Leggo ricostruzioni spesso fantasiose. La postdemocrazia dei saltimbanchi bonapartisti che c'è toccata in sorte non è l'esecuzione del Piano di Rinascita Democratica e dunque non è la conseguenza di un complotto. E' semmai la normalità del liberalismo quando le classi subalterne non sono abbastanza forti - perché sono sazie e distratte, e non sono né consapevoli, né unite, né organizzate - per esercitare quel conflitto dal basso che è necessario al fine di tenere in equilibrio i rapporti di forza politico-sociali, conquistare uno straccio di libertà e democrazia e magari puntare a far saltare il banco.
Il "piano" di Gelli è così simile al presente perché si limita a mettere in fila i desideri inconfessabili di ogni bravo liberale. Ovvero riportare le lancette ai tempi in cui gli unici ostacoli al potere delle élites erano costituiti da altre élites. Le cospirazioni ci sono sempre state: possono essere utili e fornire l'occasione propizia ma non sono sufficienti e non spiegano il corso della storia. Si installano semmai su processi profondi e ne cavalcano l'onda [SGA].
P2, se la storia si ripete
Licio Gelli. Il referente più importante della destra americana dopo la Liberazione. Quel giorno del 1988 a Villa Wanda, quando il Venerabile negava i rapporti con la banda neofascista di Tuti
di Sandra Bonsanti il manifesto 17.12.15
Era il 27 dicembre del 1947 e a Palazzo Giustiniani Enrico De Nicola, firma la Costituzione italiana. Accanto a lui, in piedi, Alcide De Gasperi e, fra i due, un giovane di 25 anni con una cartella in mano che contiene una copia della nostra Carta. E’, senza forse, il momento più sacro della nostra nascita come Repubblica democratica. Ma il giovane che assiste si chiama Francesco Cosentino, si iscriverà presto alla loggia P2 e con Licio Gelli, una decina di anni dopo la firma solenne di De Nicola, contribuirà alla stesura del “Piano di Rinascita”, documento programmatico della loggia segreta.
Ho sottoposto quella foto che compare su tutti i libri di storia a chi allora conobbe Cosentino: non c’è alcun dubbio, è proprio lui. Ed è questo un particolare tanto inquietante quanto sconosciuto e per niente studiato. Oggi che cerchiamo di fare bilanci sulla P2 io non ho ancora risposte. Se non quella che sin dall’inizio della nostra Repubblica c’era qualcosa che già si agitava nel sottobosco della politica. Tra i sostenitori della Costituzione, c’era già chi era pronto a tradirla con un progetto di «rivitalizzazione del sistema» e ritocchi costituzionali «successivi al restauro delle istituzioni fondamentali».
Questa foto che un giorno mi rendeva tanto fiera, mi pare oggi violentata dal dubbio. Non credo che la commissione P2 abbia sottolineato questo aspetto, ma forse non conosco tutti gli atti prodotti. In sostanza si potrebbe dire che la Repubblica italiana nacque già insidiata dall’interno, da subito. E alla luce di tutto il resto che sappiamo ormai della loggia di Gelli, dei progetti del Venerabile e dei suoi fratelli, verrebbe da concludere che non poteva che andare così, negli anni. E cioè il crearsi e il perpetrarsi di quella malattia che Norberto Bobbio aveva individuato dai primi giorni della scoperta degli elenchi: «Ciò che in un regime democratico è assolutamente inammissibile è l’esistenza di un potere invisibile, che agisce accanto a quello dello Stato, insieme dentro e contro, sotto certi aspetti concorrente, sotto altri connivente, che si avvale del segreto non proprio per abbatterlo ma neppure per servirlo. Se ne vale principalmente per aggirare o violare impunemente le leggi».
Come può difendersi la Repubblica? Si domandava Bobbio. E la sua era come sempre una risposta geniale: «L’unico modo di difendere le istituzioni democratiche è quello di fare quadrato attorno a coloro che non hanno mai avuto la tentazione di sprofondare nel sottosuolo per non farsi riconoscere. Sono molti, per fortuna, ma devono avere il coraggio ed agire di conseguenza».
Mi occupavo di lui da quindici anni almeno, ma non lo avevo mai visto né sentito. Dall’aprile del 1981, quando scoppiò la vicenda P2, era stato sempre in fuga o in prigione. Dunque, quel 21 aprile del 1988 eravamo i primi ad incontrarlo a Villa Wanda: dico noi perché erano due fotografi del Venerdì di Repubblica ad avere un appuntamento per un servizio. Io ero una sorpresa. Lasciai la redazione romana con Giampaolo Pansa che mi raccomandava: «Chiamalo Commendatore..!».
