domenica 6 dicembre 2015

Due storie dei giubilei e altro

Il giubileo
Alberto Melloni: Il giubileo. Una storia, Editori Laterza, Roma-Bari, pagg.138, € 15,00

Risvolto
Il giubileo, o Anno Santo, è apparso sulla scena della storia nel Trecento come uno strumento economico e politico di prima grandezza della monarchia pontificia. La ricerca di risorse e fama per caratterizzare il proprio pontificato costrinse, dopo poco tempo, a prevedere anche un giubileo straordinario. Quella dell'Anno Santo è, dunque, una tradizione ambigua fatta di trionfalismi, lacerazioni e religiosità popolare. Alberto Melloni ricostruisce questa storia e analizza le ragioni che hanno spinto papa Francesco ad indirne uno proprio in occasione del cinquantesimo anniversario del concilio Vaticano II. Bergoglio lo ha promosso con parole inedite e con la volontà esplicita di "mobilitare" il popolo di Dio, per chiedere ai fedeli di indicare la direzione da prendere, soprattutto dopo un sinodo nel quale la Chiesa si è misurata non con morali vecchie o nuove, ma col Vangelo.


Anno SantoGiovanni Miccoli: Anno Santo. Un’“invenzione” spettacolare, Carocci, Roma, pagg. 142, € 12,00

Risvolto
Il volume non è né vuole essere una storia degli anni santi. Si propone piuttosto di cercare di capire come si colloca, in una tradizione secolare e all’interno delle “novità” introdotte attualmente nella pratica del ministero papale, l’indizione giubilare di Francesco: la scelta di uno strumento collaudato e tradizionale come atto di un pontefice per tanti aspetti non tradizionale. I caratteri dell’Anno Santo infatti, quali si articolano nei settecento e più anni della sua esistenza, sono fortemente marcati, in una sorta di unità ripetitiva, anche se non priva di variazioni marginali e di differenze. A questi aspetti è dedicata la prima parte del lavoro (dal primo Anno Santo, indetto da Bonifacio VIII nel 1300, fino a quello del 2000 proclamato da Giovanni Paolo ii), come premessa necessaria per un confronto con i caratteri e le prospettive dell’anno giubilare voluto da papa Francesco, oggetto della seconda parte del volume.





STEFANIA FALASCA Avvenire 16 marzo 2016

Storia dei Giubilei/1 Da Bonifacio a Francesco
di Tullio Gregory Il Sole Domenica 6.12.15
Alberto Melloni traccia la storia degli anni giubilari dal 1300 fino all’epoca attuale. Un’istituzione nata per lucrare indulgenze diventa oggi testimonianza di misericordia
Con questo volume, di grande leggibilità ma frutto di una lunga esperienza di storico del cristianesimo, Alberto Melloni non intende offrire una tradizionale e vulgata storia degli anni santi, o giubilari, ma dare il senso che essi assumono nella cristianità occidentale, dal primo indetto da Bonifacio VIII nel 1300 fino all’attuale – straordinario – che, voluto da Papa Francesco, inizia in questo oscuro dicembre 2015.
Nato come indulgenza plenaria concessa dal papa ai fedeli che compissero un pellegrinaggio a Roma praticando alcuni atti penitenziali, il primo anno santo – non ancora chiamato così, né giubileo - ereditava la pratica delle indulgenze plenarie di cui il papato aveva fatto largo uso soprattutto per i crociati e quanti combattessero eretici o nemici della Chiesa di Roma; anno di perdono, non senza risvolti politici dato che Bonifacio VIII ne escludeva i suoi avversari, i Colonna e i siciliani ribelli alla Chiesa. Papa Caetani – Bonifacio – prevedeva una cadenza secolare, diventata subito cinquantennale (il secondo fu nel 1350) poi venticinquennale da fine Quattrocento.
