giovedì 21 gennaio 2016

Internet contro la democrazia moderna: Evgeny Morozov. La sinistra imperiale di complemento dalla tecnomania alla tecnofobia

Evgeny Morozov: Silicon Valley: i signori del silicio,  Codice Edizioni
Risvolto
Da alcuni anni le aziende della Silicon Valley promettono abbondanza, prosperità, riduzione delle disparità e una nuova società in cui tutto sarà condivisibile e accessibile, superando le vecchie logiche di mercato. Ma le cose stanno davvero così? Siamo sicuri che Google, Amazon, Facebook, Twitter & Co. non siano piuttosto l’ultima incarnazione del capitalismo (ancora più subdolo, perché mascherato dietro le suadenti parole della rivoluzine digitale) e l’ennesima versione dell’accentramento di potere economico e politico nelle mani di pochi? In tutto questo, sostiene Morozov, di democratico, rivoluzionario e “smart” c’è ben poco. C’è invece una merce svenduta sull’altare del profitto: i nostri dati personali, la nostra privacy e soprattutto la nostra libertà.

Vade retro Silicon Valley 
Il nuovo libro di Evgeny Morozov è un atto d’accusa contro i signori delle nuove tecnologie e il loro “diabolico” potere politico-economico Ma scorda che da quel mondo arrivano anche benefici e benessere
Massimo Russo Stampa 21 1 2016
Pensate che quel che accade nella Silicon Valley riguardi la tecnologia, o l’economia? Vi sbagliate di grosso, perché il digitale è politica. E che siate a favore o contrari, in fondo importa poco: perché in entrambi i casi, semplicemente accettando il quadro concettuale che il pensiero unico dei signori di Internet impone, state facendo il gioco «degli aspetti peggiori dell’ideologia neoliberista». Manca solo lo Stato imperialista delle multinazionali (Sim) per ripiombare in pieni Anni 70. Ma a scrivere non è Toni Negri, di cui pure nel libro si ritrovano le citazioni, a fianco a quelle di Gilles Deleuze: l’autore è Evgeny Morozov, uno dei più brillanti analisti del mondo delle nuove tecnologie, che - avendo 32 anni - in quell’epoca non era neppure nato.
Silicon Valley: i signori del silicio è il titolo del suo ultimo saggio, in uscita in Italia il 28 gennaio per Codice, con la traduzione di Fabio Chiusi. Un’opera con la quale il sociologo e giornalista bielorusso, docente a Stanford, compie un salto. La sua non è più una critica al cyberottimismo, la visione positiva di un futuro migliorato dalla tecnologia, ma la dichiarata volontà di superare il capitalismo contemporaneo. Qui non si parla più di distopie, come nel romanzo Il cerchio di Dave Eggers, o di visioni negative del progresso alla Andrew Keen, ma di un vero e proprio programma politico. Wall Street e la Silicon Valley, argomenta Morozov, sono solo due facce della stessa medaglia: le grandi piattaforme digitali come Amazon, Google e Facebook, o i giganti della sharing economy come Airbnb e Uber, in realtà sono animati dagli stessi istinti predatori della finanza, e - monopolizzando i dati personali - si appropriano dello spazio pubblico. Tutto ciò, insiste l’autore, accade mentre l’illusione di poter fruire di servizi personalizzati in realtà uccide la solidarietà.
La faccia oscura
Non basta. Come nell’operato delle fabbriche nel ’900 non veniva calcolato il costo ambientale dell’inquinamento, così ora nessuno ragiona sulla faccia oscura della 
disruption, lo scardinamento dei modelli di business tradizionali. Mentre i grandi siti ci allettano fornendo servizi a costo più basso, o addirittura gratis, il prezzo occulto in realtà sono le nostre informazioni personali, attraverso le quali le piattaforme consolidano la propria posizione.
