giovedì 14 gennaio 2016

L'accusa di antisemitismo è ormai diventata una barzelletta. Presto un appello per il boicottaggio delle istituzioni accademiche israeliane


Eisenkot: «Non voglio vedere un soldato svuotare il caricatore su ragazzine»
Il capo di stato maggiore israeliano sembra dare credito alla tesi avanzata il mese scorso dalla ministra degli esteri svedese Wallstrom di "esecuzioni extragiudiziali" di palestinesi responsabili di attacchi da parte
Gerusalemme lo scorso 23 novembre. Hadil e Norhan Awwad dopo essere state colpite dalle guardie di sicurezza israeliane

di Michele Giorgio il manifesto 18.2.16
Il mese scorso il ministro israeliano Yuval Steinitz non esitò ad accusare di «antisemitismo» la collega svedese degli esteri Margot Wallstrom che aveva chiesto una indagine su sospette «esecuzioni extragiudiziali» di palestinesi, in riferimento all’uccisione sul posto, da parte di militari e polizia, dei responsabili di attacchi con coltelli, spesso solo tentati, a danno di israeliani. Wallstrom, che ha spesso criticato le politiche di Israele, è stata proclamata «persona non grata» e il premier Netanyahu ha difeso con energia la risposta data sino ad oggi dalle forze di sicurezza al «terrorismo palestinese» dopo l’inizio, lo scorso ottobre, dell’Intifada di Gerusalemme. A distanza di alcune settimane dallo scontro diplomatico tra Stoccolma e Tel Aviv, è lo stesso capo di stato maggiore israeliano, il generale Gadi Eisenkot, a dare credito ai sospetti della ministra svedese e alle critiche rivolte a Israele da diversi centri per i diritti umani. Parlando ieri a Bat Yam a un gruppo di future reclute, Eisenkot ha detto di essere contrario all’uccisione sommaria, sul posto, di palestinesi responsabili di attacchi. Le attuali regole d’ingaggio, ha detto, sono «soddifacenti e corrette». Le truppe, ha aggiunto, «possono agire solo se c’è pericolo di vita». A un ragazzo che gli chiedeva la sua opinione sulla risposta appropriata da dare agli attacchi a danno di israeliani, il capo di stato maggiore ha risposto che «L’Esercito non può agire per slogan del tipo ‘se qualcuno vuole ucciderti, uccidi tu per primo’ o ‘chiunque porti delle forbici dovrebbe essere ucciso’…Non voglio vedere un soldato svuotare il suo caricatore su ragazzine con le forbici».
Eisenkot si è riferito all’uccisione al mercato di Mahane Yehuda (Gerusalemme), lo scorso 23 novembre, di una 16enne palestinese, Hadil Awwad, e al ferimento di sua cugina 14enne, Norhan Awwad. Le due ragazzine, del campo profughi di Qalandiya, dopo aver ferito con delle forbici un anziano palestinese (evidentemente scambiato per israeliano) furono affrontate dalle guardie di sicurezza schierate nella zona che spararono a distanza ravvicinata e ad altezza d’uomo uccidendo una delle due palestinesi. Nelle immagini dell’accaduto riprese da una telecamera di sorveglianza, si vede una delle guardie che si avvicina ad Hadil Awwad, a terra, forse già morta, e spara numerosi colpi per finirla. Il filmato fece il giro delle rete suscitando sdegno e interrogativi. Invece per le autorità e gran parte dell’opinione pubblica di Israele il comportamento delle guardie sarebbe stato ineccepibile e adeguato alla minaccia rappresentata dalle due adolescenti palestinesi. Circa un mese prima dell’accaduto a Mahane Yehuda, Amnesty International aveva condannato le «esecuzioni extragiudiziali» di palestinesi responsabili di attacchi con coltelli. Dallo scorso ottobre una trentina di israeliani e circa 170 palestinesi sono stati uccisi, molti dei quali adolescenti.

