domenica 6 dicembre 2015

Gnoli intervista Demetrio Volcic sui bei tempi in cui si stava meglio

Risultati immagini per demetrio volcicDemetrio Volcic “In Russia ho incontrato la Storia e ho perso le mie illusioni da ragazzo”ANTONIO GNOLI Repubblica 5 12 2015
Pensavo che l’estinzione dei dinosauri fosse un fatto ormai acquisito. E che le dure leggi della paleontologia avrebbero schiaffeggiato chiunque avesse, anche per un momento, sostenuto il contrario. Non sapevo che mi sarei dovuto ricredere davanti all’ultimo animale del cretaceo. Vive tranquillo e rintanato in una casa di Gorizia. È lì che vado per incontrarlo. Si chiama Demetrio Volcic, mitico corrispondente dall’Europa dell’Est ha visto e raccontato numerosi cataclismi. Ha assistito a cadute di regime, studiato dittatori al limite della paranoia, fornito argomenti e aneddoti grondanti ilarità, anche quando il buonumore era il solo scudo possibile contro la desolazione: «Sono sopravvissuto da spettatore a quei teatri dell’assurdo che il comunismo dell’Est ha rappresentato. Un tempo la pensavo come Joseph Roth al quale bastò un viaggio in Russia per conoscere se stesso. Mi sarei ricreduto: la sofferenza altrui non aiuta a capire la propria, produce soltanto sensi di colpa e a volte ilarità».
Dove sei nato?
«A Lubiana, ma ho studiato a Trieste. Non è stata semplice la mia fanciullezza. Il 7 aprile del 1941 irruppe l’occupazione tedesca e italiana. Il risultato fu di uno zio condannato a morte, un cugino itinerante fra Dachau e Auschwitz e mio padre in prigione. Lubiana era circondata dal filo spinato. I fascisti avevano il controllo della città. Fermavano chiunque fosse minimamente sospettabile».
E tu?
«Qualche volantino dato di soppiatto e poco altro. Ricordo che tra il 1941 e il 1942 passavano, non lontano da casa, i treni. Notte dopo notte si sentiva lo sferragliare delle rotaie. I vagoni erano carichi di gente che si disperava e piangeva. Lasciavano cadere i biglietti su cui annotavano qualche frase e l’indirizzo cui erano destinati. Li raccoglievamo la mattina portandoli in quelle case attonite. Fu la prima pulizia etnica alla quale assistetti. I tedeschi scacciavano i contadini tra la Carinzia e il mare e mettevano i propri coloni. A volte nell’alto di qualche collina si vedevano villaggi in fiamme e si udivano gli spari fra le truppe di occupazione e i partigiani ».
Tuo padre arrestato, dicevi.
«Sì, ma non trattenuto a lungo. Sospettato di attività antifascista. Era un imprenditore. Fu il primo in quelle zone a smerciare su larga scala frigoriferi. Si dimostrarono indispensabili per la crescita esponenziale dell’allevamento dei maiali. La mamma sentiva con raccapriccio quell’odore di suino. Era nata a Trieste. Casalinga. Usava la cipria di una ditta viennese. Tutto in lei ricordava l’Austria».
Come hai vissuto il tramonto della Mitteleuropa?
«Quando capitavo a Vienna, entrando in qualche negozio, avvertivo come una sorta di malinconia controllata, frutto della certezza che se un certo mondo non c’era più, restavano le buone maniere, il gusto del decoro, una certa cortesia».
Erano i resti accettabili di un impero.
«Aggiungo che la burocrazia non era una parola ostile. Anche se Vienna era considerata, dagli spiriti più liberi, una bomboniera di stupidità. Thomas Bernhard non l’ha mai amata, e Karl Kraus era convinto che l’Austria non fu creata dallo spirito ma dal manzo bollito».
Era un mondo greve e molle.
«Un mondo su cui si è discettato tra nostalgia e ferocia. E che è diventato ormai un luogo comune. Un passatempo dello spirito. Parlo di vita quotidiana. Da giovane c’erano i caffè dove si giocava a scacchi e si leggeva. Qualcuno scriveva facendo prove di fine del mondo. Ancora oggi se entro in uno di questi luoghi cerco con lo sguardo dove sono le scacchiere. Non ce ne sono. Sostituite dai video poker ».
È desolante.
«Tutto o gran parte delle cose che rivedi invecchiate mostrano la desolazione. La sola cosa che allora mi parve immutata era la scuola. Quando tornammo a Trieste e ripresi le medie la scuola aveva ancora l’immancabile linoleum maniacalmente tirato a specchio e le pareti bianche. Più che luoghi dell’educazione erano luoghi della rieducazione. Ricordo un professore, ma sto divagando».
