sabato 9 gennaio 2016

Istanbul 1941

Mezzanotte a IstanbulCharles King: Mezzanotte a Istanbul, Einaudi pagg. 424, euro 32

Risvolto
A mezzanotte del 31 dicembre 1925, i cittadini della neonata Repubblica turca celebrarono il nuovo anno, acconsentendo per la prima volta a utilizzare un calendario e un'ora unificata per tutto il paese. Eppure a Istanbul, antico crocevia tra Oriente e Occidente, la gente guardava incerta al futuro. Mai del tutto turca, Istanbul era da sempre stata casa per generazioni di greci, armeni ed ebrei, oltre che naturalmente musulmani. L'immensa metropoli accoglieva nobili della Russia bianca in fuga dalla rivoluzione, killer bolscevichi sulle tracce di Lev Trockij, professori tedeschi, diplomatici inglesi e imprenditori americani: una panoplia di faccendieri, poeti, benefattori e perdigiorno. Durante la Seconda guerra mondiale, migliaia di ebrei fuggivano attraverso Istanbul verso la Palestina, anche grazie all'impegno del futuro papa Giovanni XXIII. Nella hall del Pera Palace, l'hotel piú lussuoso dell'epoca, punto d'arrivo del celebre Orient Express, si aggiravano cosí tante spie che il direttore fu costretto ad apporre un cartello che le invitava a lasciare il posto agli ospiti paganti. Nella sua prosa elegante e suggestiva, questo libro ridà vita a un'epoca tragica e fantastica in cui l'antica capitale dell'impero ottomano si ritrovò nel giro di pochi anni sbalzata dal Medioevo al mondo moderno.


Il luogo simbolo attraverso cui l’autore di Odessa decide di raccontare la storia della Turchia moderna è il celebre Pera Palace Hotel di Istanbul, che ospitò artisti, musicisti jazz, reali deposti, agitatori comunisti e rivoluzionari sconfitti: da Agata Christie a Leon Trotsky. Quando l’Impero ottomano crollò, nella hall dell’Hotel si mescolavano cosí tante spie che il direttore fu costretto a mettere un cartello chiedendo loro di cedere i posti a sedere agli ospiti paganti. Era il momento in cui il multietnico Impero divenne la Repubblica turca: gli emigrati russi vendevano cimeli di famiglia sui marciapiedi, un impresario afro-americano fondava un jazz club, Miss Turchia diventava la prima reginetta di bellezza musulmana e un professore di Boston svelava i tesori a lungo nascosti della Basilica di Santa Sofia. Intanto, la femminista musulmana Halide Edip, l’esule Leon Trotsky e il futuro Papa Giovanni XXIII combattevano per dare all’umanità nuove prospettive di libertà.


Quella notte di fuoco al Pera Palace di Istanbul 
Turchia 1941, due attentati, un intrigo Tedeschi, inglesi e russi. Un mistero ricostruito dallo storico Charles King

SIEGMUND GINZBERG Repubblica 30 12 2015
La bomba aveva mandato in frantumi la grande cupola di vetro, prodotto un buco dai contorni anneriti nel pavimento. Le foto d’epoca mi ricordano quelle della banca di Piazza Fontana. Erano andati in frantumi anche tutte le finestre e vetrine che davano sulla affollatissima avenue prospiciente, dove passavano i tramvai e i taxi. Tra i morti e feriti gravi si contavano due impiegati dell’ambasciata britannica, i due concierge ebrei dell’albergo, il general manager greco, due agenti in borghese dei servizi segreti turchi, un autista che stava scaricando le valigie dal cofano della sua vettura, e una guardia notturna, entrambi musulmani. L’esplosione nella lussuosa lobby del Pera Palace Hotel di Istanbul era avvenuta alle 21,10 in punto dell’11 marzo 1941. La bomba, anzi le bombe, erano contenute in due distinte valigie arrivate in albergo insieme ai bagagli di una delegazione britannica. L’inchiesta rivelò che le due valigie erano state mescolate a quelle dei diplomatici britannici diretti a Istanbul al momento della loro partenza dalla stazione di Sofia. Degli attentatori, presumibilmente bulgari, non si trovò traccia. Il giudice inquirente turco, essendo «giunto alla conclusione che si trattava di un attentato contro la Legazione britannica, preparato a Sofia da un’organizzazione bulgara o tedesca, e non di un attentato ordito entro i confini turchi o contro interessi turchi», giunse alla bizzarra conclusione che non c’era luogo a procedere, e archiviò il caso.
Un secondo e ancora più clamoroso attentato scosse Ankara nel febbraio del 1942. L’ambasciatore della Germania nazista, Franz Von Papen, stava compiendo la sua abituale passeggiata in compagnia della moglie lungo il ventoso viale prospiciente la sua residenza, quando un uomo imbottito di esplosivo si fece esplodere a pochi metri dalla coppia. L’ambasciatore e sua moglie restarono illesi: lui si era rovinato l’impeccabile vestito di alta sartoria e si era fatto un taglio al ginocchio, lei aveva smagliature alle calze. L’attentatore invece era finito a pezzi. L’inchiesta rivelò che si trattava di un musulmano bosniaco, naturalizzato turco. Gli avevano procurato un revolver, col quale avrebbe dovuto sparare a Von Papen.
E anche una valigetta, spiegandogli che conteneva un ordigno fumogeno che gli avrebbe facilitato la fuga. Invece conteneva un congegno esplosivo. Avrebbe dovuto completare l’attentato nel caso le pallottole non fossero bastate e al tempo stesso eliminare un testimone imbarazzante, l’attentatore. L’uomo, lasciatosi prendere dal panico, si dileguò prima di compiere l’attentato e aveva azionato il congegno in anticipo. Il trucco avrebbe talmente colpito la fantasia di Ian Fleming, il padre di James Bond, da utilizzarlo pari pari in uno dei suoi romanzi.
Von Papen e Berlino accusarono i servizi britannici. Questi misero in giro la voce che i mandanti stavano invece a Berlino: i nazisti ultrà avrebbero deciso di levarsi di torno un concorrente scomodo di Hitler, un moderato cattolico. In base allo stesso ragionamento, altri indicarono il mandante a Mosca. Forse Stalin temeva che gli Alleati occidentali potessero concludere la pace con una Germania più presentabile e un cancelliere diverso da Hitler. Von Papen aveva il profilo perfetto per una simile eventualità.
Tra tutte le piste l’inchiesta dei turchi privilegiò quella russa. Com’era naturale dopo due secoli di guerre e perfidie tra zar e sultani. Seguì un processo contro due diplomatici sovietici accusati di aver reclutato gli attentatori. La Pravda reagì indignata imputando ai turchi di piegarsi agli interessi degli “ambienti fascisti”. Ci furono scambi furibondi, tipo quelli tra Putin ed Erdogan.
Gli americani diedero ragione agli alleati sovietici. L’Emniyet, il servizio segreto turco aveva rivelazioni da un ex ambasciatore cecoslovacco e da un agente sovietico di origine musulmana, passato a loro. A dirigere l’operazione sarebbe stato un diplomatico sovietico di stanza ad Istanbul di nome Naumov. Era l’alias usato da Leonid Eitingon, l’uomo che pochi mesi prima aveva coordinato a Città del Messico l’assassinio di Trockij. Il procuratore turco sostenne che i russi volevano provocare una guerra tra Turchia e Germania. E così prendere due piccioni con una fava: alleggerire il proprio fronte e, al tempo stesso, impadronirsi del Bosforo con la scusa di prestare aiuto ai turchi. Gli imputati negarono, poi confessarono, infine ritrattarono. Furono condannati. Poi rimpatriati nel 1944 come gesto di buona volontà della Turchia verso gli Alleati che ormai stavano vincendo la guerra.
I due attentati, oltre al mistero sui mandanti, avevano un’altra cosa in comune: le concitate manovre, da parte di tutti gli attori in causa, per spingere la Turchia a entrare in guerra a fianco del Reich tedesco, oppure, all’opposto, a fianco degli Alleati. Si sa come andò a finire: la Turchia si destreggiò tra gli uni e gli altri quasi fino alla fine, e si decise a dichiarare guerra alla Germania nazista solo nel febbraio 1945.
Parla diffusamente di entrambi gli episodi l’avvincente Mezzanotte a Istanbul di Charles King (Einaudi: ma il titolo italiano non rende giustizia quanto l’originale Midnight at the Pera Palace alla scelta di ripercorrere la storia di Istanbul nel Novecento attraverso le vicende del più famoso dei suoi grandi alberghi). Accenna invece solo al primo (la bomba al Pera Palace), ma non al secondo (l’attentato ad Ankara) il feuilleton storico di Ayse Kulin L’ultimo treno per Istanbul (appena pubblicato da Newton Compton, con un’irritante traduzione dall’inglese anziché dal turco e strafalcioni quasi ad ogni pagina). E questo malgrado l’intero romanzo sia un panegirico su come i turchi seppero resistere alle pressioni da una parte e dall’altra, mantenere la neutralità e sventare la minaccia sovietica, riuscendo nel contempo a salvare dai campi di sterminio i cittadini turchi di origine ebraica.
Il titolo si riferisce a un treno speciale organizzato nel 1943 da diplomatici turchi per portare in salvo, da Parigi a Istanbul, raccogliendone altri lungo il percorso, gli ebrei turchi minacciati dall’Olocausto. L’autrice, pasionaria nazionalista del tipo che di questi tempi fiorisce un po’ in tutta Europa, ebbe però un infortunio quando la intervistarono alla Cnn. Il giorno prima a Istanbul era stato assassinato lo scrittore turco di origine armena Hrant Dink. Le fecero una domanda su- gli armeni. Lei rispose che a differenza degli ebrei, che non avevano fatto nulla di male (ai turchi, almeno), gli armeni se l’erano cercata.
Scoppiato un putiferio, si arrampicò sugli specchi per sostenere che era stata capita male. La fascetta editoriale dice: «10 milioni di copie tradotto in 27 paesi». Sarà. Anche ai polpettoni propagandistici può capitare di diventare best-seller.