“Boicotta Israele” anche in Italia Centocinquanta accademici preparano un appello di Mario Baudino La Stampa 13.1.16
Sulla falsariga di quanto è già accaduto in Gran Bretagna, un nutrito gruppo di accademici italiani sta lavorando a un appello che invita la comunità scientifica al boicottaggio culturale di Israele, o quantomeno delle sue istituzioni ufficiali. «Non accetteremo inviti dalle istituzioni accademiche israeliane, non saremo referenti in alcuno dei loro eventi, non parteciperemo a conferenze da loro finanziate, organizzate o sponsorizzate, né coopereremo con loro», avevano scritto trecento docenti e ricercatori britannici (sul Guardian) nell’ottobre scorso, motivando la decisione con le «violazioni intollerabili dei diritti umani inflitte a tutto il popolo palestinese».
Fra loro, molti italiani che insegnano all’estero. La conseguenza è che ora qualcosa di molto simile è in fase di definizione anche da noi. Sarebbero già 150 gli accademici che hanno aderito a un testo ancora non definitivo, come dice uno dei partecipanti, che vorrebbe evitare toni troppo radicali per coinvolgere la massima platea possibile. La sostanza è comunque un no alle istituzioni ufficiali di Israele, che però non si applicherebbe ai singoli intellettuali e docenti israeliani quando invitati (o invitanti) a titolo personale.
L’appello britannico - seguito peraltro da altri consimili, anche ad esempio fra gli antropologi delle nostre università - aveva com’è noto sollevato polemiche, e non solo consensi. C’è stato anche un «controappello», firmato tra gli altri da J. K. Rowling, l’autrice di Harry Potter. «Stiamo cercando di informare e incoraggiare il dialogo fra Israele e i palestinesi in una comunità culturale e creativa più ampia - vi si legge -. I boicottaggi culturali che vogliono isolare Israele sono divisivi e discriminatori, e non favoriscono la pace».

«Margot Wallstrom è una antisemita, non è gradita in Israele»
Tel Aviv/Stoccolma. Sono pesanti le accuse che i rappresentanti del governo Netanyahu hanno rivolto ieri alla ministra degli esteri svedese "colpevole" di aver chiesto un'inchiesta sulle uccisioni sul posto dei palestinesi che compiono o tentano attacchi con i coltelli, a suo giudizio vere e proprie "esecuzioni extragiudiziali"

di Michele Giorgio il manifesto 14.1.16
GERUSALEMME Margot Wallstrom è una «antisemita, consapevolmente o no». Non ha usato mezze parole il ministro israeliano delle infrastrutture Yuval Steinitz quando ieri ha commentato la richiesta fatta dalla ministra degli esteri svedese di un’indagine sulle «esecuzioni extragiudiziali» di palestinesi che Israele starebbe attuando. Richiesta sorta di fronte al numero elevato di uccisioni sul posto, immediate, di palestinesi, spesso appena adolescenti, che aggrediscono cittadini israeliani, o tentano di farlo, con coltelli e automobili lanciate a tutta velocità. Secondo la responsabile della diplomazia svedese — ai ferri corti con Israele da quando nel 2014 il suo governo ha riconosciuto lo Stato di Palestina (altri riconoscimenti sono giunti dai parlamenti di vari Paesi dell’Ue) – militari e coloni israeliani farebbero fuoco per uccidere e non per ferire. Lo indicherebbere anche il basso numero di aggressori sopravvissuti ai loro tentativi di attacco (negli ultimi quattro mesi sono rimasti uccisi circa 150 palestinesi e oltre 20 israeliani). Da qui l’accusa di «esecuzioni extragiudiziali». Per Steinitz la collega svedese è soltanto una «antisemita».
Si tratta di un attacco senza precedenti alla Svezia, aggravato dall’annuncio fatto dalla viceministra degli esteri Tizpi Hotovely che Wallstrom «non è la benvenuta» in Israele e così anche per altri rappresentanti ufficiali di Stoccolma. L’ufficio del premier Netanyahu, che ha anche l’interim degli esteri, ha un po’ ridimensionato il passo precisando che il governo non ha cambiato linea nei confronti della Svezia. Poco dopo però il portavoce del ministero degli esteri, Emmanuel Nahshon, ha confermato che «data la natura aggressiva e incendiaria» dei commenti di Margot Wallstrom «abbiamo messo in chiaro che (la ministra svedese) non è gradita in Israele». Tel Aviv non ha mai digerito la decisione del governo svedese di riconoscere lo Stato di Palestina in Cisgiordania e Gaza, territori palestinesi che assieme a Gerusalemme Est sono stati occupati militarmente da Israele quasi 50 anni fa. Si tratta di una posizione ben più concreta rispetto ai riconoscimenti numerosi ma solo simbolici votati dai parlamenti di vari Paesi europei. I rapporti tra i due governi si sono fatti molto tesi e i rappresentanti del governo Netanyahu non hanno esitato ad attaccare frontalmente Wallstrom, incuranti della presenza in Israele di una delegazione svedese ad altro livello incaricata di «studiare» le misure di sicurezza sviluppate e applicate nello Stato ebraico.
Sullo sfondo di questa crisi diplomatica ci sono l’Intifada palestinese e le misure repressive adottare da Israele. Sono stati arrestati i due palestinesi – il giornalista Samer Abu Eisheh e il manovale Hijazi Sbu Sbeih — che avevano respinto l’ordine di espulsione (rispettivamente per cinque e sei mesi) dalla loro città, Gerusalemme, emesso dagli israeliani per non meglio precisate “ragioni di sicurezza”. I due per giorni sono rimasti nella sede della Croce Rossa Internazionale a Gerusalemme, spiegando a giornalisti e delegazioni palestinesi e straniere che in passato non sono mai stati condannati per violenze politiche o per qualsiasi altro crimine grave. Abu Eisheh l’anno scorso era stato posto agli arresti domiciliari per due mesi per aver preso parte a forum arabi in Libano. «Mi offrono la libertà su cauzione ma (le autorità israeliane) pretendono ancora che lasci Gerusalemme – ha detto Abu Eisheh – io continuerò a dire di no all’esilio, al razzismo e all’occupazione».
Ieri l’aviazione israeliana ha bombardato Gaza, uccidendo un palestinese e ferendone altri tre che, secondo il portavoce militare, stavano sistemando un ordigno esplosivo sulle linee di confine.