Melloni, nel delineare i mutamenti che nel volgere dei secoli assume la pratica penitenziale e politica della periodica indizione degli anni santi (ordinari e straordinari) insiste sul carattere che essi hanno conservato nel tempo, legati sempre alla riaffermazione della centralità di Roma, del pontefice e mette in evidenza come la pratica e la “tecnica” delle indulgenze (lucrabili dai tempi di Bonifacio anche con donazioni in denaro) si ponga al centro di controversie e dibattiti in seno alla cristianità, fino a provocare la definitiva frattura dell’unità cristiana medievale con la ribellione di Lutero che, proprio sul tema delle indulgenze, dell’anno giubilare, del valore salvifico dei pellegrinaggi e del culto dei santi, condurrà la sua più dura polemica con la Chiesa di Roma.
Anche se il Concilio di Trento cercherà di fissare una prassi delle indulgenze e combatterne il commercio, restava centrale il potere del pontefice nella remissione delle pene con la gestione delle indulgenze e soprattutto – come verrà confermato dalla storia dei successivi anni santi – se ne ribadiva il valore tanto con cerimonie spettacolari in occasione dell’anno giubilare, quanto con prese di posizione dottrinali contro i nemici del momento: così fino al 1950, quando, nel corso dell’anno santo, Pio XII condannava con l’enciclica Humani generis i movimenti di rinnovamento teologico che animavano allora il cattolicesimo, soprattutto francese.
Poi l’epocale svolta imposta dal Vaticano II, che Giuseppe Alberigo individuava già nel discorso di Giovanni XXIII in apertura del Concilio, l’11 ottobre 1962, dove alla tradizionale «medicina della severità», praticata dalla Chiesa con le «armi della severità», si opponeva la «medicina della misericordia», e il magistero ecclesiastico riscopriva il suo carattere essenzialmente pastorale, rinunciando al metodo della condanna e degli anatemi.
Non a caso Papa Francesco ha indetto questo giubileo nel cinquantesimo anno della conclusione del Vaticano II del quale ha con forza ripreso e sviluppato «i principi di sinodalità, di povertà, di pace, di unità,di riforma della chiesa e del papato», come scrive Melloni. Giubileo dunque del Concilio con il quale, ha detto Papa Francesco, la chiesa deve «rendere più evidente la sua missione di essere testimone della misericordia», così da «riscoprire e rendere feconda la misericordia di Dio». Le stesse indulgenze – come computo ragionieristico in termini di giorni o di anni che si possono “lucrare” per vivi e defunti - scompaiono rispetto al primato del perdono che è solo di Dio. Anche la Porta Santa in San Pietro, la cui apertura è simbolo dell’inizio dell’anno giubilare, diviene, nel linguaggio del pontefice, «Porta della misericordia».
«Che in questo contesto - conclude Melloni - Papa Francesco abbia posto l’indulgenza in mano a Dio e solo a Lui, che abbia fatto della comunione la chiave della ministratio di quest’annuncio di perdono ha un peso di cui è difficile sottovalutare la portata».


Tutte le bolle dell’Anno SantoGiovanni Miccoli analizza i testi di indizione del Giubileo, cogliendone il cambiamento dettato da tempi e avversari nuovi della Chiesa. La svolta di Francesco
Massimo Firpo Domenicale 13 12 2015
Il primo Anno Santo fu annunciato nel 1300 da papa Bonifacio VIII, che con esso stabiliva un periodo di un anno in cui chiunque si fosse recato a Roma per visitare con apposite preghiere le quattro principali basiliche, passando attraverso le porte sante aperte per l’occasione, avrebbe potuto fruire di speciali indulgenze plenarie, tali da cancellare non solo le pene terrene per i propri peccati, ma anche quelle ultraterrene del purgatorio. L’evento avrebbe dovuto avere una periodicità secolare, che non tardò a essere ridotta a 50 e poi a 25 anni, peraltro intervallati da sempre più numerose indizioni straordinarie. Il suo antecedente storico era il giubileo ebraico (dal nome del corno di ariete, Jobel, che lo annunciava), in base alla quale ogni 50 anni veniva proclamato un perdono generale, con remissione dei debiti e delle pene, liberazione dei carcerati, ritorno di ciascuno ai propri beni originari (Lev. 23).