Divaga.
«Si era fatto tutti i regimi, portava il monocolo. Una vaga somiglianza con Eric von Stroheim: il cranio rasato, il corpo impettito, le gambe rigide, i passettini saltellanti del gabbiano. Ogni cambio di regime era l’occasione di un peana. Di un sonetto ideologico. L’ultimo fu con il maresciallo Tito. Poi, una notte, la polizia jugoslava lo arrestò. Forse l’eccesso di entusiasmo, la bava inarrestabile di retorica, fu considerata sospetta perfino dai carnefici. Di lui, che aspirò, senza successo, a diventare professore universitario non seppi più nulla».
Nel tuo lungo lavoro Tito lo hai conosciuto bene?
«La storia è sempre più astuta dei suoi protagonisti. C’era Tito nel suo ardore di partigiano. In seguito illuminato dal gesto di volersi sottrarre al dominio sovietico. Vidi quest’uomo passo dopo passo creare quel potere che nelle dittature mostra il suo lato paranoide. Belgrado era una selva di microfoni nascosti ovunque. A un certo punto il sistema di controllo impazzì. Tutti erano spiati. Perfino Tito e sua moglie Jovanka. Pare che Rankovic, capo della polizia segreta, avesse piazzato dei microfoni nella sua camera da letto. Tito se ne accorse e Rankovic fu arrestato».
Si disse anche che Jovanka avesse nel tempo acquisito un grande potere.
«Sembrava la regina della notte. Era stata bella. Ora, parlo degli anni Settanta, era diventata un donnone che incuteva paura più che rispetto. Capitò che al Maresciallo che svernava in una piccola località curativa, affiancarono due giovani serbe piuttosto procaci. Quando Jovanka lo seppe disse: o me o le massaggiatrici. Tito scelse le massaggiatrici. Nel sommo dello sfregio ideologico una arrivò tirandosi dietro un cagnolino colo rosa».
Immagino che tu stesso come corrispondente avrai avuto qualche avventura.
«Cosa te lo fa supporre? L’universo femminile era sconosciuto per noi corrispondenti, soprattutto a Mosca. Ogni tanto si vedevano delle giovani ragazze, agghindate alla bella e meglio, passeggiare nei pressi del grande caseggiato che noi giornalisti occupavamo. Ma quasi tutte erano legate a doppio filo con la polizia. Diverso era quello che accadeva nei paesi satellite. Lì c’era il night. Mitologia della trasgressione e del privilegio. Si affollava di funzionari e politici soprattutto nel periodo dei congressi internazionali».
«A volte andavo. Ricordo che in un night di Varsavia sentii con le mie orecchie Giancarlo Pajetta dare dello stronzo al leader bulgaro Jivkov».
In che anni sei stato a Mosca?
«Dal 1974 all’80 e poi sono tornato durante gli anni della perestroika».
Vedesti il tramonto e la fine di un totalitarismo.
«Non ne sarei così sicuro. Ha solo cambiato pelle. Il totalitarismo fu una scorciatoia alla modernità. Lenin intuì che il comunismo erano i soviet più elettricità. Stalin ci aggiunse l’industria pesante. Krusciov esportò l’utopia tecnologica nello spazio e Breznev immobilizzò tutto questo. Congelò l’intero paese come nella migliore tradizione dell’inverno russo».
Per circa settant’anni le cose lì non si sono mosse.
«Non è vero, o almeno non del tutto. La Russia ha sempre conservato un rapporto speciale con il potere, visto come una sorta di padre collettivo, amato anche quando si mostrava, come spesso accadeva, duro e crudele ».
E la dissidenza?
«Passava soprattutto per le vie mentali».
Tu chi vedevi, chi frequentavi?
«Sono andato qualche volta a casa dello scienziato Sacharov. Era soprattutto la moglie a indirizzarlo. E lui criticava la burocrazia criminale e ubriacona».
C’erano anche gli scrittori.
«La gran parte taceva, come nella migliore tradizione. Oppure mormorava nelle dacie che erano diventate zone franche. Di tanto in tanto entravano romanzi occidentali che le case editrici sovietiche non pubblicavano e che venivano tradotti di soppiatto e diffusi clandestinamente. Qualcosa dal paese usciva e non sempre erano dei Dottor Zivago. Insomma un import-export culturale che faceva fremere soprattutto il mondo occidentale. Mentre lì il breznevismo aveva anestetizzato il paese. Il massimo di dissidenza concessa era leggere qualche velata critica sulla Pravda alla crisi dei raccolti di barbabietole».
Era rassegnazione o cosa?