Per difendersi, secondo Morozov, nemmeno il luddismo è più sufficiente: «Il vero nemico non è la tecnologia, ma l’attuale regime politico ed economico - una diabolica commistione tra il complesso militare-industriale e la totale mancanza di controllo su annunci pubblicitari e mondo bancario - che sfrutta le più recenti tecnologie per raggiungere i suoi scopi malvagi [sic!], anche se redditizi e talvolta piacevoli». Ci promettono più libertà, ma in realtà ci stanno mettendo il bracciale elettronico; ci impediscono di immaginare alternative; sono un pericoloso esempio da imitare per le istituzioni. Queste, secondo l’autore, sono le ragioni per «odiare la Silicon Valley».
Soluzioni: staccare la spina, sostituire il welfare in crisi con il reddito garantito ai cittadini, liberarsi dalle piattaforme e tornare a forme di rete auto-organizzate. Una visione che cancella i benefici che smartphone, social, servizi digitali comportano ogni giorno per miliardi di persone, a cominciare dai profughi, che Facebook alla mano trovano la strada per la libertà, per continuare con l’esperienza quotidiana di ognuno di noi e di migliaia di piccole imprese.
Squilibri superabili
Morozov scorda che dalla Silicon Valley non viene solo redistribuzione di quel che c’è. Le tecnologie consentono la creazione di nuovo benessere, o il miglior sfruttamento di beni che già esistono. Certo, ciò avviene attraverso squilibri che il pubblico deve cercare di governare e mitigare. Ma il sistema è contendibile: i giganti di oggi, domani possono essere a loro volta superati. Per avere una prova del contrario, basta vedere cosa accade all’economia e alle libertà fondamentali nei Paesi in cui la rete è al guinzaglio: dalla Turchia di Erdogan, alla Russia di Putin, alla Cina, alla stessa Bielorussia, che qualche anno fa proibì ai propri cittadini di collegarsi ai siti stranieri.
La realtà italiana, poi, si distingue per la sua particolarità: a dar retta all’autore rischiamo di invocare la controriforma - il rifiuto del cambiamento - senza aver avuto la riforma. Con il risultato di vedere le tesi di Morozov appoggiate da quanti prosperano sulle rendite di posizione della burocrazia, delle corporazioni, dell’inefficienza. I Signori del silicio è un utile richiamo a tenere sveglia la coscienza critica e a limitare i rischi del consumismo e dell’eccesso informativo. Ma nel demonizzare l’epoca contemporanea, finisce per compromettere anche la lucidità delle sue pagine più efficaci.

"E chi critica è subito tacciato di luddismo” 
Evgeny Morozov 
La Silicon Valley tiene strette in pugno le fila del dibattito pubblico, e finché la nostra critica rimarrà limitata al piano della tecnologia e dell’informazione - descritto da una parola tremenda, tanto insignificante quanto abusata: digitale - la Silicon Valley continuerà a incarnare la rappresentazione di un settore eccezionale, unico. Quando gli attivisti del cibo si scagliano contro Big Food e sostengono che le aziende alimentari aggiungono troppo sale e troppi grassi ai loro snack per renderli più gustosi e farceli desiderare, nessuno osa tacciarli di anti-scientificità. Invece, criticare Facebook e Twitter con argomenti simili - per esempio, mostrando come siano progettati per far leva sulle nostre ansie e manie, e che grazie a questo ci costringano a uno spasmodico e morboso cliccare su «Aggiorna» - porta a immediate accuse di tecnofobia se non addirittura di luddismo.
C’è una ragione se qualsiasi dibattito sul digitale si riduce sempre a una sterile discussione: essendo impostato appunto come dibattito «digitale», non «politico» o «economico», muove da presupposti che sono in partenza favorevoli alle aziende tecnologiche. In nessun dibattito politico o economico accade niente di simile. Anche se non ce ne rendiamo conto, la natura in apparenza eccezionale degli oggetti in questione è codificata nel nostro stesso linguaggio, che si parli di informazione, reti o Internet, e questa eccezionalità nascosta consente a quelli della Silicon Valley di ridurre i critici a dei luddisti che, opponendosi alla tecnologia, all’informazione e a Internet - l’uso del plurale non è contemplato, rischierebbe di sopraffare i loro cervelli - avrebbero come unico obiettivo quello di opporsi al progresso.
Come si fa allora a riconoscere un dibattito sul digitale? Tanto per cominciare, cercate argomenti in cui si faccia riferimento all’essenza delle cose: della tecnologia, dell’informazione, della conoscenza e, naturalmente, di Internet. Ogni volta che sentirete qualcuno dire «questa legge è sbagliata perché metterebbe dei limiti a Internet» o «questo nuovo gadget è fantastico, è proprio quello che vuole la tecnologia», saprete di avere abbandonato l’ambito politico - in cui gli argomenti di solito sono incentrati sul bene comune - e di essere entrati in quello della pessima metafisica.

Sarà la forza delle democrazie a plasmare il futuro di Internet Juan Carlos De Martin
«Internet è diventata la più importante infrastruttura al mondo», scriveva l’ex primo ministro svedese Carl Bildt qualche mese fa. È quindi naturale chiedersi quale sia il rapporto tra Internet e il potere. Domande che potremmo articolare intorno a tre poli principali: il potere di Internet, il potere in Internet e il potere su Internet.
Il potere di Internet è quello che deriva dall’essere, appunto, l’infrastruttura più importante del mondo. Infrastruttura che in questi ultimi vent’anni è diventata la rete su cui transitano notizie, comunicazioni personali, transazioni economiche, intrattenimento, educazione, associazionismo, movimenti politici e molto altro ancora. Quindi il potere di Internet è quello di influenzare quello che pensano e provano miliardi di persone, è quello di permettere l’accesso alla conoscenza, a prodotti e a servizi, è quello di monitorare lo stato del mondo. Detto in altri termini, i rettangoli luminosi dei nostri schermi sono sempre di più nientemeno che la nostra interfaccia verso il mondo. Difficile immaginare una infrastruttura con maggior potere.
Il potere digitale
Parlare di potere in Internet, invece, significa interrogarsi sulla distribuzione del potere nella rete: chi detiene il potere digitale? Forse chi possiede i cavi su cui viaggiano i bit o chi progetta e vende gli smartphone? Chi produce software o chi gestisce le grandi piattaforme come Facebook e YouTube? Domande complesse, anche perché la situazione è - a causa del susseguirsi delle decisioni aziendali, politiche e giuridiche - in costante cambiamento. È proprio per influenzare la distribuzione del potere in Internet che, per esempio, alcune aziende combattono battaglie legali miliardarie (come quelle tra Apple e Samsung); che un numero crescente di governi si interroga sull’opportunità di controllare dove fisicamente passano e vengono immagazzinati i bit; che alcuni parlamenti legiferano su temi apparentemente tecnici come la neutralità della rete e delle piattaforme. Per non parlare del potere giudiziario, che soprattutto in Europa sta intervenendo sempre più spesso su questi temi.
La Dichiarazione dei diritti
Infine il potere su Internet. La rete non è un fenomeno naturale: è stata progettata, costruita e gestita da esseri umani e, come tutte le cose umane, poteva essere diversa da come è e potrà sicuramente cambiare in futuro. Chi ha il potere di fare le scelte strategiche relative a Internet? In democrazia la risposta non può che essere una: il popolo sovrano, l’unica legittima fonte di autorità. E infatti le leggi valgono su Internet come in qualsiasi altro ambito. Tuttavia, se invece parliamo delle decisioni relative alla Internet globale, ci scontriamo con un problema: nel nostro assetto costituzionale il popolo esercita la sua sovranità su base nazionale; la rete, invece, è globale. E in questo momento non c’è un popolo globale che possa democraticamente fare le scelte strategiche che riguardano Internet. E non è neanche agevole sostenere che la rete sia riconducibile agli ambiti regolati da trattati internazionali, come il commercio o le telecomunicazioni. Internet, infatti, ha - come dicevamo all’inizio - un enorme impatto sulla vita degli individui e sui loro diritti, per cui ci vorrebbe davvero un controllo democratico.
Una via per assicurarsi che il potere di Internet, in Internet e su Internet sia allineato con valori democratici è quella dei diritti umani. È quello che chiede da tempo Tim Berners-Lee, l’inventore del web, ed è quello che ha provato a fare qualche mesa fa la Camera dei Deputati approvando una mozione a favore di una Dichiarazione dei diritti in Internet. In ultima analisi, tuttavia, sarà la forza - o la debolezza - delle nostre democrazie a plasmare, oltre al resto, anche il futuro della rete.

Il virus letale della condivisione 
CODICI APERTI. Parassiti che si nutrono delle relazioni sociali e si appropriano dei profili personali. Occhi puntati sulla sharing economy e sull’industria dei Big Data. «Silicon Valley: i signori del silicio» di Evgeny Morozov per Codice edizioni
Benedetto Vecchi Manifesto 18.2.2016, 0:09 
Sharing economy è una espressione che si è fatta largo tra la selva delle definizioni che caratterizzano il capitalismo che ha nella Rete il suo medium. Segue quella dal sapido sapore controculturale della peer to peer production, che metteva l’accento sulla condivisione alla pari di conoscenze e mezzi di produzione nella quale Internet è una neutra piattaforma per determinate attività economiche separate tuttavia da quanto accade al di fuori dello schermo. Soltanto che il confine tra dentro e fuori la Rete è svanito. La logica della condivisione, infatti, è ormai riferita ad attività produttive, di informazione, conoscenza, software. Coinvolge infatti ogni attività di intermediazione tra produzione e consumo. Inoltre la sharing economy non prevede un rapporto alla pari, bensì una relazione mercantile, dove l’attività di intermediazione prevede un pagamento di una percentuale tra produttore e consumatore. Non è un caso che i nomi usati per esemplificare la sharing economy sono Uber e Airbnb, cioè servizi di taxi e di affitto di una stanza o di un appartamento per viaggi di lavoro o di piacere. Il tutto accompagnato da una melassa ideologica sul potere del consumatore di poter scegliere il miglior prodotto a prezzi accessibili e sulla possibilità di vedere realizzati il proposito neoliberista di trasformare ogni uomo o donna in imprenditore di se stesso. 
In nome del municipalismo 
Sarebbe un errore ridurre la sharing economy a mera ideologia, perché individua una forma specifica di organizzare tanto la produzione che la distribuzione o il consumo di merci, poco importa se tangibili o «immateriali». Coinvolge cioè gran parte della produzione di contenuti – non è un caso che Google o Amazon abbiano destinato miliardi di euro di investimento allo sviluppo di «piattaforme» per la loro condivisione di contenuti, integrando questa funzione con l’accumulo di dati. È proprio la diffusione virale di questa forma di intermediazione che ha accompagnato alcune tesi critiche della sharing economy incardinate sullo sviluppo di imprese «cooperative» alternative al regime di accumulazione capitalistico basate appunto sulla condivisione, evocando le forme di municipalismo e di mutuo soccorso sviluppate dal movimento operaio di inizio Novecento. 
Sono alcuni anni che Evgeny Morozov dedica la sua attività di studioso a criticare la sharing economy. L’ultima, in ordine di tempo, tappa della sua sferzante critica, è la raccolta di saggi e articoli scritti tra il 2013 e il 2015 nel volume Silicon Valley: i signori del silicio (Codice edizione, pp. 151, euro 13. A questo proposito va segnalata l’intervista a «il manifesto» del 15 Ottobre 2015). Sono testi illuminanti non solo del percorso di Morozov ma di una tendenza teorica critica che attraversa tanto il Nord che il Sud del pianeta e che vede affastellarsi economisti, giuristi, filosofi, guru dell’era digitale come Nicholas Carr, Jason Lanier, Byung-Chul Han, Howard Rheingold. Ognuno di loro, seppur da prospettive diverse, mette in evidenza come la grande trasformazione sia ormai alle nostre spalle e che non tutto è oro quel che luccica. Ma Morozov ha dalla sua la costanza nel tessere una trama analitica, anche se non sempre convincente, tesa a costruire una storia del presente che registri sia le continuità che le discontinuità presenti nel capitalismo contemporaneo.