Il suo fondamento teologico stava nell’esclusivo possesso degli infiniti meriti di Cristo da parte della Chiesa romana, mater et magistra di tutte le altre, e del suo esclusivo diritto di dispensarne l’inesauribile tesoro a beneficio delle anime. Certo, non era facilissimo spiegare perché – se poteva farlo – non lo facesse sempre, ma tant’è: l’invito a venire a Roma per trovarvi un Deus placabilis convinse e convincerà sempre di più migliaia di pellegrini (i cosiddetti romei) a mettersi in cammino su strade disagiate e pericolose per recarsi nella città santificata dalle tombe di san Pietro e san Paolo, dal sangue dei martiri protocristiani, dalle preziosissime reliquie che vi si conservavano.
Era un viaggio costoso, che tanto più selezionava chi poteva permetterselo quanto più veniva da lontano, e assumeva talvolta le caratteristiche di un fastoso corteo di qualche grande della terra. Una fonte di reddito per la Chiesa, attraverso elemosine e offerte, un’occasione per il popolo romano di taglieggiare i pellegrini in pessime ed esose locande, un momento privilegiato per i briganti che infestavano le campagne di incrementare il numero delle loro vittime, un invito alle varie nationes a dar vita a ospizi e ospedali. L’Anno Santo era anche questo. A prescindere tuttavia da tali sfondi umani non sempre edificanti, l’indizione del giubileo era in primo luogo (e sempre di più sarà in futuro) un modo per ribadire l’assoluta supremazia del pontefice romano, del vicario di Cristo in terra, unico a poter disporre a suo arbitrio di quel tesoro infinito, capace di cancellare ogni pena. Non è un caso che quello del 1300 anticipasse di solo due anni uno dei documenti più celebri dell’affermazione del primato papale su ogni altro potere terreno nella bolla Unam sanctam contro Filippo il Bello di Francia, che meno di un anno dopo avrebbe ripagato papa Caetani con il celebre schiaffo di Anagni.
Con la consueta finezza storica nel distinguere tempi e momenti, Miccoli analizza rapidamente i testi delle bolle di indizione, cogliendone l’evoluzione, il cambiamento – pur nella costante ripetitività di formule e concetti – per misurarsi coi tempi nuovi e con i nuovi avversari di santa Chiesa che essi proponevano, eretici luterani e calvinisti nel Cinquecento, illuministi e massoni nel Settecento, liberali e socialisti nell’Ottocento, comunisti e atei militanti nel Novecento, sovrani invadenti e avversari politici sempre. Il concilio Vaticano II parve tuttavia innestare prospettive nuove in questa tradizione, che irrigidiva la Chiesa di Roma nella sua ferrea identità di unica depositaria della verità, incapace di reagire ai processi di secolarizzazione se non con la stanca riproposizione del suo immobile magistero, assai poco coerente con l’avvio di quello che avrebbe dovuto essere un nuovo dialogo ecumenico con altre confessioni e altre fedi. Prigioniero delle sue incertezze e contraddizioni, Paolo VI cercò debolmente di conciliare presente e passato nei giubilei del 1966 e 1975, mentre una voce nuova risuonò in quelli di Giovanni Paolo II, e in particolare in quello del 2000, tertio adveniente millennio, preceduto e accompagnato da una nuova strategia del perdono, non solo elargito, ma anche richiesto dalla Chiesa per le colpe di cui si era resa responsabile: nei confronti degli ebrei e degli schiavi, per esempio, o delle donne, degli eretici torturati e uccisi, di filosofi e scienziati come Galileo. Una prospettiva nuova, insomma, che si asteneva tuttavia dal chiamare in causa le colpe della Chiesa come istituzione, attribuite solo ad alcuni dei suoi figli, ovviamente per evitare che la fallibilità del passato potesse mettere in discussione l’infallibilità del presente.