«Non so se fosse davvero rassegnazione o una strana forma di riconoscenza. Quando incontrai il dissidente filosofo Zinov’ev, mi disse che la gente semplice reagiva al potere ignorandolo. Raccontò la storia di sua madre che alla morte di Stalin accese una candela sotto la foto del dittatore. Perché lo fece, visti i crimini di cui si era macchiato? Perché, nonostante tutto, quella povera donna contadina aveva potuto vedere la famiglia progredire e i figli studiare».
Ci può essere un paese migliore senza democrazia?
«Per noi occidentali la questione neanche si porrebbe. Ma lì? La Russia non è un paese lineare. La modernizzazione è avvenuta a tappe forzate. E il sottofondo zarista non è mai stato del tutto cancellato. Questo significa che le menti più sveglie difficilmente sanno adattarsi alla situazione. Tu non ricordi chi era Sasha Bovin».
No, chi era?
«Scriveva i discorsi per Breznev. Poi un giorno il leader sovietico, in procinto di partire per Parigi, gli chiese come si sarebbe dovuto comportare con Madame Pompidou. Voleva credo essere seducente. Tu immagina quell’orso siberiano che fa il baciamano o la corte a una dama dell’Eliseo. Sasha lo guardò e senza imbarazzo alcuno gli disse: compagno, prima di tutto sfoltisci le sopracciglia, poi togliti quella giacca carica di bottoni d’oro e infine cerca di parlare a braccio. Bovin si ritrovò da un giorno all’altro senza più nessun incarico».
E poi?
«Poi niente. Ricordo quest’uomo elegante e disperato. Era capace di scolarsi una bottiglia intera di Campari. “Ubriaco al mattino, libero tutto il giorno”, diceva».
La vodka è l’altro grande capitolo che ha bagnato Madre Russia.
«Bagnata? L’ha alluvionata. La vodka scorre nelle vene russe al posto del sangue. Ho sempre pensato che le utopie sbiadiscono nell’alcol. L’Unione Sovietica ne è stato un esempio sommo. E pensare che lì per decenni si era creduto che fosse nata una figura nuova: l’”homo sovieticus” ».
Che cosa non ha funzionato?
«L’economia del piano è stata un disastro. Su questo l’Occidente ha stravinto. Pensare che da Mosca potevano decidere il prezzo di una zappa o di un ago prodotto nella Kirgizija, o la quantità di patate da produrre in Estonia o il grano in Georgia, si rivelò una follia assoluta. Ma questa ormai è storia e non solo economica».
Oggi la storia è un’altra.
«Non credere. Un paese che è stato grande non rinuncia facilmente ai suoi sogni imperiali. Ho visto e conosciuto bene Gorbaciov e poi Eltsin. Nel periodo della perestrojka divenne di moda tra gli alti dirigenti del partito trovarsi qualche parente che fosse stato perseguitato dalla repressione. La verità è che il potere non muta la sua natura e c’è sempre un nuovo padrone dietro la porta pronto a entrare. Non bussa, non chiede permesso. Sfonda e irrompe. Sai da che cosa capisci che il potere è cambiato?».
No, dimmi.
«Basta andare al mercatino dei distintivi. È come il presepe napoletano. Capisci chi è sull’onda e chi ne è stato travolto ».
Ho visto che in casa conservi qualche cimelio e alcune foto di te con vari personaggi.
«Sono alcuni momenti della mia lunga carriera. Ho girato il mondo per quasi 40 anni. Corrispondente a Vienna e Bonn, Praga, Varsavia e Mosca. Le foto che vedi sono con i leader cechi Svoboda e Dubcek, con la spia Marcus Wolf, con il fisico Robert Oppenheimer, il poeta Josif Brodskij. C’è anche la foto di Berlinguer a Mosca. Non lo fecero quasi parlare, tanto erano diventati tesi i rapporti tra il comunismo italiano e quello sovietico. Ma l’immagine cui sono più affezionato me la donò Gorbaciov. Si vedono dei russi nel 1945 cercare i loro morti sul fronte ucraino. Prima di fare una guerra bisognerebbe pensare alle conseguenze e ai prezzi che si pagheranno».
Pensi che quelle foto ti rappresentino?
«Non lo so. Diciamo che incastrano delle storie cui penso senza nostalgia. Sono stato un adolescente pieno di illusioni. E poi queste sono volate via. Sono nato ai margini dei Balcani, conosco qualche lingua. Ho condiviso giudizi e pregiudizi. Ho letto parecchia letteratura slava. Alla quale ogni tanto ritorno. Oggi vivo una piacevole e mediocre comodità. Mi sto rieducando leggendo in molte lingue. Tra qualche anno sarò di nuovo un ragazzo colto».
©RIPRODUZIONE RISERVATA

Nessun commento: