delle
istituzioni. L’idea che i gruppi religiosi costituiscano un affare
esclusivamente privato finisce per creare enclave semiclandestine. Cosa
oggi del tutto inaccettabile.
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