Istanbul Express Tra Oriente e Occidente, tra Impero ottomano e Repubblica Turca, i primi quarant’anni del Novecento cambiarono volto alla città sul Bosforo Quella stagione, unica e tragica, rivive nel libro di Charles King (Einaudi) 9 mar 2016  Corriere della Sera di Pietro Citati
Un viaggiatore fiammingo del Sedicesimo secolo scrisse così di Istanbul: «Per quanto riguarda il sito della città, sembra che sia stato creato dalla natura per ospitare la capitale del mondo». La limpida freschezza dell’acqua, affollata di vascelli e di imbarcazioni di ogni dimensione e Paese, i raggi del sole a mezzogiorno, che rivestono d’oro le innumerevoli cupole, i minareti e i palazzi, illuminando un panorama variegato, conferiscono a questo spettacolo — diceva un viaggiatore del Diciannovesimo secolo — «una sorta di splendore fatato, che non trova eguali nella realtà e può essere superato nell’immaginazione solo dalle creazioni incantate della lampada di Aladino». Corno d’Oro Il ponte di Galata, a Istanbul, in una fotografia scattata negli anni Trenta
In un bel libro pubblicato da Einaudi ( Mezzanotte a Istanbul, traduzione di Luigi Giacone), Charles King racconta con estro ed efficacia quale fu e quale apparve Istanbul nei primi quaranta anni del Ventesimo secolo. Era minacciata dal fuoco: i grandi incendi erano frequenti e devastanti; i roghi così familiari che entrarono a far parte della letteratura folclorica col nome di «poemi epici del fuoco». Appena calava l’oscurità, scoppiava qualche incendio, in un punto o nell’altro della città, sul versante europeo o in quello asiatico. Quando la terra non bruciava, tremava: terremoti radevano al suolo intere aree urbane, permettendo ad arditi speculatori di ridisegnare il paesaggio secondo i loro grandiosi progetti.

Verso la fine del Diciannovesimo secolo, Europa ed Asia si avvicinarono prodigiosamente. Nel 1880 fu fondata la Compagnie Internationale des Wagons Lits et des Grands Expresses Européens. Tre anni dopo, in una domenica d’ottobre del 1883, ebbe luogo il viaggio inaugurale dell’Orient Express: trainato da una potente locomotiva a vapore, il treno era composto da una vettura-bagagliaio, due vagoni-letto e una carrozza ristorante illuminata a giorno, oltre a un vagone merci che chiudeva il convoglio. In ogni vettura, c’erano venti cuccette, disposte a castello su due piani. Nel 1905 i viaggiatori salivano sul treno a Parigi, e raggiungevano Istanbul senza mai abbandonare la propria cuccetta: in quel momento, come scrisse un giornale dell’epoca, «avvenne l’annessione di Istanbul al mondo occidentale».

A Istanbul il viaggiatore europeo scendeva nel quartiere più alla moda, Pera. Lì era stato costruito il Pera Palace Hotel: il più grandioso albergo in stile occidentale nel cuore del più grande impero islamico del mondo. Esso faceva parte di una fastosa catena alberghiera, che comprendeva l’Avenida Palace a Lisbona e l’Odyssée Palace a Parigi. Come diceva la Guide Bleu, era dotato di tutti i moderni confort: ascensore, bagni, docce, caloriferi, illuminazione elettrica; e offriva una magnifica vista sul Corno d’oro.
Snello ed elegante, con i baffetti e un’incipiente calvizie, Prodromos Bodosakis era l’immagine stessa dell’élite greca di Istanbul, urbana e sicura di sé. Aveva acquistato l’albergo dalla società Wagons-Lits. Ufficiali turchi, inglesi, francesi, tedeschi, imprenditori di ogni nazione trovavano in lui un albergatore disposto ad accoglierli: mentre venivano ossequiati festosamente da avventurieri levantini privi di scrupoli, vere o false principesse decadute, ragazze greche ed armene dalla moralità inconsistente. Nel 1927 il Pera Palace fu acquistato da un uomo d’affari musulmano, che risistemò il bar, fece lucidare le rifiniture in ottone dell’ascensore, riportò in vita la reputazione dell’hotel come la meta più naturale per i viaggiatori provenienti dall’Europa. Ogni sera la cena era accompagnata dal suono dell’orchestra: alle diciassette del venerdì e della domenica, si teneva un thé concert.
Subito a nord si trovava il locale notturno più celebre di Istanbul, il Grand bar, aperto da ebrei immigrati dalla Bulgaria. Ogni pomeriggio, dalle diciassette alle venti, vi erano matinée musicali, a cui seguiva «ogni genere di bizzarria». Compagnie musicali in tournée, provenienti da Vienna e Parigi, allestivano spettacoli di rivista: funamboli e trapezisti si afferravano a volo nell’aria. A metà degli anni Venti il locale più frequentato era la grande salle del Maxim: gremito di russi aristocratici, di dilettanti bohémien, che fumavano e bevevano, mentre una jazz band americana suonava sul palco. Tutto mutava rapidamente. Con un semplice cambio di cappello, gli ospiti indossavano il fez, trasformandosi da uomini di mondo occidentali in signori turchi. Lungo la Grande Rue di Pera, spuntavano altri locali, il Rose Noire, il Turquoise e il Kit-Kat. Vi si mangiavano intrugli turchi dai nomi bizzarri: droghe come la canapa indiana e l’oppio non impedivano di lavorare, lenivano i dolori, suscitavano un fantastico senso di ebbrezza. La cocaina dilagava nei nightclub, nei bar e persino nelle hall dei grandi alberghi: un flaconcino di cocaina stava comodamente nascosto all’interno di un tacco alto per signora.
La popolazione di Istanbul era variegatissima. Nel 1923 venivano pubblicati undici quotidiani in turco, sette in greco, sei in francese, cinque in armeno, quattro in ladino. Le cattedrali greco-ortodosse si alternavano alle moschee, alle chiese cattoliche, e ai luoghi di culto degli armeni cattolici, armeni gregoriani, caldei, anglicani, protestanti tedeschi. Si diffusero gli eunuchi neri, che avevano rinunziato ai loro organi sessuali in cambio di privilegi. Ma le popolazioni non musulmane abbandonarono a poco a poco Istanbul: cinquantamila greci la lasciarono alla fine del 1922.
L’impero ottomano, questa creazione grandiosa che aveva dominato il Mediterraneo per secoli, si dissolse. Nel 1923 il sultano ottomano fu deposto. Il califfato, che aveva incarnato l’idea islamica del potere, scomparve. Allora i turchi ruppero risolutamente con il passato, rifiutando l’impero islamico pluriconfessionale. Proclamarono una moderna repubblica laica, la Repubblica Turca, sotto l’esempio di quella francese. Il nuovo capo della Turchia, Mustafa Kemal, spostò la capitale lontano dall’Occidente, ad Ankara. All’improvviso l’ora e la data diventarono quelle di Parigi e New York, e non di Mecca e Medina. Mentre tutto tramontava, Istanbul si velò del sentimento di hüzün: quella sorda e cupa malinconia che contemplava le mura in rovina e la fine di tutte le cose, ma apriva la strada a un vago futuro.
A Istanbul nacquero nuovi suoni. Per le strade, ai carri trascinati dai bufali si mescolarono i tram elettrici e le automobili. Dai sobborghi saliva il ritmo delle orchestrine jazz: il plettro armeno, le canzoni sentimentali della malavita levantina; mentre nell’aria si diffondevano le sirene delle ambulanze, delle camionette militari e delle autocisterne. I richiami e le grida fastidiose lanciate dalle voci umane, le maledizioni dei pazzi, gli appelli insistenti dei venditori ambulanti di spezie gareggiavano con i rumori prodotti dalle tecnologie moderne.

Giunsero gli europei: non come conquistatori, ma come sfollati e profughi, vestiti di stracci, travolti dalla miseria e dalla disperazione; e si mescolavano ai soldati mutilati dell’esercito ottomano. Molti impiegati dell’amministrazione turca erano rimasti senza lavoro. Alla fine del 1920, le cucine delle truppe alleate sfamavano, a Istanbul, centosessantacinque mila persone al giorno, quasi un quinto della popolazione della città prima della guerra.
Giunsero i russi, spesso aristocratici, fuggendo la rivoluzione sovietica. Quando scendevano sulle banchine del porto, apparivano i rappresentanti del Pera Palace Hotel e degli altri alberghi, cercando di accaparrarsi i nuovi venuti. Durante il periodo dell’emigrazione, in nessun altro Paese, neppure nei Paesi slavi, i russi si sentirono più a loro agio che a Istanbul. Avevano portato con sé i resti delle vite passate: sui muri grandi fogli di carta portavano impressa l’aquila bicipite dell’impero russo. Nel quartiere di Pera i negozi dell’usato traboccavano di detriti: argenti, porcellane, fotografie di famiglia, tabaccherie con lo stemma dei Romanov, uova di Pasqua in porcellana, onorificenze militari, coltelli cosacchi, icone incorniciate d’argento.
Come scrisse un ufficiale bianco, Istanbul diventò «una città completamente russa». Le strade di Pera erano piene di gente che gridava in russo: «Ciambelle fresche ed appetitose», «noci del Libano!», «vendo a poco prezzo una camicia assolutamente nuova!». Sulla porta di un ristorante, il Grand Cercle Moscovite, stava un antico cosacco: il direttore aveva posseduto una fabbrica a Kiev: lo chef del palazzo dello zar a Livadna dirigeva le cucine: il maître d’hotel aveva lavorato allo Jar, il ristorante più famoso di Mosca; tutti i camerieri erano stati ufficiali dell’esercito zarista. Nella hall del Pera Palace Hotel si trovavano cavalleggeri della Guardia Imperiale, ufficiali dell’Artiglieria a cavallo, veterani della guerra russo-giapponese, burocrati dei ministeri della Giustizia e degli Interni, deputati, medici, avvocati, scrittori, buddisti provenienti dalla Siberia. Quando si incontrava un mendicante, si poteva quasi essere certi che parlava russo. La città brulicava di musicisti e suonatori scesi da Pietroburgo e da Mosca.
Durante gli ultimi anni della Seconda guerra mondiale, gli ebrei d’Europa cercavano di fuggire dalla Bulgaria e dalla Romania attraverso il Bosforo. Il governo turco rifiutò di permettere che essi sbarcassero, nel timore di cancellare il nome di Paese neutrale; e le autorità inglesi della Palestina negavano alle navi cariche di ebrei il permesso di fare rotta verso Haifa. I passeggeri si trasformarono in apolidi. Giunti da una nazione che non era più la loro, non appartenevano ad alcun percorso né avevano alcuna destinazione. La bandiera gialla della quarantena venne issata sull’albero maestro della Struma: la nave venne rimorchiata al largo: il capitano ricevette l’ordine di tornare in Bulgaria, ma un sottomarino sovietico prese di mira la nave. All’alba del 24 febbraio 1942, un’enorme esplosione squarciò lo scafo; e la Struma si spezzò in due tronconi. Dei settecentoottantacinque ebrei che erano a bordo soltanto uno sopravvisse.

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