Giovanni Miccoli: Anno Santo. Un’“invenzione” spettacolare, Carocci, Roma, pagg. 142, € 12,00
Risvolto
Il volume non è né vuole essere una storia degli anni santi. Si propone piuttosto di cercare di capire come si colloca, in una tradizione secolare e all’interno delle “novità” introdotte attualmente nella pratica del ministero papale, l’indizione giubilare di Francesco: la scelta di uno strumento collaudato e tradizionale come atto di un pontefice per tanti aspetti non tradizionale. I caratteri dell’Anno Santo infatti, quali si articolano nei settecento e più anni della sua esistenza, sono fortemente marcati, in una sorta di unità ripetitiva, anche se non priva di variazioni marginali e di differenze. A questi aspetti è dedicata la prima parte del lavoro (dal primo Anno Santo, indetto da Bonifacio VIII nel 1300, fino a quello del 2000 proclamato da Giovanni Paolo ii), come premessa necessaria per un confronto con i caratteri e le prospettive dell’anno giubilare voluto da papa Francesco, oggetto della seconda parte del volume.
Storia dei Giubilei/1 Da Bonifacio a Francesco
Il primo Anno Santo fu annunciato nel 1300 da papa Bonifacio VIII, che con esso stabiliva un periodo di un anno in cui chiunque si fosse recato a Roma per visitare con apposite preghiere le quattro principali basiliche, passando attraverso le porte sante aperte per l’occasione, avrebbe potuto fruire di speciali indulgenze plenarie, tali da cancellare non solo le pene terrene per i propri peccati, ma anche quelle ultraterrene del purgatorio. L’evento avrebbe dovuto avere una periodicità secolare, che non tardò a essere ridotta a 50 e poi a 25 anni, peraltro intervallati da sempre più numerose indizioni straordinarie. Il suo antecedente storico era il giubileo ebraico (dal nome del corno di ariete, Jobel, che lo annunciava), in base alla quale ogni 50 anni veniva proclamato un perdono generale, con remissione dei debiti e delle pene, liberazione dei carcerati, ritorno di ciascuno ai propri beni originari (Lev. 23).
Il suo fondamento teologico stava nell’esclusivo possesso degli infiniti meriti di Cristo da parte della Chiesa romana, mater et magistra di tutte le altre, e del suo esclusivo diritto di dispensarne l’inesauribile tesoro a beneficio delle anime. Certo, non era facilissimo spiegare perché – se poteva farlo – non lo facesse sempre, ma tant’è: l’invito a venire a Roma per trovarvi un Deus placabilis convinse e convincerà sempre di più migliaia di pellegrini (i cosiddetti romei) a mettersi in cammino su strade disagiate e pericolose per recarsi nella città santificata dalle tombe di san Pietro e san Paolo, dal sangue dei martiri protocristiani, dalle preziosissime reliquie che vi si conservavano.
Era un viaggio costoso, che tanto più selezionava chi poteva permetterselo quanto più veniva da lontano, e assumeva talvolta le caratteristiche di un fastoso corteo di qualche grande della terra. Una fonte di reddito per la Chiesa, attraverso elemosine e offerte, un’occasione per il popolo romano di taglieggiare i pellegrini in pessime ed esose locande, un momento privilegiato per i briganti che infestavano le campagne di incrementare il numero delle loro vittime, un invito alle varie nationes a dar vita a ospizi e ospedali. L’Anno Santo era anche questo. A prescindere tuttavia da tali sfondi umani non sempre edificanti, l’indizione del giubileo era in primo luogo (e sempre di più sarà in futuro) un modo per ribadire l’assoluta supremazia del pontefice romano, del vicario di Cristo in terra, unico a poter disporre a suo arbitrio di quel tesoro infinito, capace di cancellare ogni pena. Non è un caso che quello del 1300 anticipasse di solo due anni uno dei documenti più celebri dell’affermazione del primato papale su ogni altro potere terreno nella bolla Unam sanctam contro Filippo il Bello di Francia, che meno di un anno dopo avrebbe ripagato papa Caetani con il celebre schiaffo di Anagni.
Con la consueta finezza storica nel distinguere tempi e momenti, Miccoli analizza rapidamente i testi delle bolle di indizione, cogliendone l’evoluzione, il cambiamento – pur nella costante ripetitività di formule e concetti – per misurarsi coi tempi nuovi e con i nuovi avversari di santa Chiesa che essi proponevano, eretici luterani e calvinisti nel Cinquecento, illuministi e massoni nel Settecento, liberali e socialisti nell’Ottocento, comunisti e atei militanti nel Novecento, sovrani invadenti e avversari politici sempre. Il concilio Vaticano II parve tuttavia innestare prospettive nuove in questa tradizione, che irrigidiva la Chiesa di Roma nella sua ferrea identità di unica depositaria della verità, incapace di reagire ai processi di secolarizzazione se non con la stanca riproposizione del suo immobile magistero, assai poco coerente con l’avvio di quello che avrebbe dovuto essere un nuovo dialogo ecumenico con altre confessioni e altre fedi. Prigioniero delle sue incertezze e contraddizioni, Paolo VI cercò debolmente di conciliare presente e passato nei giubilei del 1966 e 1975, mentre una voce nuova risuonò in quelli di Giovanni Paolo II, e in particolare in quello del 2000, tertio adveniente millennio, preceduto e accompagnato da una nuova strategia del perdono, non solo elargito, ma anche richiesto dalla Chiesa per le colpe di cui si era resa responsabile: nei confronti degli ebrei e degli schiavi, per esempio, o delle donne, degli eretici torturati e uccisi, di filosofi e scienziati come Galileo. Una prospettiva nuova, insomma, che si asteneva tuttavia dal chiamare in causa le colpe della Chiesa come istituzione, attribuite solo ad alcuni dei suoi figli, ovviamente per evitare che la fallibilità del passato potesse mettere in discussione l’infallibilità del presente.
Di qui la grande novità del nuovo giubileo, il giubileo della misericordia, che inizierà l’8 dicembre, giorno dell’Immacolata ma anche cinquantesimo anniversario della conclusione del Vaticano II, che si svolgerà non solo a Roma ma in tutte le diocesi e i santuari del mondo. Attraverso l’analisi di scritti, omelie, interviste di papa Francesco, l’ultima parte del libro delinea un quadro sintetico ma assai convincente del modo in cui egli interpreta il ruolo pastorale della Chiesa nel nostro tempo: un ruolo basato appunto sulla misericordia e non sulla verità come fondamento del cristianesimo, una misericordia che guarda anzitutto a quelle che il pontefice ha definito «le periferie dell’esistenza», i poveri, gli emarginati, gli oppressi, i migranti, che non insiste sulle differenze di opinioni ma sul «camminare insieme». Una misericordia di cui la Chiesa stessa ha bisogno per i suoi «comportamenti non cristiani» di ieri e di oggi, che non devono più essere nascosti sotto i panni curiali di un clericalismo duro a morire. Siamo di fronte a una svolta profonda, spiega Miccoli, mettendo in luce come «la riscoperta della misericordia come espressione suprema della vita e del messaggio di Cristo» costituisca la premessa «di una grande riforma individuale e collettiva». Non stupiscono quindi le crescenti resistenze contro un pontefice che, lungi dall’esaurire nella comunicazione la sua missione pastorale, intende – per come può – esercitarla fino a incidere in profondità nella carne viva della tenace autoreferenzialità della Chiesa romana, dei suoi affaristi corrotti e corruttori, dei suoi ineffabili prelati barricati nei loro opulenti attici romani.
Una teologia del cielo aperto
Secondo lo stesso papa, misericordia non è parola corrente nell’attuale dibattito della Chiesa (il richiamo di Francesco è volto all’eredità di Wojtyla e al problema storico dell’attuazione del Vaticano II); da parte laica, si può aggiungere che è categoria certo attraente, ma (forse) intimamente antimoderna.
Orgoglio e disperazione
Può allora valere la pena ripercorrere un momento della storia in cui «misericordia» fu un’idea palpitante, polemica, immediatamente politica.
In epoca di grande turbamento spirituale e profonda divisione interna risuonò come parola cui appigliarsi. A Modena, nel 1555 un tessitore di tovaglie correggeva un predicatore dicendogli «Advertite, fratelli, che la misericordia di Dio è più grande delle opere»: nel 1568 un barbiere confessava che Dio «dà il paradiso per sua semplice misericordia» («ma» aggiungeva «bisogna oprare bene per obedire a Dio»). Lo sfondo protestante di questa coloritura della parola misericordia è lampante; eppure ad averla suggerita, non troppo indirettamente, era stato Erasmo da Rotterdam, proprio come possibile alternativa cattolica alla crisi aperta dalla proposta teologica della Riforma.
Quasi contemporaneamente al dibattito che lo vedeva opporsi a Lutero, mentre i più ammiravano la sapienza teologica del suo Libero Arbitrio, Erasmo dava infatti alle stampe anche una piccola predica, elegantissima e coinvolgente: il Sermone sull’infinita misericordia di Dio. Che cos’è la misericordia? È la risposta che l’uomo deve darsi rispetto alle due tendenze che lo assalgono e che vanno ricacciate indietro con tutta la forza possibile: l’orgoglio (umanistico e pelagiano) di poter raggiungere da solo Dio, e la cupa disperazione (luterana) di non riuscire a salvarsi con le proprie forze.