Israele-Svezia, scontro sul ministro
Il governo di Netanyahu chiude le porte alla titolare degli Esteri di Stoccolma, Margot Wallstrom che in Parlamento aveva chiesto un’indagine approfondita sulle “esecuzioni extragiudiziali” di palestinesi di Fabio Scuto Repubblica 14.1.16
GERUSALEMME. Non è più la benvenuta in Israele la signora Margot Wallström, il ministro degli Esteri svedese. E l’ambasciatore di Stoccolma in Israele Carl Magnus si è visto convocato ieri sera d’urgenza al ministero degli Esteri israeliano per una dura protesta a nome del governo di Benjamin Netanyahu, che fra i sette interim che ha nelle sue mani ha anche quello degli Esteri. Il motivo di questo scontro diplomatico sono le affermazioni di martedì della signora Wallström: la Svezia auspica una inchiesta «approfondita » sui palestinesi uccisi in questi ultimi mesi dall’esercito o dalle forze dell’ordine israeliani. In diversi casi, secondo il capo della diplomazia svedese, «si è trattato di esecuzioni extragiudiziali». Le affermazioni del ministro sono finite ieri mattina sulla stampa svedese e da qui sono rimbalzate in Israele.
Circa 149 palestinesi sono stati uccisi in questi ultimi tre mesi, la maggior parte – circa due terzi - mentre accoltellava o cercava di accoltellare soldati o civili israeliani in Cisgiordania, a Gerusalemme e in Israele. Gli ultimi due sono stati uccisi martedì in simili circostanze. Gli altri sono morti negli scontri con l’esercito. In questa nuova ondata di violenza, ribattezzata l’intifada dei coltelli, scoppiata il primo ottobre sono morti anche 23 israeliani. «È fondamentale che vi siano delle inchieste approfondite e credibili su questi morti per fare piena luce e mettere ciascuno davanti alle proprie responsabilità», ha dichiarato martedì la ministra al parlamento svedese. Da quando ha assunto l’incarico nell’ottobre 2014, e l’annuncio quasi immediato che la Svezia riconosceva lo Stato palestinese, la Wallström ha più volte usato espressioni molto critiche nei confronti della diplomazia israeliana.
Ma la protesta di Israele non è soltanto per le parole usate dalla Wallström martedì. Il portavoce degli Esteri Emmanuel Nahshon ha espresso «la furia del governo e del popolo di Israele, su una visione distorta della realtà», definendo il ministro svedese «prevenuta ed ostile verso Israele, le manca la comprensione della regione ». «Data la posizione dannosa e senza fondamento del ministro svedese - spiegano al ministero degli Esteri israeliano - la Svezia si è esclusa, nel prossimo futuro, da qualsiasi ruolo per quanto riguarda le relazioni israelo-palestinesi». Se non è una rottura diplomatica poco ci manca.

Cisgiordania, uccisi altri tre palestinesi
Territori occupati. Uno avrebbe cercato di pugnalare un soldato La ministra degli esteri svedese Margot Wallstrom torna a protestare per le "esecuzioni extragiudiziali" di palestinesi. Israele replica con rabbia. di Michele Giorgio il manifesto 13.1.16
Oscurata da guerre, crisi e attentati che sconvolgono la regione, messa ai margini da un crescente disinteresse, la questione palestinese fa fatica a trovare spazio nei media internazionali. Eppure il quadro politico è drammatico e non si arresta lo stillicidio di vite umane che non è circoscritto all’Intifada cominciata ad ottobre. Ieri in Cisgiordania i soldati israeliani hanno ucciso altri tre palestinesi, uno dei quali, secondo il portavoce dell’esercito, avrebbe cercato di pugnalare un militare.
Srour Abu Srour, del campo profughi di Aida, è stato colpito al petto da un proiettile sparato dai soldati durante la manifestazione di protesta contro il raid delle forze israeliane in via al-Sahl a Beit Jala (Betlemme). L’incursione è scattata dopo che colpi di pistola erano stati esplosi contro un posto di blocco militare. A Beit Jala diversi proprietari di negozi e ristoranti hanno denunciato devastazioni e distruzioni ad opera dei soldati. Altri due giovani sono stati uccisi nei pressi del villaggio di Beit Einun, vicino a Hebron, divenuto uno dei principali teatri di scontro tra israeliani e palestinesi. Muhammad Kawazba, di Sair, il villaggio dove vivevano quattro dei palestinesi uccisi la scorsa settimana, avrebbe tentato di accoltellare un soldato. Un secondo palestinese, Adnan al Mashni Halaika, 17 anni, di Shayoukh, è stato colpito e ferito mortalmente. Secondo la versione delle forze armate israeliane avrebbe portato Kawazba fino al bivio di Beit Einun per compiere il suo attacco. Colpito in pieno petto, al Mashni è morto in ospedale.
Dal mese di ottobre sono stati uccisi quasi 150 palestinesi (e oltre 20 israeliani e uno statunitense), 90 dei quali descritti dalle autorità israeliane come assalitori. L’eliminazione quasi sempre sul posto della maggior parte degli aggressori veri e presunti – non pochi dei quali con meno di 18 anni – continua a generare proteste e polemiche non solo da parte palestinese. La ministra degli esteri svedese, Margot Wallstrom, in un dibattito parlamentare nel suo Paese, ha invocato una indagine per determinare se Israele è colpevole di “esecuzioni extragiudiziali”. Non è la prima volta che Wallstrom solleva la questione della uccisione sommaria di palestinesi e dell’occupazione militare israeliana che dura dal 1967. Lo scorso novembre collegò gli attentati di Parigi all’insieme di frustrazioni maturate in Medio Oriente, «non ultime quelle palestinesi». Immediata anche ieri la reazione di Israele. «Con le sue dichiarazioni irresponsabili e stravaganti la ministra degli esteri svedese dà sostegno al terrorismo e incoraggia la violenza», ha protestato un portavoce governativo.
Intanto prosegue l’interrogatorio dell’attivista Ezra Nawi, del gruppo pacifista Taayush, arrestato all’aerporto di Tel Aviv mentre si accingeva a lasciare Israele. Nawi è accusato di aver passato all’Autorità nazionale palestinese informazioni sui palestinesi che vendono le loro terre ai coloni israeliani in Cisgiordania. Il caso rischia di aggravare la campagna contro le Ong e associazioni di sinistra in corso da mesi.

