L'architettura, lo ripeto da anni, è una pratica artistica il cui campo specifico di azione è caratterizzato da un particolare dibattito tra l’autonomia delle intenzionalità degli autori e l’eteronomia degli usi, delle tecniche, e delle condizioni insediative che sono peraltro materiali indispensabili del progetto e della sua forma. Al di là di tutte le difficoltà che impone (e offre) l’economia del progetto, i temi pratici della sua stabilità nel tempo e quello della sua flessibilità di uso e di significato, si può anche affermare che tutto questo, con la scelta e l’organizzazione dei materiali per mezzo del progetto, può far assumere all’opera un senso su cui la critica potrebbe costruire un giudizio concreto ed utile anche per la sua responsabilità nei confronti della vita collettiva.
Ciò non elimina le ragioni per cui assistiamo, nei nostri anni, alle progressive difficoltà di ogni critica specifica. Al suo posto invece assistiamo a un’espansione delle sue funzioni come costruttrice di consenso nei confronti dei poteri; diventa così sempre più difficile rintracciare giudizi consapevoli e utili alle pratiche delle arti e capaci di attribuire valore di risposta alle contraddizioni del presente, mettendo in luce un frammento concreto di verità come valore.
Così che leggere il bel libro di Pierluigi Panza L’arte nell’epoca della sua riproducibilità finanziaria (Guerini e Associati) produce, almeno su alcuni di noi architetti, una doppia sensazione: da un lato un senso di fratellanza per la comune tragedia che colpisce, oltre che l’architettura, anche le arti visive (racconto televisivo compreso), dall’altro mette in evidenza alcune condizioni strutturali che ci competono tutti in quanto attori di pratiche artistiche.
L’idea di un’estetica strettamente connessa e dipendente da un nuovo tipo di finanziarizzazione dell’arte concepita come forma di propaganda non solo per l’ «artista», ma per una lode del capitalismo, divenuto finanziario globale e neocoloniale, che promuove opere dotate di una volontaria provvisorietà dell’evento la cui visibilità del tutto disciplinariamente arbitraria, diventa l’elemento Oggi ogni gerarchia di valori viene ridotta a successo e denaro mercantile e di successo essenziale.
Non sono un critico di arti visuali, ma la descrizione della crisi della critica esposta dalla prima parte del libro di Panza e comprovata dalla seconda parte, in cui sono esposti molti diversi generi di opere con le loro motivazioni e la non spenta aspirazione museale, ha una tragica efficacia anche sul mondo della produzione generale dell’architettura. Anch’essa sfugge ormai (salvo rarissime eccezioni) a ogni possibilità di costruire con le opere fondamenti capaci di discutere principi ed obbiettivi.
Oltre alle condizioni complessive di riduzione di ogni gerarchia di valori al successo e al denaro, in atto nella società del capitalismo globale, sono le stesse ambizioni mediatiche degli architetti a costruire l’impero del mercato nelle arti visive, la mescolanza con altre attività come la pubblicità, il design, l’uso di materiali inediti, la contaminazione dell’estraneo, la decorazione, l’interesse eccessivo per i nuovi mezzi di espressione visuale immateriale come le comunicazioni di massa o quelle intersoggettive del web, la ricerca ad ogni costo del singolare, di eccezione, di contaminazione e di destrutturazione e, nello stesso tempo, il desiderio disperato di successo ottenuto con la novità contro ogni nuovo. Sono questi gli elementi costitutivi dell’attuale stato di incertezza delle arti intorno alla loro necessità ed ai loro obiettivi autentici che il libro di Panza mette in evidenza.
Bisogna tenere conto però che negli ultimi quarant’anni, la rappresentazione diretta delle pulsioni, anche le più perverse, sembra essersi affacciata nell’architettura. Quando si parla di perversioni si fa riferimento ai tentativi di violare sistematicamente l’essenza progettuale della pratica artistica (peraltro, come si è detto, una tentazione, sempre presente in ogni artista) per aprirsi all’abisso del sublime, della contaminazione, del vecchio bricolage come introduzione dell’estraneo arbitrario nell’opera.
Ma anche se l’architettura ha tra i suoi strumenti quelli della rappresentazione simbolica, essa non è però una pratica artistica descrittiva, né satirica, né narrativa: può solo offrire un’opera, aperta a un’interpretazione della volontà intenzionale della sua forma. Forse si può guardare all’aspetto inconsciamente autoironico o psicotico della maggioranza delle opere sia di architettura che delle arti visuali, come interpretazione metaforica estrema di una disperata ed incerta condizione di costante simulazione, senza ricerca di alcun frammento di verità del presente.
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