venerdì 8 gennaio 2016

Arte come industria nel postmoderno

L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità finanziariaPierluigi Panza: L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità finanziaria, Guerini, pp. 170, euro 16,50

Risvolto
Di fronte ad alcune opere d'arte contemporanea molti si domandano: «Ma questa è arte?». Il libro cerca di spiegare le dinamiche del mondo dell'arte per sottolineare come il successo di alcune attuali proposte post-estetiche sia determinato dal potere finanziario e della comunicazione. L'analisi muove dalla considerazione che l'arte è un conferimento di valore su un oggetto creato con intenzionalità artistica. Conferimento che oggi non è determinato dal giudizio critico-valutativo o da un soddisfacimento popolare (se non indotto), bensì sulla base di una costruzione del consenso tesa a creare un capitale di visibilità sull'artista o sull'opera. Di questa dinamica si evidenziano sia le genealogie - ovvero la loro presenza anche nel passato - sia la volontà di spostare l'arte in una dimensione persino opposta a quella dei suoi originari obiettivi (eterogenesi dei fini).
La prima parte del libro sviluppa i temi di carattere teorico. La seconda passa brevemente in rassegna alcuni esempi di arte contemporanea, mostrando la ripetitività di alcuni temi che vanno costituendo una nuova retorica d'espressione.

Ossa, sesso, bambini impiccati La (finta) arte che rende ricchi 
Le performance dell’Abramovic, gli scandali di Cattelan, Koons erotico Un saggio svela i meccanismi di mercato dietro i «casi» della Biennale 
2 gen 2016  Libero NICOLETTA ORLANDI
Biennale di Venezia, 1962: durante l’inaugurazione del presidente della Repubblica, l’artista Alberto Greco da una gabbietta libera dei topi che prendono a correre tra la folla generando il panico. Dieci anni dopo Hans Hollein, professore dell’accademia di Dusserdolf, alla XXVI edizione presenta l’opera Santuario: un piccolo capanno di frasche contenente un pollo morto. Quello stesso anno Gino De Dominicis espone l’ormai celebre portatore di handicap: un ragazzo di 27 anni incontrato dalle parti del Castello di Venezia messo in mostra con al collo un cartello che rivelava il titolo dell’opera: Soluzione di immortalità. Nel 1997 Marina Abramovic si esibisce in Balkan Baroque: l’artista sta seduta su una montagnetta di ossa bovine e le pulisce con una spazzola. Sono ossa appena spolpate e ancora maleodoranti: l’intenzione è quella di rappresentare l’atrocità del conflitto balcanico. E viene premiata. E ancora: nel 2004 Maurizio Cattelan appende all’albero di Porta Ticinese a Milano tre manichini-bambini vestiti di tutto punto con gli occhi spalancati.



Di fronte a tutto ciò in molti si chiedono: «Ma questa è arte?». A questa domanda risponde il libro L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità finanziaria (Guerini, pp. 170, euro 16,50) nel quale l’autore, Pierluigi Panza, cerca di spiegare le dinamiche del mondo dell’arte per sottolineare come il successo di alcune attuali proposte post-estetiche sia determinato dal potere finanziario e della comunicazione. L’analisi muove dalla considerazione che l’arte è un conferimento di valore su un oggetto creato con intenzionalità artistica. Conferimento che oggi non è determinato dal giudizio critico-valutativo o da un soddisfacimento popolare (se non indotto), bensì sulla base di una costruzione del consenso tesa a creare un capitale di visibilità sull’artista o sull’opera che è elemento economico determinante in questa fase del Capitalismo estetico. Panza sottolinea come l’arte, dopo aver attraversato la stagione della sua riproducibilità tecnica descritta nel 1936 da W.Benjamin, è entrata negli ultimi decenni nell’era di una sostanziale riproducibilità finanziaria. «L’opera», scrive l’autore, «oltre ad essere chiave d’accesso all’elite postmoderna, è diventata come un derivato finanziario, come un future. Ovvero una scommessa sul futuro, come l’acquisto di oro e petrolio. Chi ha acquistato negli ultimi anni la cosiddetta arte contemporanea, Dall’alto in senso orario: Marina Abramovic, «Balkan Baroque»; Koons, «Amore e psiche»; Pistoletto, «La Venere degli stracci  
non ha acquistato un’opera con un suo valore estetico: ha acquistato una scommessa di tipo simbolico, come in borsa, su un segno». Questo processo di finanziarizzazione iniziò con Andy Warhol negli anni Settanta, quando l’idea di produzione dell’arte prevalse sull’idea di creatività. Il pop utilizzò direttamente prodotti commerciali o note immagini pubblicitarie e fece della serialità un’arma commerciale come l’industria dei normali prodotti. Oggi, fa notare Panza, per un artista è più importante mettersi in scena che produrre opere: «Questa è una caratteristica ricorrente del Capitalismo estetico dove le merci vengono spettacolarizzate per valere e valgono in relazione al capitale di visibilità che il creatore ha acquisito». In questo meccanismo di costruzione del consenso un ruolo importante è anche quello dei critici. Sono la «pedina nobile» all’interno di uno scacchiere governato da altri poteri, scrive Panza ricordando che al successo di artisti come Cattelan, Koons o Pistoletto fa riscontro quello di critici come Vittorio Sgarbi, Achille Bonito Oliva: oggi, anche al critico è richiesta la disponibilità di mettersi in gioco, a sapersi spettacolarizzare. La conclusione è che l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità finanziaria si dimostra come un caso di eterogenesi dei fini.