Di qui la grande novità del nuovo giubileo, il giubileo della misericordia, che inizierà l’8 dicembre, giorno dell’Immacolata ma anche cinquantesimo anniversario della conclusione del Vaticano II, che si svolgerà non solo a Roma ma in tutte le diocesi e i santuari del mondo. Attraverso l’analisi di scritti, omelie, interviste di papa Francesco, l’ultima parte del libro delinea un quadro sintetico ma assai convincente del modo in cui egli interpreta il ruolo pastorale della Chiesa nel nostro tempo: un ruolo basato appunto sulla misericordia e non sulla verità come fondamento del cristianesimo, una misericordia che guarda anzitutto a quelle che il pontefice ha definito «le periferie dell’esistenza», i poveri, gli emarginati, gli oppressi, i migranti, che non insiste sulle differenze di opinioni ma sul «camminare insieme». Una misericordia di cui la Chiesa stessa ha bisogno per i suoi «comportamenti non cristiani» di ieri e di oggi, che non devono più essere nascosti sotto i panni curiali di un clericalismo duro a morire. Siamo di fronte a una svolta profonda, spiega Miccoli, mettendo in luce come «la riscoperta della misericordia come espressione suprema della vita e del messaggio di Cristo» costituisca la premessa «di una grande riforma individuale e collettiva». Non stupiscono quindi le crescenti resistenze contro un pontefice che, lungi dall’esaurire nella comunicazione la sua missione pastorale, intende – per come può – esercitarla fino a incidere in profondità nella carne viva della tenace autoreferenzialità della Chiesa romana, dei suoi affaristi corrotti e corruttori, dei suoi ineffabili prelati barricati nei loro opulenti attici romani.

Il prezzo della salvezza 
Alessandro Santagata Manifesto 18.12.2015, 0:03 
In un libro di qualche anno fa Adriano Prosperi, descrivendo i percorsi storici dell’immagine della Giustizia Bendata, scriveva: «ancora oggi la parola grazia trascina spesso con sé una serie di termini più o meno connessi. Il lessico di questa strana famiglia, nel suo confuso mescolare cose diversissime come l’idea cristiana di misericordia, la tradizione ebraica del giubileo, la fiducia illuministica nella rieducazione del delinquente, basta a indicare perché è così difficile intendersi» (Giustizia bendata, Einaudi, 2008).
Per fare chiarezza, lo studioso attingeva agli strumenti della storiografia e dell’iconografia, mettendo in luce come l’esigenza cristiana di una manifestazione dell’ordine della Grazia abbia performato la rappresentazione e le pratiche della Giustizia terrena. La parola chiave in questo processo di secolarizzazione è «misericordia». Nella medesima prospettiva di storia della Giustizia si spiega anche l’istituzione rituale del giubileo. Siamo tra l’XI e il XIII secolo e dunque nel pieno della contesa tra papato e Impero.
L’obiettivo del pontefice è affermare la superiorità del suo potere attingendo al repertorio dell’immagine cristiana della salvezza dell’anima, considerata prioritaria rispetto alla sorte del corpo. Unica amministratrice del «tesoro delle soddisfazioni», offerto dal Cristo a risarcimento dei peccati degli uomini, la Chiesa utilizza questa funzione per surclassare la giustizia terrena, che pure, a sua volta, rivendica una legittimazione divina. 
Contro l’inflazione
Il primo giubileo convocato da Bonifacio VIII nel 1300 si inserisce quindi in un percorso, scandito dall’invenzione del Purgatorio, della stabilizzazione della «penitenza auricolare» e dalla ritualizzazione penitenziale dell’anno liturgico, che punta a fare della Roma papale il centro amministrativo della Giustizia di Dio. Si inserisce in tale contesto anche l’uniformazione tariffaria delle pene, del «prezzo» ascetico della penitenza o dei criteri della sua commutazione in offerte. Come spiega Alberto Melloni (Il giubileo. Una storia, Laterza), «è questo sistema di equivalenze a generare la prassi e la teoria dell’’indulgenza’». Al confronto – di nuovo Prosperi – «l’offerta del potere temporale di cancellare saltuariamente qualche delitto non poteva che sbiadire».
Tra i primi problemi che si pongono agli organizzatori dell’«anno santo» c’è quello di non inflazionare una prassi, quella dell’indulgenza plenaria, fino ad allora legata essenzialmente alla mobilitazione per le crociate. Anche per questo la parola «giubileo» non viene utilizzata nella bolla d’indizione di papa Caetani e la calendarizzazione del rito viene regolata con cura. Clemente VI fissa la regola dei 50 anni. Il fabbisogno di consenso e le necessità economiche spingono i successori ad accorciare i tempi a 33 e poi a 25 anni. Non bisogna dimenticare, del resto, che lo strumento giubilare è anche straordinariamente redditizio per il papato in virtù delle entrare connesse alle indulgenze. Nel 1500 papa Borgia ne fa un evento spettacolare con l’apertura della «porta santa» in San Pietro e l’organizzazione di spettacoli «santi» a Piazza Navona e al Colosseo. 
Pena e colpa
Contro la vendita porta a porta delle indulgenze si scaglia il monaco agostiniano Lutero. La risposta cattolica alla Riforma prevede il disciplinamento della pratica e una distinzione netta tra la pena (che si cancella con l’indulgenza) e la colpa (che solo Dio può perdonare con la sua misericordia). Questo impianto «tridentino» non verrà più modificato nella sostanza. A cambiare saranno invece forme e obiettivi, ancora una volta in relazione all’evolversi del confronto/scontro con il potere temporale.
Dopo le difficoltà del XIX secolo, lo strumento giubilare torna in auge con Leone XIII nel 1900. Contro la deriva secolarizzante della società contemporanea le associazioni del movimento cattolico si mobilitano per celebrare la devozione al papa. Il meccanismo si raffina cinquant’anni dopo con il giubileo di Pio XII, svoltosi nel segno della repressione della teologia «progressista» d’oltralpe e della campagna dell’Azione cattolica contro il comunismo. Nonostante il successivo tentativo di Paolo VI di conciliare il giubileo con la nuova sensibilità post-conciliare, al tempo della televisione questo strumento della monarchia papale conserva dunque una missione auto-celebrativa. 
È ancora fresca la memoria dei papa-boys a Tor Vergata nel 2000, espressione della spettacolarizzazione del culto papale ai tempi della politica carismatica. C’è da credere che con Francesco i toni saranno più sobri, soprattutto in virtù del suo distacco dai movimenti identitari. In quanto all’indicazione della «misericordia» come cifra del giubileo «straordinario», alcuni interpreti sottolineano come la coincidenza con la chiusura del Vaticano II si inscriva in una visione nuova del rapporto tra colpa e condanna, binomio al quale papa Francesco sembra preferire una dinamica incentrata sul perdono. Si tratterebbe insomma di una rivisitazione radicale dello strumento giubilare. Di certo, la scelta di ricorrere al giubileo rientra nella predilezione di Bergoglio per la pietà popolare e, in questo senso, sembra davvero in sintonia con il suo predecessore polacco. A ciò si aggiunga che l’amministrazione della Giustizia religiosa nel nome della misericordia ha alla spalle (anche) una storia di confronto e di conflitto sul piano del potere. La storia ci insegna che strumenti e parole d’ordine non sono mai neutri.

Una teologia del cielo aperto 
Anno Santo. Il Giubileo straordinario di papa Francesco e alcuni suoi predecessori filosofici: il «Sermone sull’infinita misericordia di Dio» di Erasmo da Rotterdam Pasquale Terracciano Manifesto 18.12.2015
Non è un paradosso che il Vaticano che guarda alla misericordia come chiave di riforma del proprio cammino, è lo stesso Vaticano che, proprio in questi giorni, amministra con pugno di ferro la giustizia tra le proprie file, e che reclama la sete di giustizia del mondo. Misercordia / giustizia, il dittico che nella teologia cristiana scioglie e risolve il peccato, sono raramente disgiunte: coppia obbligata a confrontarsi e scontrarsi di continuo nella storia. Questo medesimo motivo, però, porta a indagare il senso della scelta di Francesco, che non è neutra e, ancor meno, scontata.
Secondo lo stesso papa, misericordia non è parola corrente nell’attuale dibattito della Chiesa (il richiamo di Francesco è volto all’eredità di Wojtyla e al problema storico dell’attuazione del Vaticano II); da parte laica, si può aggiungere che è categoria certo attraente, ma (forse) intimamente antimoderna.
Orgoglio e disperazione
Può allora valere la pena ripercorrere un momento della storia in cui «misericordia» fu un’idea palpitante, polemica, immediatamente politica.
In epoca di grande turbamento spirituale e profonda divisione interna risuonò come parola cui appigliarsi. A Modena, nel 1555 un tessitore di tovaglie correggeva un predicatore dicendogli «Advertite, fratelli, che la misericordia di Dio è più grande delle opere»: nel 1568 un barbiere confessava che Dio «dà il paradiso per sua semplice misericordia» («ma» aggiungeva «bisogna oprare bene per obedire a Dio»). Lo sfondo protestante di questa coloritura della parola misericordia è lampante; eppure ad averla suggerita, non troppo indirettamente, era stato Erasmo da Rotterdam, proprio come possibile alternativa cattolica alla crisi aperta dalla proposta teologica della Riforma.
Quasi contemporaneamente al dibattito che lo vedeva opporsi a Lutero, mentre i più ammiravano la sapienza teologica del suo Libero Arbitrio, Erasmo dava infatti alle stampe anche una piccola predica, elegantissima e coinvolgente: il Sermone sull’infinita misericordia di Dio. Che cos’è la misericordia? È la risposta che l’uomo deve darsi rispetto alle due tendenze che lo assalgono e che vanno ricacciate indietro con tutta la forza possibile: l’orgoglio (umanistico e pelagiano) di poter raggiungere da solo Dio, e la cupa disperazione (luterana) di non riuscire a salvarsi con le proprie forze.
La disperazione era indubbiamente il peccato maggiore che si potesse compiere: e per opporvisi Erasmo faceva balenare addirittura la possibilità di accettare che l’inferno non esistesse, secondo la dottrina più radicale attribuita a un altro inquietante seduttore in campo teologico, Origene d’Alessandria.
Il sermone ebbe una sorprendente ricezione in Italia. Nell’arco di pochi anni, venne infatti tradotto ben tre volte (a Mantova, Venezia e Firenze), andando a costituire un capitolo cruciale della circolazione clandestina di Erasmo al di qua delle Alpi; ma ciò che più conta, quell’infinita misericordia divina di cui parlava Erasmo si tradusse per molti in una solida fiducia al riguardo della salvezza futura. Una teologia del cielo aperto si diffuse in vari ambienti della penisola, e molto spesso tra gli strati più umili: misericordia e speranza andavano di pari passo. Poiché Dio è la sua misericordia, non vi erano dubbi sul fatto che avrebbero potuto salvarsi tutti: anche i turchi, gli ebrei o gli zingari.
L’umanista e le pasquinate
È una storia nota, che ha costitutito il fulcro di una stagione storiografica non troppo distante nel tempo (si pensi a Silvana Seidel Menchi, al Menocchio di Ginzburg, ad alcuni lavori di Adriano Prosperi, ma anche agli studi di Stuart Schwartz sullo sviluppo delle idee misericordiste nel Nuovo Mondo). Della predica di Erasmo manca ancora una moderna tradizione italiana: in commercio esiste solo uno dei volgarizzamenti cinquecenteschi raccolto in un volume a cura di Cecilia Asso (Erasmo da Rotterdam, Scritti religiosi e morali, Einaudi 2004), ed è una pecca che andrebbe sanata. Ci induce a ricordarlo anche un libro uscito proprio in questi giorni: la biografia, brillante e filologicamente impeccabile, dell’umanista Celio Secondo Curione, che legò il suo nome, tra le tante cose, alla vicenda teologica sopra richiamata (Lucio Biasiori, L’eresia di un umanista. Celio Secondo Curione nell’Europa del Cinquecento, Carocci editore). A Basilea, nell’opporsi all’inflessibile e intollerante idea di giustizia divina calvinista, Curione rispolverò la dottrina dell’ampiezza della misericordia divina, proponendo l’inaudita idea di un numero di beati superiore a quello dei dannati.
Strumenti di comunicazione
Quella di Biasiori è la prima ricostruzione – meritoria non solo perché viene a colmare una grave lacuna nella storiografia — dell’intero tragitto biografico e intellettuale dell’eretico, che fu anche autore di una celebre pasquinata. Il suo Pasquino fu fortunatissimo veicolo di propaganda protestante, e si diffuse attraverso un geniale bookcrossing tra le osterie e i crocicchi della penisola. Curiosamente, l’Erasmo della misericordia vi compariva non già come un maestro, ma sospeso in aria, con corna di cervo e una borsa di quattrini ai piedi, vorticosamente rigirato dal vento, a irridere la sua posizione «riformista», intermedia tra Roma e Wittemberg.
Si tratta certo di percorsi sfaccettati, e apparentemente distanti, nella storia della misericordia. Eppure suggeriscono di vagliare quanto quest’ultima sia sempre stata parola difficile e inattuale, costantemente fuori posto quando inserita nel vocabolario del potere.

Giubileo catto-luteranoPer i protestanti la parola «Jubiläum» indica il 500esimo anniversario delle 95 Tesi che si celebrerà nel 2017. Papa Francesco ha voluto giocare d’anticipo?Lorenzo Tomasin Domenicale 10 1 2016
La parola giubileo, di origine ebraica, in alcune lingue europee significa «anniversario», «ricorrenza calendariale». In tedesco, ad esempio, tale è oggi il significato comune di Jubiläum: e nella terra Martin Lutero – ma anche in quelle di Calvino, Farel, Beda e Knox, i riformatori effigiati su un famoso muro di Ginevra – un giubileo s’attende per il 2017. È il cinquecentesimo anniversario della pubblicazione delle 95 tesi di Lutero. La suggestiva quasi-coincidenza del giubileo della Riforma e del giubileo proclamato, con un anno d’anticipo su quello, dalla chiesa di Roma, è stata notata in terra protestante, dove qualcuno ha persino temuto che l’uno rischi di (o addirittura miri a) mettere in ombra l’altro.
L’attenzione alla storia da parte del mainstream cattolico contemporaneo porterebbe a escludere una studiata sovrapposizione. Si tratta, forse, di una casualità, ma è pur vero che in tal modo un giubileo «straordinario», cioè non previsto dal calendario, dedicato alla «misericordia» (tutti i giubilei cattolici, a ben vedere, lo sono, visto che in questione c’è sempre la remissione dei peccati) finisce curiosamente per coincidere con i cinquecento anni dal 1516. In quei mesi, che Lutero ricordava come quelli in cui «cominciai a scrivere contro il papato», la dottrina cattolica della misericordia fu messa in discussione nel suo presupposto fondamentale, cioè nella prerogativa papale di gestire il perdono e la remissione dei peccati come un patrimonio a sua disposizione, amministrandoli in modo ordinario o straordinario, a seconda delle necessità di fare cassa, o di monopolizzare un’anche più redditizia audience. Ancora nella bolla emessa per l’attuale giubileo si parla ad esempio del perdono di «peccati che sono riservati alla Sede Apostolica». Dove riservati andrà sperabilmente riferito alla loro remissione, non – come la formula potrebbe far supporre – alla facoltà di commetterli.