Disubbidii subito rivolgendomi a lui con un sonoro e quasi insultante «signor Gelli». «Ho bagnato di lacrime i suoi articoli», mi disse appena mi presentai. Mi accusava di non aver mai dato la sua versione dei fatti e io gli rispondevo forse un po’ aggressiva: «Ma lei perché è scappato? Di cosa aveva paura?».
Più trascorre il tempo e più mi rendo conto di quanta parte di storia italiana sia passata per Villa Wanda. E ora che lui è morto e Arezzo è diventata improvvisamente la città al centro della polemica politica italiana e si cerca di fare dei bilanci, non resta che ammettere una cosa molto semplice: Licio Gelli è stato il referente più importante degli accordi firmati all’indomani della Liberazione tra gli americani e gli alleati italiani.
L’Italia doveva assicurare una obbediente e efficace difesa dal blocco sovietico e soprattutto che il Pci fosse tenuto lontano dal governo del Paese. Gelli è stato l’alleato più fedele della destra americana e dei suoi servizi segreti. Questo ha comportato l’essere a conoscenza delle vicende più inquietanti e drammatiche della strategia della tensione e anche conoscere e proteggere alcuni responsabili di quei fatti. Inoltre Gelli ha avuto una conoscenza più che diretta di quali personaggi politici italiani sapessero e tacessero. Con ognuno di loro ha avuto per tanti decenni una sorta di patto del silenzio.
Comunque in quel colloquio mi resi conto che non avrebbe mai smentito la conoscenza dei capi politici della Dc, ma gli unici personaggi da cui era interessato a prendere le distanze erano i neofascisti toscani delle cellule di Mario Tuti e di Arezzo, che lui aveva invece incoraggiato e finanziato. Badava a ripetere: «Ma le pare che io che ho convocato tre generali dei carabinieri qui a casa mia, avrei perso del tempo con quei ragazzi?».
Ci si chiede in queste ore se sia veramente finita: se la storia della P2 si chiuda qua oppure no, se ci sia dell’altro, e altri personaggi ancora sconosciuti. Finita mi pare che non sia. Tanto più che ex piduisti, alcuni dei quali molto vicini al Venerabile, sono ancora vivi e vegeti e attivissimi. C’è ad esempio Luigi Bisignani che, giovane giornalista dell’Ansa andava ogni mattina all’hotel Excelsior a fare la rassegna stampa al Venerabile. Ci sono gli epigoni di quella “banda della Magliana”, incrocio fra servizi segreti e criminalità comune che vennero agli onori della cronaca con la fuga a Londra e la morte sotto il Ponte dei Frati Neri del banchiere piduista Roberto Calvi e che oggi spiccano nei racconti di Roma Capitale. E c’è la strana storia del generale Mario Mori che in uno dei processi siciliani per la trattativa tra Stato e Mafia è stato indicato come uno che reclutava adepti per la loggia P2.
Infine, difficile negare che restano in piedi alcuni progetti di quello che fu il “Piano di Rinascita” e che Gelli spiegò nei dettagli nella sua intervista al Maurizio Costanzo sul Corriere della Sera del 1980. La critica alla Costituzione nata dalla Liberazione è ancora quella che si fa oggi per giustificare le riforme del governo. Parola per parola. La storia si ripete, almeno quella della P2.
Mezzo secolo di misteri italiani tra poteri invisibili e cialtroneria
Gelli ha incarnato i poteri occulti ma anche le millanterie provinciali
di Luigi La Spina La Stampa 17.12.15
Ci sono uomini la cui vita è trascorsa così nelle tenebre che nemmeno la morte riesce a rischiararla. È il caso di Licio Gelli, che se n’è andato nella tomba senza che si possa distinguerne il vero ruolo nella storia della cosiddetta nostra prima Repubblica e senza neppure poter escludere dalla sua biografia uno dei tanti soprannomi con i quali si è tentato di definirlo: «venerabile maestro» della loggia massonica più oscura, la P2, burattinaio di mille fili nella classe dirigente della seconda metà del secolo scorso.
Golpista di un improbabile progetto di «rinascita democratica», diabolico regista di tutti i complotti, veri e presunti, contro lo Stato. Ma anche il prototipo dell’italico millantatore, provinciale seduttore di carrieristi dall’ambizione sproporzionata per i loro modesti ingegni, assiduo frequentatore delle anticamere dei potenti, come dei retrobottega di trafficanti, quelli dei soldi e quelli delle anime.
L’assoluta oscurità
Eppure, l’esistenza del quasi centenario Gelli potrebbe persino meritare l’epitaffio più terribile e calzante che Norberto Bobbio scrisse in un famoso libro, «Democrazia e segreto», a proposito dei vizi della Repubblica: «Non si capisce nulla del nostro sistema di potere se non si è disposti ad ammettere che, al di sotto del governo visibile, c’è un governo che agisce nella penombra... e ancor più in fondo un governo che agisce nella più assoluta oscurità... un potere invisibile che agisce accanto a quello dello Stato, insieme dentro e contro, sotto certi aspetti concorrente, sotto altri connivente, che si vale del segreto non proprio per abbatterlo, ma neppure per servirlo».
Non c’è miglior descrizione dell’abilità mefistofelica con cui il capo della P2 si mosse, tra il palcoscenico e i camerini del teatro della nostra vita pubblica, di questo passo di Bobbio che individua magistralmente quel «filo nero» nella storia dei primi cinquant’anni di vita democratica che attraversa politica, magistratura, forze armate, servizi segreti, banche, giornalismo, in un labirinto di intrighi in cui la malavita comune fa sempre da indispensabile complice, qualche volta servizievole, qualche volta ricattatore.
La lista
Fu una dolcissima sera del meraviglioso maggio romano del 1981 a illuminare all’improvviso il mistero di quella contiguità, concorrenziale e connivente, tra una parte, sia della classe dirigente nazionale sia della società civile d’allora, e il sottobosco di un potere occulto, teso a impadronirsi dei più importanti centri di controllo della macchina statale, ma anche dei mezzi più influenti nell’orientamento dell’opinione pubblica. Il governo Forlani decise di pubblicare i nomi dei quasi mille appartenenti alla loggia di Gelli e davanti a noi cronisti, intenti a strapparci di mano quei fogli sbalorditivi, comparve una verità tanto inquietante quanto confusa. Era la prova di quanto fosse pervasivo il condizionamento del burattinaio di Castiglion Fibocchi, perché nell’elenco c’erano ministri, parlamentari, imprenditori, finanzieri, magistrati, editori e giornalisti famosi. Ma era indistinto il ruolo di quei personaggi nelle trame di Gelli e incomprensibile il grado di consapevolezza e, quindi, di responsabilità nei suoi progetti eversivi.
L’esito di quella rivelazione fu, quindi, duplice e contraddittorio. Gettò un’infamante, ma generica macchia di ignominia sui nomi coinvolti, ma alimentò una serie di dissociazioni, smentite, confessioni, pentimenti, accuse incrociate tali da rendere, per sempre, faticoso e impossibile l’accertamento giudiziario, o semplicemente morale, della verità. In quelle liste c’era lo specchio dell’immutabile società italiana, con tutte le sue multiformi incarnazioni: c’erano nostalgici di uno squallido passato, militanti contro un pericolo comunista in quegli anni già avviato alla definitiva sconfitta, in combutta con servizi segreti deviati, nazionali e americani, ma pure impazienti carrieristi che cercavano una scorciatoia per l’ambita poltrona e, persino, forse, ingenui scalatori sociali convinti di far parte del club più elitario del Paese.
I tanti traditori
Traditori della Costituzione alla quale i rappresentanti dello Stato avevano giurato fedeltà e traditori della deontologia professionale, come medici, avvocati, giornalisti ebbero così destini diversi. Alcuni scomparvero dalla scena pubblica, altri rimasero «in sonno» per qualche tempo, non più dall’appartenenza alla massoneria, ma dalla ribalta politica e sociale, altri ancora, in virtù di spettacolari abilità mediatiche, addirittura accrebbero successi e popolarità. Tutti evitarono guai giudiziari, ma anche il loro capo, Gelli appunto, passò in galera poco tempo, tra fughe all’estero, complicati procedimenti di estradizione, clamorose evasioni, prescrizioni dei reati, libertà provvisorie per motivi di salute. E, alla fine, persino la sua famosa villa «Wanda», dal nome della sua prima moglie, gli fu restituita.
I suoi eredi
Una lunga parabola, quella del «venerabile», tipica di tanti vizi di casa nostra, pubblici e privati. Un uomo accusato di essere il protagonista di tutti i peggiori crimini della storia recente, dal golpe Borghese al crac Sindona, dall’omicidio Moro alla strage di Bologna, che riesce, sostanzialmente, a sfuggire alla pena prevista dalla giustizia. Un personaggio che volteggia, indecifrabile, tra le vette del male, emblema di quel «potere invisibile» della prima Repubblica, e la cialtroneria dei più famosi interpreti della commedia all’italiana, farsesco epigono di Totò e Tognazzi. Purtroppo, Gelli non si è portato nella tomba anche i suoi misteri. È possibile, anzi è probabile, che gli eredi di quei suoi misteri siano ancora tra noi.
Un esame storico meditato sul ruolo eversivo della P2di Massimo Teodori Corriere 17.12.15
Non giova alla storia d’Italia e alla salute della democrazia continuare
a rappresentare Gelli con una vulgata che lo dipinge come burattino
della Cia, sponsor di tutte le stragi degli anni Settanta, grande
complottista pronto a ribaltare l’Italia con il Piano di rinascita
democratica, e depositario dei misteri irrisolti. La natura eversiva
della P2 è stata tutt’altro. Ha svuotato il potere politico, economico,
militare e giornalistico ufficiale, ed ha rafforzato il potere della sua
consorteria che portava a termine le operazioni inconfessabili del
mondo istituzionale oltre che i propri interessi.
L’agenzia dei servizi sporchi targata Gelli non avrebbe potuto dominare
un’area così variegata se non avesse agito di conserva con una parte
tutt’altro che secondaria del ceto dirigente. La genialità del Gran
Maestro fu quella di mettere insieme le lobby nere nei diversi settori e
farle reagire in un unico disegno di potere di gruppo insieme a Umberto
Ortolani, fiduciario della Democrazia cristiana e gentiluomo della
Santa Sede, e ad alcune «direzioni strategiche» di settore senza che
necessariamente fossero coinvolte tutte le persone iscritte nella
famosa lista. L’arma regina di Gelli fu il ricatto ai potenti. Ma i
ricatti non hanno effetto se non colpiscono un personale ricattabile
come quello che allora occupava i vertici militari e dei servizi,
dell’economia e della finanza, dell’informazione e della politica. I
referenti nei partiti furono resi noti, a cominciare dall’onorevole
Andreotti il cui nome ricorre spesso nella documentazione della
commissione d’inchiesta parlamentare.
A trentacinque anni dalla scoperta della P2, il cui merito va ai
magistrati milanesi Colombo e Turone che indagavano su Sindona, è
arrivato il momento di lasciare ai demagoghi e ai giustizialisti il
culto della leggenda che addossa alla formula magica della P (tanto da
inventare, dopo la P2, le P3, P4 eccetera) tutti i mali oscuri d’Italia.
E di passare a un più meditato esame storico basato sui fatti e non
sulle facili demonizzazioni.
Gelli, l’ultima inchiesta e i misteri irrisoltiL’indagine per l’omicidio Calvi si chiuderà «per morte del reo» Tra prescrizioni e assoluzioni uscì dai processi su golpe e P2di Giovanni Bianconi Corriere 17.12.15
L’ultima inchiesta si concluderà con la formula «per morte del reo». A
96 anni Licio Gelli se n’è andato con un’indagine a suo carico ancora
aperta, sebbene con una richiesta di archiviazione pendente: quella per
l’omicidio di Roberto Calvi, il «banchiere di Dio» iscritto alla Loggia
P2 e trovato morto sotto il ponte di Londra, nel giugno 1982. Il
pubblico ministero aveva chiesto la riapertura dell’inchiesta sul
Venerabile come mandante del delitto, con questo movente: «Evitare che
Calvi potesse esercitare il suo potere ricattatorio e svelare i segreti a
sua conoscenza».
Alla fine dei nuovi accertamenti, però, nell’ottobre 2013 lo stesso pm
aveva concluso per l’archiviazione, come già accaduto in passato: «Gli
elementi probatori di cui si dispone consentono di ritenere molto
plausibile una corresponsabilità nel delitto, ma non hanno assunto il
valore di prove certe». Esito che ha lasciato insoddisfatto l’erede di
Calvi, il figlio Carlo, il quale aveva chesto al giudice delle indagini
preliminari di ordinare nuove accertamenti. La decisione del giudice era
attesa a giorni, ma l’indagato non ce l’ha fatta a vedere la fine. Così
i segreti alla base del possibile ricatto rimarranno tali: morto Calvi
(assassinato con simulato suicidio) e morto Gelli nel suo letto, resta
la leggenda dei misteri che finiscono nella tomba insieme ai loro
custodi.
Misteri che cominciano quando il futuro capo della P2 è poco più che un
ragazzo e si mostra già abile nei doppi e tripli giochi tra partigiani,
repubblichini, Alleati anglo-americani, ex fascisti, e secondo qualcuno
persino servizi segreti dell’Est. Manovre che ne caratterizzeranno
l’intera esistenza, insieme all’affiliazione alla massoneria: recinto
nel quale coltiva contatti e — sosterranno le accuse a suo carico —
tesse trame contro la democrazia.
I segreti del fallito golpe Borghese (dicembre 1970) passano anche da
lui se venticinque anni dopo, nel 1995, un giudice sarà costretto a
chiudere il procedimento per prescrizione, stabilendo però che «risulta
obiettivamente accertato un ruolo di Gelli nei fatti di cospirazione
politica». Pare che toccasse a lui il compito di arrestare il presidente
della repubblica Giuseppe Saragat, e che fu proprio una sua telefonata a
bloccare il blitz all’ultimo momento. Ma il Venerabile ha sempre
taciuto o negato ogni responsabilità a seconda delle circostanze.
Da allora, mentre la P2 si espandeva arruolando esponenti politici,
funzionari dello Stato civili e militari, imprenditori, giornalisti e
personalità influenti di ogni tipo, il nome di Gelli ha accompagnato
pressoché ogni vicenda misteriosa, e ogni processo in cui
s’intrecciavano politica e affari, crimini e patti inconfessabili. Veri o
presunti. Dalle stragi nere al sequestro Moro ad opera dei brigatisti
rossi, dall’eccidio alla stazione di Bologna (2 agosto 1980, 85 morti e
oltre duecento feriti) al crac del Banco Ambrosiano, con correlata
scalata al Corriere della Sera , passando per l’omicidio Pecorelli e
molte altre indagini su massoneria deviata e finanza drogata. Vicende
nelle quali ha avuto quasi sempre al suo fianco l’avvocato romano
Michele Gentiloni Silveri, che lo assisteva anche nell’ultimo
procedimento sull’omicidio Calvi.
Ma il mistero più grande, quello che più ha inciso sulla sua storia
personale e forse del Paese intero, riguarda la trama grazie alla quale è
riuscito a farsi assolvere nel processo P2, quello dov’era imputato di
«cospirazione politica mediante associazione». Un altro verosimile
esercizio del potere occulto. Se la commissione parlamentare d’inchiesta
guidata da Tina Anselmi è faticosamente riuscita a denunciare
l’inquinamento istituzionale provocato da Gelli, attraverso una
«ragionata e massiccia infiltrazione nei centri decisionali di maggior
rilievo, sia civili che militari, e ad una costante pressione sulle
forze politiche», alla magistratura restava da chiudere il cerchio sul
fronte giudiziario. Dopo la scoperta degli elenchi dei quasi mille
iscritti negli uffici di Castiglion Fibocchi, la Procura di Milano
cominciò a indagare, ma presto arrivò lo «scippo» (così definito per
come si svolsero i fatti e si accavallarono le indagini, con tanto di
conflitto di competenza davanti alla Corte di Cassazione deciso dalla
sezione feriale durante l’estate del 1981) che spostò tutto a Roma.
Mentre Gelli era latitante all’estero. In due anni arrivò la richiesta
di proscioglimento per i coimputati, e quando il processo al Venerabile
(nel frattempo arrestato in Svizzera ma non estradato per il reato di
cospirazione) approdò sul tavolo del pubblico ministero Elisabetta
Cesqui, lei stessa constatò che «era già morto», per come era stato
condotto fin lì. La battagliera inquirente provò a rianimarlo,
utilizzando gli elementi raccolti dalla commissione d’inchiesta che
potevano provare il condizionamento esercitato su governo e Parlamento.
Ma fu tutto inutile. La «morte del processo», certificata dalla
definitiva assoluzione, ha consentito a Licio Gelli di sopravvivere
potendo sostenere che la P2 era solo un gruppo di amici. Massoni e
influenti, ma niente di più.
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