«D’Alema e Israele, un’ossessione unilaterale»
di Naor Gilon Ambasciatore di Israele in Italia  Corriere 13.1.16
Conoscendo l’esperienza di Massimo D’Alema in politica estera, dovrei essere sorpreso dalle sue dichiarazioni riguardo a Israele, così come riportate sul vostro quotidiano ieri (nella sua intervista «All’estero non siamo più protagonisti. Arabia e Israele da alleati a problemi»). Tuttavia, conoscendo le sue vedute unilaterali nei confronti di Israele e il fatto che queste distorcano la sua percezione della realtà, non sono rimasto sorpreso. Da molti anni esiste nel signor D’Alema un’ossessione che vede in Israele l’origine di tutti i problemi del Medio Oriente e del mondo, a tal punto che egli è disposto a vedere in alcune organizzazioni terroristiche degli alleati per l’Occidente preferibili alla democrazia israeliana. Già dopo l’orribile attacco terroristico a Parigi, D’Alema mise in relazione il terrorismo estremista islamico con il conflitto israelo-palestinese. Anche nell’intervista di ieri D’Alema correla il conflitto con l’atteggiamento negativo del mondo arabo verso l’Occidente. Nel migliore dei casi si tratta di un approccio naif, nel peggiore dei casi di una posizione ideologica anti-israeliana. L’odio di settori del mondo musulmano nei confronti dell’Occidente (e dei suoi stessi popoli), e certamente l’orribile terrorismo contro l’Occidente, non è correlato al conflitto israelo-palestinese. Si tratta invece di un’ideologia omicida e sanguinaria, che vede nello stile di vita occidentale (democrazia, liberalismo, capitalismo) un assoluto contrasto al suo mondo di valori, e per queste persone Israele è chiaramente un tutt’uno con le democrazie occidentali contro cui bisogna combattere. Purtroppo non è così per D’Alema. L’ex premier vede in Israele «un alleato problematico» dell’Occidente, anziché vedervi ciò che è: una parte integrante dell’Occidente e una barriera all’espansione dell’estremismo e del fanatismo verso l’Occidente, un faro di libertà, democrazia e diritti nel Medio Oriente. Per tutto ciò Israele merita forse sostegno? Non secondo D’Alema. Al contrario, il signor D’Alema continua anzi con l’ossessione di vedere proprio in Israele il punto focale dei problemi e ad esso preferisce dei regimi «famosi» per essere illuminati e paladini di democrazia e diritti umani, come quello iraniano. Secondo il suo approccio, «il nemico del mio nemico è mio amico», anche se l’amico è Hezbollah, un’organizzazione terroristica sanguinaria, secondo la definizione della stessa Ue. Sono certo che nell’intervista, alla domanda sulla sua visita di solidarietà di allora in Libano, accompagnato da un uomo di Hezbollah, sia sfuggito alla sua memoria il fatto che l’organizzazione terroristica avesse lanciato migliaia di missili sui centri abitati israeliani, che Hezbollah ha assassinato degli israeliani in suolo europeo nell’attentato di Burgas in Bulgaria nel 2012, che l’organizzazione è responsabile di attentati contro ambasciate israeliane in tutto il mondo e della morte di decine di persone, e che la stessa organizzazione ha compiuto dei sanguinosi attentati contro obiettivi americani in Libano. Hezbollah non si limita a compiere omicidi politici e a imporre il proprio potere in Libano mediante il terrorismo, ma già da tempo è coinvolto anche nella guerra in Siria.Purtroppo l’ossessione anti-israeliana emerge anche nella deformazione della realtà riguardo alle relazioni con l’Iran. È chiaro a tutti che, senza le pressioni internazionali, l’Iran non sarebbe mai nemmeno giunto a dei colloqui con l’Occidente, e non si sarebbe pertanto raggiunto un accordo. Non si tratta di un interesse soltanto israeliano: è prima di tutto un interesse occidentale quello di non permettere che la bomba atomica finisca nelle mani di un regime sciita estremista. Anche il riferimento a Rouhani come a un «riformista» cozza con i fatti: sotto Rouhani il numero delle esecuzioni capitali in Iran è giunto al culmine, sotto Rouhani l’Iran conduce una politica di destabilizzazione dei Paesi del Medio Oriente, sotto Rouhani sono attivate in Iraq delle milizie sciite che perseguitano le minoranze, sunnite e cristiane. Ma perché guardare in faccia la realtà? Per D’Alema è sufficiente l’ossessione contro Israele per spiegare tutto .