L’arte sotto l’impero della finanza 
Creatività e fattori mercantili nel saggio di Pierluigi Panza (Guerini) Tempi di volontaria provvisorietà
5 feb 2016  Corriere della Sera Di Vittorio Gregotti
L'architettura, lo ripeto da anni, è una pratica artistica il cui campo specifico di azione è caratterizzato da un particolare dibattito tra l’autonomia delle intenzionalità degli autori e l’eteronomia degli usi, delle tecniche, e delle condizioni insediative che sono peraltro materiali indispensabili del progetto e della sua forma. Al di là di tutte le difficoltà che impone (e offre) l’economia del progetto, i temi pratici della sua stabilità nel tempo e quello della sua flessibilità di uso e di significato, si può anche affermare che tutto questo, con la scelta e l’organizzazione dei materiali per mezzo del progetto, può far assumere all’opera un senso su cui la critica potrebbe costruire un giudizio concreto ed utile anche per la sua responsabilità nei confronti della vita collettiva. 
Ciò non elimina le ragioni per cui assistiamo, nei nostri anni, alle progressive difficoltà di ogni critica specifica. Al suo posto invece assistiamo a un’espansione delle sue funzioni come costruttrice di consenso nei confronti dei poteri; diventa così sempre più difficile rintracciare giudizi consapevoli e utili alle pratiche delle arti e capaci di attribuire valore di risposta alle contraddizioni del presente, mettendo in luce un frammento concreto di verità come valore.
Così che leggere il bel libro di Pierluigi Panza L’arte nell’epoca della sua riproducibilità finanziaria (Guerini e Associati) produce, almeno su alcuni di noi architetti, una doppia sensazione: da un lato un senso di fratellanza per la comune tragedia che colpisce, oltre che l’architettura, anche le arti visive (racconto televisivo compreso), dall’altro mette in evidenza alcune condizioni strutturali che ci competono tutti in quanto attori di pratiche artistiche.
L’idea di un’estetica strettamente  connessa e dipendente da un nuovo tipo di finanziarizzazione dell’arte concepita come forma di propaganda non solo per l’ «artista», ma per una lode del capitalismo, divenuto finanziario globale e neocoloniale, che promuove opere dotate di una volontaria provvisorietà dell’evento la cui visibilità del tutto disciplinariamente arbitraria, diventa l’elemento Oggi ogni gerarchia di valori viene ridotta a successo e denaro mercantile e di successo essenziale.
Non sono un critico di arti visuali, ma la descrizione della crisi della critica esposta dalla prima parte del libro di Panza e comprovata dalla seconda parte, in cui sono esposti molti diversi generi di opere con le loro motivazioni e la non spenta aspirazione museale, ha una tragica efficacia anche sul mondo della produzione generale dell’architettura. Anch’essa sfugge ormai (salvo rarissime eccezioni) a ogni possibilità di costruire con le opere fondamenti capaci di discutere principi ed obbiettivi.
Oltre alle condizioni complessive di riduzione di ogni gerarchia di valori al successo e al denaro, in atto nella società del capitalismo globale, sono le stesse ambizioni mediatiche degli architetti a costruire l’impero del mercato nelle arti visive, la mescolanza con altre attività come la pubblicità, il design, l’uso di materiali inediti, la contaminazione dell’estraneo, la decorazione, l’interesse eccessivo per i nuovi mezzi di espressione visuale immateriale come le comunicazioni di massa o quelle intersoggettive del web, la ricerca ad ogni costo del singolare, di eccezione, di contaminazione e di destrutturazione e, nello stesso tempo, il desiderio disperato di successo ottenuto con la novità contro ogni nuovo. Sono questi gli elementi costitutivi dell’attuale stato di incertezza delle arti intorno alla loro necessità ed ai loro obiettivi autentici che il libro di Panza mette in evidenza.
Bisogna tenere conto però che negli ultimi quarant’anni, la rappresentazione diretta delle pulsioni, anche le più perverse, sembra essersi affacciata nell’architettura. Quando si parla di perversioni si fa riferimento ai tentativi di violare sistematicamente l’essenza progettuale della pratica artistica (peraltro, come si è detto, una tentazione, sempre presente in ogni artista) per aprirsi all’abisso del sublime, della contaminazione, del vecchio bricolage come introduzione dell’estraneo arbitrario nell’opera.
Ma anche se l’architettura ha tra i suoi strumenti quelli della rappresentazione simbolica, essa non è però una pratica artistica descrittiva, né satirica, né narrativa: può solo offrire un’opera, aperta a un’interpretazione della volontà intenzionale della sua forma. Forse si può guardare all’aspetto inconsciamente autoironico o psicotico della maggioranza delle opere sia di architettura che delle arti visuali, come interpretazione metaforica estrema di una disperata ed incerta condizione di costante simulazione, senza ricerca di alcun frammento di verità del presente.

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