Lo studioso bielorusso non vuole cioè presentare nessuna «grande teoria», ma fornire elementi che consentano una «destrutturazione» di un immaginario che considera il capitalismo digitale come un mondo pacificato dove ogni ipotesi alternativa è bandita. Dunque, nessuna corrosiva critica alla «società del capitale», né nessuna proposta che punti alla sua fuorisucita come invece fa Paul Mason nel suo «manifesto postcapitalista» (il libro dell’economista e columnist britannico è in uscita per i tipi del Saggiatore), bensì una appassionata e sferzante radiografia del presente che arriva alla suggestiva proposta di una «socializzazione dei Big data», cioè quell’immane ammasso di dati individuali dopo la loro appropriazione privata da parte di social media e social network.
Nel diario di viaggio della sua navigazione del cyberspazio Morozov annota l’emergere del capitalismo delle piattaforme digitali, considerate alla stregua di parassiti che si nutrono delle relazioni sociali: non producono nulla, ma si appropriano di contenuti sviluppati da altri. Il caso più eclatante è la tanto citata e vituperata Uber che attua una politica aggressiva nei confronti di chi la usa come piattaforma, imponendo tariffe e «canoni» da pagare che costringono il singolo ad essere disponibile 24 ore al giorno se vuol conseguire un reddito dignitoso. Tanto aggressiva nei confronti di chi usa la sua piattaforma, Uber è specularmente friendly nei confronti dei potenziali utenti, prospettando basse tariffe e libertà di scelta.
Ma accanto a Uber e Airbnb c’è il variegato mondo dell’«internet delle cose». Con questa espressione si parla dei dispositivi digitali inseriti in elettrodomestici, in centraline elettriche collegati in rete (spesso gestiti da smartphone) destinati a ottimizzare consumi di energia elettrica. Oppure quelli usati per la geolocalizzazione che monitorano i movimenti dei singoli. L’effetto collaterale, va da sé, è la crescita dell’industria dei Big Data.
Con efficacia, Morozov parla di una smartification della vita sociale, cioè di una riduzione di ogni attività a una elaborazione di informazioni e di profili individuali al fine di aumentare i Big Data da vendere per strategie pubblicitarie oppure operazioni di marketing personalizzato. Da qui la centralità della cyber security sia aziendale che sociale, l’unico altro settore con una crescita a due cifre dell’industria high-tech. Morozov denuncia ovviamente i rischi dello sviluppo di una società del controllo di un regime postdemocratico. 
Il volume, che raccoglie scritti apparsi su «Frankfurter Allgemeine Zeitung», «the Observer» e «the New Yorker», non nasconde riferimenti teorici eterodossi e l’interesse verso le tesi dell’attivismo radicale, ognuno a suo modo chiavi di accesso alla comprensione dello sviluppo capitalistico. E coglie nel segno nel porre la sharing economy come, appunto, componente di una ideologia dominante di quel neoliberismo che ha usato la crisi come chance per continuare l’opera di demolizione dei diritti sociali di cittadinanza e per uscire rafforzato da una crisi ritenuta il suo ultimo canto del cigno. 
L’austerity è diventata così un dogma che orienta le politiche economiche e sociali degli Stati Uniti, dell’Unione Europea, ma ormai anche di paesi emergenti come la Cina, il Brasile, l’India. E se la finanziarizzazione dei diritti sociali sembrava non più di un lustro fa una tendenza, ormai è diventata la «cifra» per avere la pensione, la sanità, la formazione e l’istruzione. Ma questo non significa che molti degli «effetti collaterali» dell’austerity (disoccupazione, aumento delle disuguaglianze sociali, crisi della democrazia) non trovino echi nei teorici proprio del neoliberismo. Negli Stati Uniti, ad esempio, think tank conservatori parlano espressamente di un reddito minimo garantito per i disoccupati di breve e lungo corso. Ovviamente nelle forme neoliberali dei voucher da usare nell’acquisto di merci e servizi; e della disponibilità degli stessi disoccupati ad accettare lavori dequalificati o di riqualificazione urbana (gli equivalenti degli italiani lavori socialmente utili). D’altronde è stato proprio l’economista Milton Friedman, il «padre» dei Chicago Boys, a proporre una versione del reddito di cittadinanza ben prima dell’era della Rete. 