Perché è scandaloso che un ebreo nasconda la kippah
La tradizione ebraica vuole che ci si copra il capo in segno di rispetto verso Dio
L’appello in Francia a rinunciare al copricapo è segno dell’antisemitismo crescente in Europa
di Siegmund Ginzberg Repubblica 14.1.16
KIPPAH o non kippah? La diatriba tra gli esponenti dell’ebraismo francese che invitano a non indossare per strada la kippah «per non essere riconosciuti come ebrei», e quelli che lo bollano come incitamento alla viltà e al «disfattismo », è il segno allarmante degli effetti dell’antisemitismo che cresce in Europa. Solo immaginare di dover rinunciare a un simbolo religioso per non essere aggrediti è terribile. Ma è anche qualcosa di surreale. Se non altro perché tutta la storia dell’intolleranza in Europa è sempre passata attraverso l’obbligo per gli ebrei di distinguersi dagli altri, non la loro libertà di indossare o non indossare quel che gli pare: che si tratti di un particolare copricapo o di altro segno distintivo come l’infame stella gialla imposta dai nazisti.
La kippah, dalla parola ebraica che significa calotta (e che forse ha la stessa etimologia del nostro “cappello”), chapeo nel castigliano antico dei sefarditi,
yarmulke in yiddish, che si potrebbe dire “papalina” in italiano (perché identico al copricapo indossato dal Papa e dai cardinali), non è affatto un obbligo religioso prescritto dalla Bibbia. Neanche gli ultraortodossi sostengono che lo sia. Quando a metà Anni ’80 Ronald Reagan ricevette alla Casa bianca i lubavich (quelli che girano per New York con riccioli, palandrana e cappellone nero) gli chiese quale fosse il significato religioso della kippah. «Signor Presidente, per noi è un segno di rispetto », gli rispose rabbi Shemtov. Il Talmud si limita a prescrivere: «Copriti la testa per mostrare che hai timore del Cielo». Le leggende di Rabbi Nachman raccontano che a iniziare la pratica di fargli coprire la testa fu sua mamma, convinta che solo il timor di Dio potesse salvarlo dalla perdizione. Nella forma attuale risale al Settecento. Fino a qualche secolo fa non era obbligatorio nemmeno durante i riti religiosi. Nell’Europa dell’Est erano più in voga i larghi cappelli orlati di pelliccia, che ancora vengono sfoggiati dagli ortodossi per i giorni di festa. È segno di rispetto verso gli ebrei indossare un cappello — qualsiasi cappello, a rigore anche un fazzoletto — durante le loro cerimonie, così come per i cristiani lo è togliersi il cappello in chiesa. In Sinagoga o a una Sèder di Pèsach è normale prestare la kippah a un ospite non ebreo.
Solo più di recente si sono moltiplicate le simbologie identitarie. In Israele, ad esempio, indossare una kippah a uncinetto identifica come sionisti o conservatori, in pelle come ortodossi moderni, nera come apprendisti rabbini o chassidim, bianca identifica i seguaci di Rabbi Nachman, in seta i riformatori, quella ricamata i sefarditi e i riformisti.
Una funzione completamente diversa da quella religiosa o politica è l’uso identitario, quello per cui chi indossa la kippah si identifica come ebreo, sia che lo faccia in sinagoga, sia lo che lo faccia per strada. Niente di male, ci sono situazioni in cui è sacrosanto rivendicare la propria identità, specie per i perseguitati (io sono nato poco dopo l’Olocausto e questa è la ragione per cui mio padre volle assolutamente che fossi circonciso, anche se lui non era né credente né praticante). Ma altrettanto lecito e fondato in molti secoli di cultura ebraica e di persecuzioni è il non ostentare eccessivamente la propria ebraicità, il non gridarla inutilmente di fronte a chi vuole male agli ebrei. Nella Bibbia gli ebrei si fanno massacrare pur di non rinnegare il proprio Dio, non inchinarsi agli dei degli altri. I fratelli Maccabei si fanno ammazzare l’uno in modo più atroce dell’altro pur di non consumare la carne di maiale che gli viene imposta dal satrapo ellenistico Antioco. Ma nulla impone, o al contrario proibisce, di esibire in pubblico una certa foggia di vestire o di coprirsi il capo. Dovrebbe essere una questione di libertà, condizionabile solo da esigenze di sicurezza.
Per quanto riguarda la Francia bisogna ricordare anche che la discussa legge del 2004 proibisce di indossare pubblicamente nelle scuole il velo islamico, i kippot (plurale di kippah) o altri vistosi simboli religiosi. Non è dunque uno scandalo religioso suggerire di non indossarli nemmeno per strada. Ma è scandaloso che nel cuore dell’Europa gli ebrei debbano pensare di nascondere la propria identità per paura.
Gli ebrei erano stati obbligati per tutto il Medioevo a indossare determinati copricapi (il famoso cappello a cono che poi divenne uniforme dei condannati dell’Inquisizione) o determinati segni che li distinguessero dagli altri. Il Rinascimento imponeva il cerchio giallo da indossare sopra le vesti: ne porta testimonianza anche uno dei profeti del Vecchio Testamento dipinti da Michelangelo nella Cappella Sistina. Pare che lo avessero inventato in Spagna per distinguere e separare ebrei e musulmani, le minoranze dal “sangue sporco”. In Francia e in Germania gli ebrei venivano costretti persino a comprare le pezze gialle dal governo, una forma di tassa. I nazisti che imponevano la Stella di Davide gialla non avevano inventato nulla di nuovo. 

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