La disperazione era indubbiamente il peccato maggiore che si potesse compiere: e per opporvisi Erasmo faceva balenare addirittura la possibilità di accettare che l’inferno non esistesse, secondo la dottrina più radicale attribuita a un altro inquietante seduttore in campo teologico, Origene d’Alessandria.
Il sermone ebbe una sorprendente ricezione in Italia. Nell’arco di pochi anni, venne infatti tradotto ben tre volte (a Mantova, Venezia e Firenze), andando a costituire un capitolo cruciale della circolazione clandestina di Erasmo al di qua delle Alpi; ma ciò che più conta, quell’infinita misericordia divina di cui parlava Erasmo si tradusse per molti in una solida fiducia al riguardo della salvezza futura. Una teologia del cielo aperto si diffuse in vari ambienti della penisola, e molto spesso tra gli strati più umili: misericordia e speranza andavano di pari passo. Poiché Dio è la sua misericordia, non vi erano dubbi sul fatto che avrebbero potuto salvarsi tutti: anche i turchi, gli ebrei o gli zingari.
L’umanista e le pasquinate
È una storia nota, che ha costitutito il fulcro di una stagione storiografica non troppo distante nel tempo (si pensi a Silvana Seidel Menchi, al Menocchio di Ginzburg, ad alcuni lavori di Adriano Prosperi, ma anche agli studi di Stuart Schwartz sullo sviluppo delle idee misericordiste nel Nuovo Mondo). Della predica di Erasmo manca ancora una moderna tradizione italiana: in commercio esiste solo uno dei volgarizzamenti cinquecenteschi raccolto in un volume a cura di Cecilia Asso (Erasmo da Rotterdam, Scritti religiosi e morali, Einaudi 2004), ed è una pecca che andrebbe sanata. Ci induce a ricordarlo anche un libro uscito proprio in questi giorni: la biografia, brillante e filologicamente impeccabile, dell’umanista Celio Secondo Curione, che legò il suo nome, tra le tante cose, alla vicenda teologica sopra richiamata (Lucio Biasiori, L’eresia di un umanista. Celio Secondo Curione nell’Europa del Cinquecento, Carocci editore). A Basilea, nell’opporsi all’inflessibile e intollerante idea di giustizia divina calvinista, Curione rispolverò la dottrina dell’ampiezza della misericordia divina, proponendo l’inaudita idea di un numero di beati superiore a quello dei dannati.
Strumenti di comunicazione
Quella di Biasiori è la prima ricostruzione – meritoria non solo perché viene a colmare una grave lacuna nella storiografia — dell’intero tragitto biografico e intellettuale dell’eretico, che fu anche autore di una celebre pasquinata. Il suo Pasquino fu fortunatissimo veicolo di propaganda protestante, e si diffuse attraverso un geniale bookcrossing tra le osterie e i crocicchi della penisola. Curiosamente, l’Erasmo della misericordia vi compariva non già come un maestro, ma sospeso in aria, con corna di cervo e una borsa di quattrini ai piedi, vorticosamente rigirato dal vento, a irridere la sua posizione «riformista», intermedia tra Roma e Wittemberg.
Si tratta certo di percorsi sfaccettati, e apparentemente distanti, nella storia della misericordia. Eppure suggeriscono di vagliare quanto quest’ultima sia sempre stata parola difficile e inattuale, costantemente fuori posto quando inserita nel vocabolario del potere.
Giubileo catto-luteranoPer i protestanti la parola «Jubiläum» indica il 500esimo anniversario delle 95 Tesi che si celebrerà nel 2017. Papa Francesco ha voluto giocare d’anticipo?Lorenzo Tomasin Domenicale 10 1 2016
La parola giubileo, di origine ebraica, in alcune lingue europee significa «anniversario», «ricorrenza calendariale». In tedesco, ad esempio, tale è oggi il significato comune di Jubiläum: e nella terra Martin Lutero – ma anche in quelle di Calvino, Farel, Beda e Knox, i riformatori effigiati su un famoso muro di Ginevra – un giubileo s’attende per il 2017. È il cinquecentesimo anniversario della pubblicazione delle 95 tesi di Lutero. La suggestiva quasi-coincidenza del giubileo della Riforma e del giubileo proclamato, con un anno d’anticipo su quello, dalla chiesa di Roma, è stata notata in terra protestante, dove qualcuno ha persino temuto che l’uno rischi di (o addirittura miri a) mettere in ombra l’altro.
L’attenzione alla storia da parte del mainstream cattolico contemporaneo porterebbe a escludere una studiata sovrapposizione. Si tratta, forse, di una casualità, ma è pur vero che in tal modo un giubileo «straordinario», cioè non previsto dal calendario, dedicato alla «misericordia» (tutti i giubilei cattolici, a ben vedere, lo sono, visto che in questione c’è sempre la remissione dei peccati) finisce curiosamente per coincidere con i cinquecento anni dal 1516. In quei mesi, che Lutero ricordava come quelli in cui «cominciai a scrivere contro il papato», la dottrina cattolica della misericordia fu messa in discussione nel suo presupposto fondamentale, cioè nella prerogativa papale di gestire il perdono e la remissione dei peccati come un patrimonio a sua disposizione, amministrandoli in modo ordinario o straordinario, a seconda delle necessità di fare cassa, o di monopolizzare un’anche più redditizia audience. Ancora nella bolla emessa per l’attuale giubileo si parla ad esempio del perdono di «peccati che sono riservati alla Sede Apostolica». Dove riservati andrà sperabilmente riferito alla loro remissione, non – come la formula potrebbe far supporre – alla facoltà di commetterli.
Il testo delle tesi luterane del 1517 verteva in effetti su una disputa che non era né politica, né economica, ma appunto teologica, giacché di teologia, a quel tempo, il papato si occupava ancora tanto intensamente quanto strumentalmente.
Una riduttiva vulgata connette la polemica luterana al mero impiego del denaro nella compravendita delle indulgenze: Leone X, come è noto, aveva bisogno di rimpinguare le esauste casse pontificie, giacché il Rinascimento oltre ai suoi splendori ebbe pure i suoi costi.
Ma è ben noto, almeno fuori d’Italia, che buona parte delle 95 degnità luterane verte proprio sul tema della misericordia e della remissione dei peccati, rovesciando la prospettiva per cui il perdono parte da un’indizione papale e piove sui fedeli e proponendo la conversione individuale del fedele come vera, unica e costante fonte della misericordia. L’obiezione valeva, peraltro, anche a rivisitare, contestualizzandola, la riflessione cristiana sulla povertà materiale (tesi 59: «San Lorenzo ha detto che il tesoro della chiesa sono i poveri, ma l’impiego di questo vocabolo esprimeva la concezione del suo tempo»: si trattava in effetti di uno degli argomenti che inducevano i fedeli a devolvere offerte). Le 95 tesi vi contrappongono, come è noto, una visione spirituale più impegnativa – seppur ancora confusa e abbozzata –, ma insieme più concretamente storica, della chiesa (tesi 62: «Il vero tesoro della chiesa è il santo vangelo della gloria e della grazia di Dio»). Per un’altra curiosa e - ancora - certo casuale coincidenza, le parole di Lorenzo chiosate dalla luterana tesi 59 sono state ripetute qualche settimana fa dall’attuale papa. La concezione del nostro tempo (parafrasando Lutero) ha reso quella frase ben gradita ai media, soprattutto a quelli italiani, in cui i temi giubilari ricorrono con intensità maggiore che altrove, e generalmente in assenza di riferimenti diversi dalla prospettiva attuale del Vaticano o di pochi altri colli tiberini. Così, le parole sul tesoro della chiesa sono state presentate come profondamente rivoluzionarie e innovative. Come in molti altri casi, la loro immediata efficacia ha coperto ogni riferimento alla loro storia, alla loro percezione e alla loro sedimentazione nel dibattito cristiano. Da espressione coperta di una scaltra strategia di fund raising, esse sono state promosse a efficace slogan di un pauperismo che pure riconduce, in forme nuove, la religione a una funzione che pare prioritariamente economica, cioè a un discorso sui beni terreni, punto di partenza e punto d’arrivo di una misericordia tutta strumentale. Del resto, anche nella pratica cinquecentesca delle indulgenze il bando papale si traduceva in un’omelia sul denaro, che i banditori pontifici deprecavano nel momento stesso in cui invitavano a devolverlo per ottenere misericordia. Avidità e pauperismo possono talora essere due facce della stessa medaglia, cioè della stessa ossessione per i beni secolari.
Cinquecento anni dopo (e in un cattolicesimo ormai dimentico di quella storia), denominazione, natura e cronologia del giubileo della misericordia non sembrano filtrate da un’adeguata considerazione storica. Apparire innovativi, se non rivoluzionari, diventa così possibile nel solco di una indisturbata continuità e in un contesto culturale sempre più schiacciato sul presente, che tende semplicemente a ignorare la lunga prospettiva storica in cui atti e testi – quindi anche bolle e giubilei – vanno letti. Adattandosi abilmente a un’epoca ormai indisponibile alla riflessione storica (e figurarsi a quella teologica…), la grande kermesse giubilare ritorna in forme e in parole che forse paiono talor a nuove, sui passi di una vicenda antica e, forse, semplicemente rimossa.
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