Tuttavia l’agit prop più convinto del reddito di cittadinanza è una delle figure che ha legato il suo nome proprio alle tecnologie digitali. Si tratta di Jason Lanier, il «capitalista di ventura» nonché sviluppatore dei primi dispositivi di realtà virtuale, che terrorizzato dalla scomparsa della middle class propone da anni un reddito di cittadinanza per chi rimane senza lavoro e di sostegno a chi riceve un basso salario come le folte schiere dei working poor. 
Jason Lanier non è un teorico. Da tecnico con simpatie new age si colloca in quella zona di confine che fa di un indifferenziato patchwork culturale, dove si giustappongono tesi anche confliggenti, la sua weltanshauung. Ma coglie lo stesso elemento messo a fuoco da Morozov: la sharing economy non è solo una tag buona per tutti gli usi, bensì una vera marxiana astrazione reale. Per Lanier, e anche per Morozov, l’obiettivo è salvare il capitalismo da se stesso. Il problema invece è come destrutturare, l’incantesimo della sharing economy. 
Macchine politiche 
Nel mondo anglosassone sono molte le voci critiche che si sono misurate con la sharing economy. Da Christian Fuchs a Nick Dyer-Whitefort, da Andrew Ross a Sara Horowitz, c’è tutto lo spettro di interpretazioni dove la condivisione viene vista come lo strumento per legittimare un regime di accumulazione segnato da superlavoro, bassi salari e precarietà radicale nel rapporto di lavoro. In questo spettro la voce che più di altre cerca di ribaltare in senso positivo la sharing economy è quella di Trebor Scholtz. In un recente report stilato per la fondazione Rosa Luxemburg, Scholtz elabora un vero e proprio manifesto programmatico di un Platform Cooperativism nel quale propone la costituzione di una rete di piccole e medie cooperative che possono offrire gli stessi servizi e condivisione di contenuti proposti dalle imprese della sharing economy, garantendo però servizi sociali e buoni salari. Scholtz è consapevole che le imprese cooperative – in crescita anche negli Stati Uniti – operano in nicchie di mercato, ma hanno dalla loro la possibilità di costruire consenso sociale attorno al loro operato, attraverso l’investimento di una parte dei profitti – non oltre il dieci per cento afferma Trebor Scholtz – in servizi sociali, pratiche di mutuo soccorso (il reddito di cittadinanza, per esempio) e quindi diffondersi come un virus che corrode dall’interno del mercato le logiche capitalistiche. Le piattaforme digitali svolgerebbero il ruolo di medium per tessere relazioni tra le cooperative, rafforzando il loro operato, ma anche e soprattutto, nelle tesi di Scholtz, di svolgere una funzione politica. 
Le tesi di Scholtz possono essere sicuramente qualificate come ingenue, così come la sua concezione del Politico. Il mutuo soccorso, come anche il mutualismo, sono state esperienze importanti nella formazione del movimento operaio, ma non sono state scalzate dal podio da cinici rivoluzionari di professione, come recita una retorica presente nei movimenti sociali, ma perché il potere viene esercitato producendo gerarchie, istituzioni che garantiscono la riproduzione del regime di accumulazione. Da qui la necessità di svolgere un doppio movimento: creare momenti produttivi, mutuo soccorso, come auspica il Platform cooperativism di Trebor Scholtz, ma al tempo stesso immaginando e sviluppando un Politico che consenta quella riappropriazione del comune che la sharing economy ha espropriato.

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