giovedì 14 gennaio 2016

Di padre in figlio, i giornalisti italiani hanno finito le madri da vendere e la carta igienica per asciugarsi la faccia

Novantatré
Persino Di Pietro sembra un eroe, ora che gli stessi che lo osannavano gli danno contro [SGA].

Mattia Feltri: Novantatré. L'anno del Terrore di Mani Pulite, prefazione di Giuliano Ferrara, Marsilio

Risvolto
Il racconto degli eventi tra 1992 e 1993 alla luce del «non ancora accaduto» e della sua interpretazione successiva. Un libro che ci riporta alla tradizione della grande inchiesta giornalistica italiana.Quando scoppia Mani pulite, Mattia Feltri è un giovane cronista. Curioso e appassionato, segue quelle vicende e ne scrive sulle pagine del quotidiano per cui lavora. Dieci anni dopo, nel 2003, è al «Foglio». Lì prende corpo un progetto: raccontare quei dodici mesi che hanno stravolto l’Italia, ma con una lente diversa, attraverso un gusto letterario e uno stile comunicativo in grado di sottolineare le atrocità di quei giorni, che con un’iperbole paragona al Terrore della Rivoluzione Francese. Quella che sembrava un’epoca di catarsi e rinascita si è rivelata, infatti, un periodo cupo, meschino, di furori e paure, di follia collettiva, in cui una cultura politica era stata spazzata via in modo dissennato. Per colpa della politica stessa e per mano di una magistratura che si sentiva a capo di un moto rivoluzionario. Il libro è frutto di quella lunga controinchiesta, durata un anno e, come un diario, restituisce intatta l’atmosfera di quei giorni con un resoconto puntuale e spietato: dai grandi ai piccoli eventi, dai grandi ai piccoli personaggi. Rivivono tutte le contraddizioni di una fase cruciale della nostra storia, con un vantaggio sulla contemporaneità: evidenziare ipocrisie e meschinità. «L’occhio – scrive Giuliano Ferrara nella Prefazione – ha vagato tra i documenti, le testimonianze, lo sviluppo al presente storico degli avvenimenti, tra ladri ambigui e guardie di una fissità paranoide, e il giovane che aveva creduto tutto senza vedere niente si è ritrovato a smascherare, nel suo magnifico futuro anteriore di italiano diffidente, questo marcescente idolo del vero giuridico, che era un sordido fatto politico».

Ecco perché stronco il libro di mio figlio
Feltri contro Feltri


“Novantatré” Operazione ipocrisia
Mattia Feltri ripercorre in un libro l’anno che affossò la Prima Repubblica: doveva essere la rinascita dell’Italia, si rivelò un’esplosione di rabbia e populismo che rischia di riproporsi nel 2016 Gianni Riotta Stampa 14 1 2016
All’inizio del 1993 Angelo Guglielmi, direttore di Rai 3, mi propose di condurre una serie di Milano, Italia, talk show lanciato da Gad Lerner. Vivevo in America, volevo vedere, da cronista, la «rivoluzione di Mani Pulite», «Clean Hands» la chiamavano a New York, e accettai. Conobbi i protagonisti, i giudici, i politici, i giornalisti, gli arrabbiati. Alla fine di un’intervista con un ex ministro sotto processo che finì assolto, dopo i tempi kafkiani della nostra giustizia, lo ringraziai, per comune cortesia. Il giorno dopo una collega - indignatissima - mi investì livida: «Non si ringrazia un inquisito!».
Mattia Feltri, columnist di questo giornale, raccoglie in Novantatré (Marsilio) la cronaca dell’anno che affossò la Prima Repubblica e i suoi partiti storici, Dc, Psi, Pli, Pri, Psdi e anche il Pci, pur graziato dal pool dei magistrati alla ricerca di tangenti. Un autodafé che, nelle intenzioni di tanti protagonisti affannati delle pagine di Feltri, doveva «far risorgere l’Italia!» e apre invece, nel 1994, la strada a Silvio Berlusconi.
La via crucis italiana di 23 anni fa colpisce per la ferocia maramaldesca con cui i politici, il leader socialista Craxi su tutti, vengono umiliati, il repubblicano Giorgio La Malfa (poi assolto) coperto di sputi, il dc Carra tradotto con gli schiavettoni ai polsi davanti alle tv, fino ai tragici suicidi, il presidente dell’Eni Cagliari, l’imprenditore Gardini, Castellari dirigente Enimont, nel 1992 il socialista Moroni.
Corruzione strutturale
Beninteso, la corruzione esisteva ed era radicata, le mazzette erano richieste e pagate, la politica si finanziava con esose prebende, l’industria difendeva così inefficienze, protezionismo, nepotismo, un sistema industriale obsoleto e nemico di innovazione e meritocrazia. Ma l’ipocrisia del 1993, al netto delle intenzioni di tanti «eroi» del momento, fu addossare a pochi accusati - potremmo dire i più ingenui o spavaldi - le colpe di una nazione intera. Bettino Craxi ne morì, solo e amareggiato ad Hammamet, altri ebbero la fortuna di avere riconosciuto l’onore.
Il fallimento, politico e morale, di Mani Pulite sta nel non avere saputo riconoscere le cause vere di decadenza della Prima Repubblica. Il monopolio del potere della Democrazia cristiana fu reso inevitabile dalla natura delle opposizioni, i neofascisti del Msi e il Pci che, pur maturato, fino all’ultimo ricevette finanziamenti da Mosca, osteggiando nei fatti, se non nelle dichiarazioni del segretario Berlinguer, Europa (il no al sistema monetario è del 1979) e Nato. E da quel monopolio venne la corruzione strutturale.
Il merito di Feltri, accanto alla scrittura puntigliosa, sta nel presentare alla litigiosa, populista, rancorosa Italia 2016 il ritratto degli antenati 1993, con la speranza nascosta, che a mio avviso andrà delusa, che gli eccessi di allora vengano evitati oggi. Colpire il potente caduto, elogiare la galera, l’invidia sociale per chi ha più di noi, considerare il successo sempre frutto di corruzione o ingiustizia, sono vizi del paese, non meno di malcostume, camarille, prepotenze.
Toni giacobini
L’immaturità della nostra democrazia, imposta dopo la dittatura, con apparati dello Stato legati al fascismo, servizi segreti e racket in combutta, paralleli a un capitalismo di parentele, lobby, circoli opachi, non viene esorcizzata da Tangentopoli. I cronisti si eccitano per «Di Pietro, ottimo giudice, superbo calzolaio, egregio contadino… nuotatore provetto…» che salva in mare un bagnante, ma non vedono la complessità dei problemi. «Scrivere un reportage» diventa pubblicare documenti passati sottobanco in tribunale, la «verità» è l’accusa contro l’imputato, giusto come oggi. Chi, come i futuri Presidenti Napolitano e Mattarella, prova a moderare i giacobini senza cancellare le inchieste in corso, è zittito. Si finirà, secondo tradizione, per vedere regie occulte, perfino Andreotti crederà che gli americani organizzino il suo processo a Palermo, mentre altri parlano di Merrill Lynch, Wall Street, le «banche». Ma di «poteri forti» e «complotti» c’è scarsa traccia, «gli americani» elogeranno, ignari, Mani Pulite, Berlusconi, Beppe Grillo…
Avvitati nel passato
Nella prefazione, il fondatore del Foglio Giuliano Ferrara, uomo che ama i paradossi, cita Dumas padre, Giulio Cesare e Montanelli, sospettando un regista «subdolo» del 1993. Il regista vero è il nostro Dna, Strapaese avvitato nel passato. Feltri, equanime, ricorda come da sinistra Giorgio Bocca e da destra suo padre Vittorio si vedano accomunati dalla rabbia contro «i politici». Ogni compassione umana cade, l’editoriale di un importante quotidiano contro Craxi 1993 spaventa per ferocia: «C’è qualcosa di cupamente grottesco nell’immagine di quell’uomo anziano e malato… Anche la malattia… non lo fa apparire più fragile, e con ciò, meno sgradevole. Al contrario. La sua… è l’infermità dei “cattivi”… la malattia completa crudelmente l’immagine di un uomo che - in una torva solitudine - cova i suoi rancori…».

È inutile sperare che Novantatré suoni da monito al 2016 perché gli italiani, anziché accoltellarsi a vicenda, si mettano al lavoro, come comunità, per risolvere i guai e aprirsi al XXI secolo. Guardate giornali, tv, web: scorre già il materiale di odio, sarcasmo, mediocrità, livore, furba indignazione per accaparrare soldi e potere, canovaccio per un secondo volume di Feltri, titolo pronto «Sedici».


Storia del 1993, l’annus horribilis dell’impazzimento manettaro 

La fiducia incondizionata per Di Pietro, il Pil in picchiata, il «pericolo» Lega Nel libro di Mattia Feltri lo spaccato di un’Italia eccitata dal giustizialismo 
16 gen 2016  Libero FILIPPO FACCI 
Nel 2003 Giuliano Ferrara affidò una buona idea a Mattia Feltri, di cui da tempo aveva intuito le doti: una quotidiana e sterminata inchiesta che per dodici mesi riprendesse e rifacesse le cronache di dieci anni prima, 1993, annus horribilis dell’impazzimento manettaro. Va detto che all'epoca, cioè dieci anni dopo Mani pulite, forse era presto per pretendere che l’inchiesta di Feltri non scivolasse su una grande rimozione: mentre oggi, a distanza di 23 anni, viceversa viene da temere che dalla rimozione si possa passare all’oblio e all’ignoranza, direttamente. Per ricostruire dei fatti basta metterli in fila, ma rendere il clima di quegli anni è molto più difficile. Il libro ci prova. 
Battersi il pugno sul petto in segno di resipiscenza suona stucchevole, ma nel caso di Mani pulite non lo si fa mai a sufficienza. Non lo si fa proprio, a dirla tutta. Feltri parla subito di «un impazzimento collettivo di cui ero stato partecipe» (pur da ragazzino 24enne) ma il vero problema lo accenna alla fine della premessa: «Chiedo scusa a familiari che amo, a giornalisti e politici che ho imparato a stimare, o che sono diventati miei amici, miei direttori, miei punti di riferimento, e che qui sono citati senza pietà». Quel «senza pietà» è di troppo, perché in effetti c’era solo da citare (testualmente) quel che aveva scritto e detto la stragrande maggioranza dei giornalisti e intellettuali e cittadini di questo Paese; parliamo di un periodo in cui 63 milanesi su 100 giudicavano gli schiavettoni ai polsi dei politici «una cosa giusta», e in cui il professor Gianfranco Miglio, già ideologo della Lega di Bossi, diceva che «il linciaggio è la forma di giustizia più alta», e in cui nel tremulo emiciclo di Montecitorio riuscivano a farsi largo personaggi come Luca Oreste Orsenigo col suo cappio agitato in aula. Già, era il periodo in cui cortei di estremisti in giacca di tweed sfilavano nelle piazze, nelle arene televisive, e con i lenzuoli alla finestra, le fiaccole, i palloncini, i loro piccoli e grandi Di Pietro cui intonare un salmo di riconoscenza. Un sondaggio di quel periodo attribuiva al magistrato il 90 per cento della fiducia degli italiani: non è mai successo per nessun altro. Sì, è difficile ricostruire quel clima: il prodotto interno lordo calò dell'1,2 per cento e i consumi scesero del 2,5, decrescita peggiore dal dopoguerra; il valore della lira andò in discesa libera e si era a un passo dalla bancarotta. La Lega, oltretutto, minacciava secessioni (eventualità che allora si prendeva più sul serio) mentre nella vicina ex Jugoslavia si scannavano serbi e croati e bosniaci e musulmani. La mafia, dopo le stragi di Falcone e Borsellino, preparava altre bombe mentre pezzi di apparati dello Stato, orfani della guerra fredda, erano in subbuglio. In mezzo a tutto questo, l'inchiesta Mani pulite distruggeva un ceto politico, senza che, oggettivamente, un altro avesse il tempo di sostituirlo. 
Parlare dell’impazzimento dei giornalisti, in particolare, resterebbe la cosa più divertente. L’altro giorno, per dire, Gianni Riotta ha recensito il libro di Mattia Feltri, Novantatré. L'anno del terrore di Mani pulite (Marsilio, pp 320, euro 17,50): e Riotta non è che non ci fosse, nel 1993; per un bel periodo condusse Milano, Italia, talkshow lanciato da Gad Lerner. Commise degli errori? Si fece coinvolgere dalla vulgata? Chissà, non ricordiamo bene: sicuramente lui, sulla Stampa, non lo ricorda a sua volta. 
Forse c’è troppo, da ricordare. La ressa al Palazzaccio tra telecamere e gabibbi. I parvenu della Fininvest che in quei giorni esordivano coi loro telegiornali e, dapprima sospettati di intelligenza col nemico, cioè con gli inquisiti, eccedettero poi in senso opposto. E i cronisti, l’informazione stretta nel collo di bottiglia di poche relazioni personali di ovvio schieramento coi magistrati, una redazione giudiziaria unificata con distribuzione equanime di notizie e verbali. I giornalisti con la maglietta «Anch’io seguo Mani pulite», il primo avviso di garanzia a Craxi appeso in sala stampa (dopo aver brindato a champagne) con L’Espresso e Panorama nel ruolo di portavoce della Procura. L’alleanza di ferro tra quattro giornali italiani (Corriere, la Stampa, l'Unità e Repubblica) che stabilì un patto di consultazione che li rendeva fortissimi: si concordavano campagne, notizie e i titoli. L’unico giornale sdraiato sulle procure era Il Giorno col suo antagonista naturale che era L’Indipendente, dove ai brindisi all'avviso di garanzia si accompagnavano ammiccamenti alla violenza di piazza. Persino al manifesto, storicamente garantista, a parte sporadici editoriali, la linea pro-giudici non conosceva tentennamenti. Starete notando che non stiamo facendo nomi, non ora, non qui: beh, Mattia Feltri li fa.

Nessun commento: