D'Alema che parla di Cossutta. Siamo fatti così, non c'è niente da fare: bastano due lacrimucce di
coccodrillo a un funerale e i rimorsi di circostanza di un anziano che
vede crollare il mondo attorno a sé - quel mondo che lui stesso aveva
minato alle fondamenta quando si sentiva giovane e cazzuto - e
dimentichiamo persino chi è stato D'Alema e cosa ha fatto. Tanto che
quasi quasi qualcuno lo nominerebbe per acclamazione.
Questa è la sinistra italiota: retorica del cuore e della "nostra comunità", lacrima facile e memoria labile. Non ci meritiamo solo Renzi: meritiamo di sparire e essere dimenticati nei secoli. Non è di un partito che abbiamo bisogno ma della mamma.
In realtà, oltre alla memoria labile esiste una affinità culturale profonda, un moderatismo strutturale, che unisce tutta la sinistra dal governo all'opposizione (come la foto evidenzia, per chi sa leggerla). Un comune sentire nazionalpopolaresco o nazionalpopulista, più che nazionalpopolare, che nasce
da un equivoco di lunga durata e chiama in causa la versione italiota
del materialismo storico e della linea politica "comunista". Un'incomprensione irreversibile di Gramsci e
anche di Togliatti. Tutto questo ha consentito che sopravvivessero
anche talune versioni iper-movimentiste ma non meno moderate sul piano
politico.
Canfora è perfido qui su Ingrao. Ma - con qualche forzatura - dice la verità anche a proposito di questo aspetto [SGA].
Cossutta e gli sciocchi
di Luciano Canfora il manifesto 18.12.15
La mia frequentazione di Armando Cossutta ebbe inizio con il primo dei Congressi del PCI morente (1989/90). Erano appena nate le tre mozioni. I dirigenti della mozione 2 mi «smistarono» sulla 3, quella di Cossutta e Libertini, forse perché non gradivano la mia lontananza dalle genericità ingraiane.
Cossutta ne fu ben lieto. Dopo alcuni anni di Pdup, mi ero iscritto soltanto nel 1988 al Pci perché mi sembrava doveroso impegnarmi a contrastarne il declino. E imparai a conoscere, nella breve e intensa vicenda di quegli anni, la grande serietà e concretezza di Cossutta, descritto scioccamente dagli avversari soprattutto interni al Pci, come «dinosauro» ed esponente di una causa irrimediabilmente tramontata.
Niente di più falso di tale cliché. Egli rappresentava, invece, limpidamente la trasformazione storicamente inevitabile del PCI nella vera socialdemocrazia del nostro paese: trasformazione già avvenuta ben prima del patetico «cambio del nome».
Potrei ricordare numerose vicende, ma ne trascelgo due.
Innanzi tutto il convegno congiunto, ad Arco di Trento, delle mozioni 2 e 3, che avrebbe dovuto portare ad una posizione unitaria ed il cui risultato fu vanificato dal tatticismo di Ingrao. Questi era attratto dalla prospettiva del «nuovo che avanza» ma sovente non aveva ben chiaro cosa fosse il nuovo. Cossutta e coloro che maggiormente lo coadiuvarono in quella circostanza non riuscirono ad ottenere il risultato che forse avrebbe salvaguardato l’unità del partito.
Dopo il Congresso di Rimini fu chiaro che la mozione 3 era stata messa nell’angolo dalle altre due, e si profilò la scelta della scissione. Scelta da me avversata nell’incontro che si svolse a Roma nei locali dell’Hotel Bologna, convocato per decidere cosa fare dopo il pianto di Occhetto ed i conseguenti risultati politici. Cossutta accettò e fece proprie le pressioni dei molti che chiedevano la separazione dal neonato Pds.
La vicenda che ne scaturì produsse due risultati entrambi negativi: il continuo spostamento a destra del Pds fino all’attuale sua autocaricatura sotto forma di Pd e, per altro verso, la durata effimera, nonostante i successi iniziali, del partito che presto si autodefinì Rifondazione Comunista (cui aderii dopo alcuni mesi per chiarezza).
Oggi Bersani è imbottigliato nella cosiddetta «ditta», costretto alla marginalità dal clan che si è impadronito del partito. Allora invece la scelta di restare e proseguire la battaglia politica avrebbe forse potuto mantenere il Pds nel solco del ruolo storico cui s’era consacrato per decenni il Pci.
Dalla autobiografia di Cossutta – libro di grande dignità intellettuale e morale – si comprende quanto quella scelta gli sia allora pesata e quanti dubbi egli nutrisse, e quante pressioni, allora incontenibili, lo abbiano deciso al gran passo.
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