sabato 23 gennaio 2016

I complicati rapporti tra Russia e Paesi Baltici in un romanzo storico

Il pazzo dello zar Jaan Kross: Il pazzo dello zar, Iperborea

Risvolto
Dopo nove anni di prigionia nella fortezza di Schlüsselburg, il barone Timo von Bock, dichiarato pazzo, viene confinato con la famiglia nei suoi possedimenti baltici, sotto la stretta sorveglianza di spie governative. Che crimine ha commesso questo brillante aristocratico e colonnello dell’Impero russo, ammirato da Goethe e amico intimo dello stesso zar Alessandro? Nato nella culla dei privilegi, Timo è colpevole della follia di non riuscire a scendere a patti con i propri ideali rivoluzionari, un liberale troppo avanti con i tempi, che rifiuta una principessa per sposare una contadina, che libera i suoi servi e tratta da pari i domestici, fino a scrivere allo zar, con la schietta lealtà che il sovrano esige da lui, un’infuocata denuncia contro il regime. Come un «chiodo piantato nel cuore dell’impero», con la purezza pericolosa di un bambino, Timo ingaggia una lotta a distanza con il sovrano, che tenta ogni genere di lusinga e di persecuzione per «guarirlo», in un confronto tra l’intellettuale e il potere, lo spirito libero e il conformismo, e tra due eroi tragici fatalmente legati da un’impossibile amicizia. Jaan Kross si ispira a una reale vicenda storica per scrivere il suo grande romanzo contro l’oppressione, la stessa che i suoi Paesi Baltici continuano a subire, non più dai Romanov ma dall’Unione Sovietica, e che all’uscita di questo libro condanna anche lui a otto anni di prigionia. Come a dire che la Storia non si ferma, che i sogni dei sognatori sono destinati a essere sognati di nuovo e che, per quanto folli e irrealizzabili, possono dare dignità all’esistenza.


Il pazzo che sfidò lo zar per sposare una contadina 

La storia del barone Timo che si ribella per l’amore e la libertà metafora del difficile rapporto tra i baltici e la potente Russia 
Goffredo Fofi  Tuttolibri 23 1 2016
Perché scrivere un romanzo storico? Jaan Kross doveva averlo molto chiaro quando affrontò nel 1978 la grande impresa del Pazzo dello zar. L’Unione Sovietica era ancora una realtà, e la sua Estonia era, tra le repubbliche che la componevano, una di quelle più irrequiete e più controllate, dove resisteva una guerriglia organizzata e i quisling locali avevano sempre faticato a tener buono il popolo, con una borghesia che non accettava sempre volentieri la «linea» dettata dal Politburo moscovita. 
È ai rapporti tra una piccola nazione forte di una sua storia, cresciuta nel confronto con la complessa storia anseatica di piccole nazioni che hanno dovuto confrontarsi con stati imponenti come la Russia e la Germania, ma anche la Polonia e la Finlandia, che Jaan Kross ha dedicato la sua impresa maggiore, un romanzo lungamente meditato e rigorosamente governato, che potesse evocare il rapporto complesso della nobiltà locale con un potere esterno e centrale – lo zar – nel corso di buona parte dell’Ottocento, ma anche l’affermarsi di una nuova classe borghese – il «terzo stato» – che altrove, in Francia, si era imposta con una rivoluzione e si era però fatta portatrice di nuove contraddizioni e sopraffazioni, raccontate mirabilmente nel modello più alto di romanzo storico, Guerra e pace, la cui ombra aleggia o balena anche nelle pagine di Kross.
Non sappiamo molto di storia dell’Estonia, né della Livonia che la comprese o affiancò, né della Lettonia, della Litania, della Bielorussia, ma quanto basta per capire che Il pazzo dello zar in qualche modo le abbraccia, parla anche in nome loro, di popoli presi nel vortice della Storia, e cioè nel solco che le grandi potenze hanno preteso di tracciare per loro con la forza, in un’Europa perennemente divisa dove è l’inesausta aggressività degli stati maggiori a voler imporre le sue leggi e il suo dominio. Ma è anche con altre contraddizioni che va avanti la Storia, attraverso i suoi rappresentanti più irrequieti, che sanno farsi portavoce di istanze generali, non particolari. Ed è con personaggi come Timo von Bock che la Storia può anche inciampare. Brillante aristocratico livone, colonnello dell’Impero russo, amico intimo nonché nascostamente consanguineo dello zar Alessandro, Timo si ribella al suo mondo, prima rifiutando un’aristocratica della corte imperiale per sposare, con grande scandalo, una contadina, Eeva, e poi denunciando apertamente al sovrano l’intollerabile oppressione del regime, il crescente malcontento per un ordine fondato su sfruttamento e ingiusti privilegi, la fierezza cieca e ridicola dei Romanov contro il sempre più urgente bisogno di una Costituzione egualitaria. Per questo viene dichiarato «pazzo», imprigionato e tenuto in isolamento per otto anni, e infine confinato nella sua tenuta baltica, sotto la sorveglianza di spie governative. Senza mai rinunciare ai suoi ideali né cedere al potere, che con ogni sorta di persecuzione e di lusinga tenta di riassorbirlo, «il pazzo» ingaggia con lo zar un confronto che assume toni shakespeariani.
Mettendo insieme tutte le conoscenze a sua disposizione, Kross ha ricostruito una figura e una vicenda di cui ci assicura la veridicità storica. Ma ha operato da romanziere, e per accostarci alle tensioni dell’epoca narrata ha concentrato in pochi personaggi e in un grande protagonista lo «spirito del tempo», ricorrendo a un narratore non onnisciente, ma testimone diretto dei fatti, coinvolto nel loro sviluppo, dentro e fuori la storia, che ne racconta anche il dietro e il sotto, la quotidianità e il senso. È Jakob, il fratello di Eeva, un uomo che come lei «viene dal letame» e che Timo fa istruire e studiare affidandogli indirettamente il ruolo del testimone e in qualche modo dell’erede della sua esperienza. Ed è lo stesso Jakob la chiave di volta della Storia a venire, il rappresentante della borghesia nascente, che dovrà soppiantare l’aristocrazia sollevandosi dal basso della terra. Con la morte di Alessandro – personaggio a suo modo grandioso quantomeno nel rapporto con Timo – e l’avvento di Nicola, destinato a essere l’ultimo zar di tutte le Russie, si passa, dice Kross, «da una sala oscura a una buia cella», dalle cui atrocità si uscirà con una rivoluzione che sarà bensì portatrice, per i popoli che toccherà, di una nuova oppressione, quella che l’Estonia sta vivendo quando Kross scrive il romanzo. E si tratterà allora del «comunismo reale», di nuove compromissioni di cui saranno protagonisti non più gli eredi di Timo, bensì quelli di Jakob.
È il disagio di Jakob – con la sua condizione secondaria e incerta, di non eroe, di testimone, di non servo e non padrone – il vero centro del romanzo, un disagio che sembra a tratti condiviso dall’autore, non solo perché Jakob è il suo alter ego di narratore, ma anche perché Kross si sente come lui «dolorosamente straniero» ovunque. «L’insipienza del mondo è la nostra difesa», dice Jakob, mentre Timo, nel suo finale rifiuto di fuggire, dirà che «all’estero non potrei fare niente». Due caratteri, due figure della Storia, che potremmo anche chiamare l’Eroe (il «pazzo») e lo Scrivano che ne terrà vivo il ricordo, custodendone la memoria e le idee, il sogno di una società liberata, generosamente solidale e tendenzialmente egualitaria. 
Il Pazzo e il suo Scrivano, dopo il Pazzo e il suo Zar. L’idealista e il suo borghese.
Lo scopo di Kross nei confronti del suo popolo, ma anche dei suoi oppressori, dev’essere stato quello di ricordare loro che la Storia non si ferma mai e che i sogni dei sognatori sono destinati a venir sognati di nuovo, ancora e ancora… 
Il romanzo storico non ha buon corso nella letteratura contemporanea, salvo che in imitazioni e parodie baracconesche, rozze, falsificanti, consolatorie. Ha avuto però un’importante stagione, di cui Il pazzo dello zar è stato forse l’ultimo grande esemplare.