Il testo delle tesi luterane del 1517 verteva in effetti su una disputa che non era né politica, né economica, ma appunto teologica, giacché di teologia, a quel tempo, il papato si occupava ancora tanto intensamente quanto strumentalmente.
Una riduttiva vulgata connette la polemica luterana al mero impiego del denaro nella compravendita delle indulgenze: Leone X, come è noto, aveva bisogno di rimpinguare le esauste casse pontificie, giacché il Rinascimento oltre ai suoi splendori ebbe pure i suoi costi.
Ma è ben noto, almeno fuori d’Italia, che buona parte delle 95 degnità luterane verte proprio sul tema della misericordia e della remissione dei peccati, rovesciando la prospettiva per cui il perdono parte da un’indizione papale e piove sui fedeli e proponendo la conversione individuale del fedele come vera, unica e costante fonte della misericordia. L’obiezione valeva, peraltro, anche a rivisitare, contestualizzandola, la riflessione cristiana sulla povertà materiale (tesi 59: «San Lorenzo ha detto che il tesoro della chiesa sono i poveri, ma l’impiego di questo vocabolo esprimeva la concezione del suo tempo»: si trattava in effetti di uno degli argomenti che inducevano i fedeli a devolvere offerte). Le 95 tesi vi contrappongono, come è noto, una visione spirituale più impegnativa – seppur ancora confusa e abbozzata –, ma insieme più concretamente storica, della chiesa (tesi 62: «Il vero tesoro della chiesa è il santo vangelo della gloria e della grazia di Dio»). Per un’altra curiosa e - ancora - certo casuale coincidenza, le parole di Lorenzo chiosate dalla luterana tesi 59 sono state ripetute qualche settimana fa dall’attuale papa. La concezione del nostro tempo (parafrasando Lutero) ha reso quella frase ben gradita ai media, soprattutto a quelli italiani, in cui i temi giubilari ricorrono con intensità maggiore che altrove, e generalmente in assenza di riferimenti diversi dalla prospettiva attuale del Vaticano o di pochi altri colli tiberini. Così, le parole sul tesoro della chiesa sono state presentate come profondamente rivoluzionarie e innovative. Come in molti altri casi, la loro immediata efficacia ha coperto ogni riferimento alla loro storia, alla loro percezione e alla loro sedimentazione nel dibattito cristiano. Da espressione coperta di una scaltra strategia di fund raising, esse sono state promosse a efficace slogan di un pauperismo che pure riconduce, in forme nuove, la religione a una funzione che pare prioritariamente economica, cioè a un discorso sui beni terreni, punto di partenza e punto d’arrivo di una misericordia tutta strumentale. Del resto, anche nella pratica cinquecentesca delle indulgenze il bando papale si traduceva in un’omelia sul denaro, che i banditori pontifici deprecavano nel momento stesso in cui invitavano a devolverlo per ottenere misericordia. Avidità e pauperismo possono talora essere due facce della stessa medaglia, cioè della stessa ossessione per i beni secolari.
Cinquecento anni dopo (e in un cattolicesimo ormai dimentico di quella storia), denominazione, natura e cronologia del giubileo della misericordia non sembrano filtrate da un’adeguata considerazione storica. Apparire innovativi, se non rivoluzionari, diventa così possibile nel solco di una indisturbata continuità e in un contesto culturale sempre più schiacciato sul presente, che tende semplicemente a ignorare la lunga prospettiva storica in cui atti e testi – quindi anche bolle e giubilei – vanno letti. Adattandosi abilmente a un’epoca ormai indisponibile alla riflessione storica (e figurarsi a quella teologica…), la grande kermesse giubilare ritorna in forme e in parole che forse paiono talor a nuove, sui passi di una vicenda antica e, forse, semplicemente rimossa.

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