venerdì 8 gennaio 2016

La violenza nella fondazione e conservazione della democrazia moderna

Media of Democracy and Revolutionary PoliticsNeera Chandhoke: Democracy and Revolutionary Politics, Bloomsbury, Academic Publishing, pagg 182

Risvolto

Democracy and political violence can hardly be considered conceptual siblings, at least at first sight. Democracy allows people to route their aspirations, demands, and expectations of the state through peaceful methods; violence works outside these prescribed and institutionalized channels in public spaces, in the streets, in the forests and in inhospitable terrains. But can committed democrats afford to ignore the fact that violence has become a routine way of doing politics in countries such as India?
By exploring the concept of political violence from the perspective of critical political theory, Neera Chandhoke investigates its nature, justification and contradictions. She uses the case study of Maoist revolutionaries in India to globalize and relocate the debate alongside questions of social injustice, exploitation, oppression and imperfect democracies. As such, this is an important and much-needed contribution to the dialogue surrounding revolutionary violence.

Chandhoke tra visioni e rivoluzioni
Sebastiano Maffettone Domenicale 3 1 2016
Neera Chandhoke, già profess ore di Political Science presso l’Università di Delhi è al momento membro dell’influente Indian Council of Social Science Reasearch. Autrice prolifica, il suo tema centrale è costituito dalla società civile e da rapporto che questa ha con il pluralismo religioso e la democrazia politica. Questo suo ultimo libro su Democracy and Revolutionary Politics non va lontano da questa traccia abituale, ma con un’enfasi nuova – rivelata dal titolo - sulla politica rivoluzionaria. 
Quest’ultima è quella che ha caratterizzato, negli ultimi anni, numerosi movimenti che hanno scosso il Sud del mondo, dalla famosa Primavera araba al Nepal. Tali movimenti hanno visto la protesta di ingenti masse di persone contro regimi monarchici e dittatoriali in nome di un diffuso sentimento anti-autoritario. Gli spazi pubblici sono stati così invasi e pervasi da turbamenti rivoluzionari a catena che a molti di noi ricordano –con le dovute differenze- quanto accadde nell’Est europeo con la cosiddetta “rivoluzione di velluto” (dal 1971 Polonia in poi). In questo modo, una società civile emergente afferma un nuovo dizionario politico in cui concetti come partecipazione e associazionismo hanno senza dubbio un ruolo preponderante, in modi e forme che riprendono le tesi teoriche di un Tocqueville più che quelle – usualmente legate alla nozione di società civile - di uno Hegel o di un Gramsci. La conseguenza politica principale di questi movimenti della società civile consiste nel diffondersi di pratiche e ideali democratici. Ma si tratta di una democrazia sui generis, slegata come è dai fondamenti liberali che hanno contraddistinto la nascita della democrazia in Europa.
Al contrario questi nuovi afflati democratici che connotano la politica del Sud del mondo negli ultimi anni sono spesso caratterizzati da violenti sussulti rivoluzionari che registrano la peculiare resistenza che società civili “immature” vedono crescere al cospetto dell'ingiustizia e della sopraffazione da secoli dominante nei loro ambiti vitali. Nel discutere questi temi, Chandhoke insiste sulla necessità di tarare la politica adattandone i teoremi allo sviluppo della società civile da cui prende le mosse. In buon sostanza, a poco vale un pigro discettare di democrazia avendo in mente il modello Westminister se dobbiamo occuparci di mondi in cui il retroterra cultural-politico è completamente differente d quello in cui il modello in questione è storicamente sorto e si è affermato. Non dovrebbe sfuggire a chi legge d’abitudine la letteratura su questi temi che in questo modo Chandhoke riprende un leit motiv della saggistica post-colonialista.
Lo fa però non solo con un’originalità tutta sua, ma anche con un’intonazione liberal che sfugge al radicalismo semantico e concettuale di tanto post-colonialismo. Offrendo così alla teoria politica la possibilità indispensabile quanto troppo spesso trascurata di confrontarsi con l’attualità di pratiche di rivoluzione costruttiva che fanno sempre più spesso apparizione nell'orizzonte denso di quello che una volta si chiamava “terzo mondo”.

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