Il “folle” colonnello che sfidò l’Impero per un ideale 
Nuova edizione del capolavoro di Jann Kross, “Il pazzo dello zar” in cui storia e autobiografia si sovrappongono nel segno dell’amore per la libertà
SUSANNA NIRENSTEIN Repubblica 14 2 2016
A volte la realtà supera ogni invenzione, si sa. L’assioma diventa carne e creazione in Jann Kross, scrittore e poeta (1920-2007) nato in Estonia, terra baltica di infinite invasioni e dominazioni straniere, chiuso nelle prigioni naziste (8 mesi) e nei gulag siberiani (8 anni) per amore di libertà, e infine cittadino sovietico per forza fino al 1992. Perché Kross, oltre ad aver tradotto Shakespeare, Balzac, Stefan Zweig... in estone, ha fatto della sua vita e del romanzo storico la chiave per riflettere e raccontare in modo tattile e profondo di ribellione e dispotismi, di compromessi, lacerazioni e anche d’amore.
Avevamo da poco letto la meravigliosa Congiura (Iperborea), tre racconti sul momento in cui III Reich e sovietici si strapparono gli uni agli altri ripetutamente la regione, determinando altri strappi dolorosi tra la popolazione. Ora eccoci davanti al suo capolavoro, Il pazzo dello zar. Quasi fossimo in un seguito di Guerra e pace - ci sembra di sentirne gli echi, il nitrire dei cavalli in battaglia e le ferite -, basandosi su fatti e persone reali, Kross ci porta con Timotheus von Bock, colonnello aristocratico combattente contro Napoleone al fianco dell’imperatore di tutte le Russie Alessandro. Timo gli è talmente amico che il sovrano gli fa giurare di dirgli sempre la verità, anche quando non gli venga richiesta. E quell’idealista (quel pazzo?) di von Bock lo fa. Uomo impetuoso, già colpevole per i nobili di aver sposato Eeva, una contadina indipendente ribattezzata Katharina, e di averla mandata col fratello Jacob a studiare, nel 1818 manda allo zar un lungo memoriale in cui denuncia con parole sprezzanti tutte le ingiustizie che il popolo subisce, gli imbrogli e le ruberie, gli sfarzi dei regnanti di fronte alla miseria, la vanagloria, l’inettitudine che manda al macello le truppe. Non solo, il memoriale è seguito da una proposta di Costituzione. Lo sgarro è insopportabile. Timo è arrestato e mandato in prigione, una rocca inattaccabile su un’isola, guardato a vista, privato dei contatti con la famiglia.
Ma qui vi abbiamo riassunto quel che il fratello di Eeva viene a sapere solo quando Timo torna a casa nel 1827, distrutto, ma pur sempre virile, luminoso e provocatorio come un eroe, scarcerato in quanto folle, e costretto ai domiciliari contornato da spie che scopriremo via via. Nessuno sa cosa il conte abbia fatto, scritto di così insano, ma Jacob - questo strano personaggio così ben disegnato, né contadino né aristocratico fino in fondo, che si sente un estraneo ovunque si trovi - mentre inaugura il suo diario, trova delle carte nascoste: il memoriale di Timo, il vero memoriale che Kross ha rintracciato negli archivi. Jacob non sa darsene una ragione, possibile un gesto tanto fuori di testa che ha dannato anche i cari di Timo all’infelicità?
L’interrogativo è quello che ricorre spesso nella poetica di Kross, dove deve arrivare il coraggio intellettuale di un oppositore? Evidentemente la domanda era quel che ricorreva anche sotto gli occhi del Cremlino. E, se Timo non se la pone, è pieno di dubbi invece sulla sua stessa follia, che l’ha fatto e lo fa combattere con mille fantasmi, i suoi maestri di libertà, il suo desiderio di rimanere nell’amata terra. Un esilio interno da un lato, un desiderio represso di fuga dall’altro che Kross deve aver vissuto sotto l’Urss. Ma non è solo questo a rendere affascinante il romanzo che si muove con svolte e giravolte, anche se, con timbro profondamente russo, indugia a lungo sulle riflessioni filosofiche e esistenziali. Intorno al nucleo centrale ci sono personaggi secondari ben dipinti. E ci sono amori, paesaggi e natura, l’amore indubitabile di Timo e Eeva, l’amore di Jacob per una ragazzina poi rifiutata per (l’eccessiva?) immedesimazione in Timo, e una natura dolce, fatta di rose e meli, fiumi nei cui canneti ci si può rifugiare e abbracciare le carni rosee di una donna. Una natura a volte opprimente, eppure sempre adorata. Il pazzo dello zar è certamente Jaan Kross, sempre in lotta contro ogni tirannia e legato alla sua terra.

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