lunedì 11 gennaio 2016

L'edizione Einaudi delle poesie di Brunetto Latini. Con un intervento del Prof. Golpe Democratico

Poesie
Brunetto Latini:  Poesie, a cura di Stefano Carrai, Einaudi

Risvolto

Brunetto Latini, traduttore, studioso della retorica classica e dell'oratoria ciceroniana, è noto soprattutto per il Tresor, primo esempio di enciclopedia in volgare, ma ha lasciato anche un piccolo corpus di opere poetiche, qui raccolto per la prima volta con l'obiettivo di dare alla poesia di Brunetto il posto, non piccolo, che merita nella storia della letteratura. Il corpus è costituito dal Tesoretto, che aggiorna, scorcia e mette in versi quello che era stato il piano enciclopedico del Tresor, dal Favolello, poemetto più breve sull'amicizia, e dalla canzone S'eo sono distretto inamaratamente. "Il Tesoretto, a dispetto della sua incompiutezza, va considerato come il primo testo poetico italiano che ambisca a una dimensione di classico, dopo per cosi dire - il prologo siciliano: l'equivalente, sul versante della poesia, di ciò che il Novellino rappresenta per la tradizione della prosa d'arte". (dall'introduzione di Stefano Carrai)

Esce dall’Inferno Brunetto Latini: il suo Tesoretto è davvero un tesoro 

Maestro di Dante che però lo relegò tra i violenti contro natura, fu un faro del tempo 
11 gen 2016  Corriere della Sera di Paolo Di Stefano
Il notaio, politico, traduttore, poeta, divulgatore, intellettuale di fama internazionale Brunetto Latini fu maestro di Dante: il quale lo collocò all’Inferno pur rendendo omaggio alla sua «cara e buona imagine
paterna» che gli insegnò «come l’uom s’etterna», cioè come si acquista fama imperitura grazie al retto operare. Un maestro che l’Alighieri non ripudiò, ma che per certi versi sentì superato (da se stesso in primo luogo). Brunetto era nato circa quarant’anni prima di Dante, era stato ambasciatore guelfo presso il re di Castiglia Alfonso X, fu esule in Francia in seguito alla sconfitta di Montaperti e tornò nella sua città l’indomani della rivincita guelfa a Benevento, ricoprendo incarichi politici sempre più importanti fino alla morte, avvenuta nel 1293. Il cronista trecentesco Giovanni Villani lo definì «sommo maestro in rettorica, tanto in bene saper dire come in bene dittare», cioè nell’arte dell’oratoria e nell’epistolografia ufficiale, ma soprattutto lo considerò guida politica e culturale dei fiorentini. Un faro del suo tempo. 
Nel canto XV, l’incontro del pellegrino Dante con l’anima del notaio, vagante — come gli altri violenti contro natura — per un deserto di fuoco, si apre con un interrogativo di stupore, quasi un sussulto di spavento dell’ex allievo: «Siete voi qui, ser Brunetto?». Quel «voi» è il segno della massima reverenza, ma lo sbalordimento è il segno della familiarità e dell’affetto (del resto ricambiato nel sentirsi chiamare «figliol mio» dal vecchio maestro). Dunque, perché Dante lo caccia all’Inferno, infliggendogli la terribile pena dell’ustione eterna? Se n’è discusso all’infinito, ipotizzando la blasfemia e l’eterodossia (religiosa e politica), ma il sospetto più accreditato è che Brunetto fosse colpevole di sodomia, anche se nei documenti dell’epoca non ci sono elementi che ne confermino l’omosessualità, «vizio» caratteristico di «letterati e cherchi» dell’epoca. 
Quel che conta però, al di là dei peccati erotici veri o presunti, è che Dante più di chiunque altro riconobbe al suo maestro un ruolo intellettuale e morale esemplare, anche se come poeta lo sentì complessivamente inadatto ai tempi. Resta, comunque, un debito di riconoscenza anche al poeta, che si palesa non solo nelle dichiarazioni esplicite, ma negli echi più o meno occulti disseminati dentro la Commedia. Lo dimostra bene Stefano Carrai nella bella e lucida introduzione e nel commento alle Poesie di Brunetto che, per sua cura, escono da Einaudi. In realtà si tratta di un corpus poetico esiguo, composto dal Tesoretto, un poemetto didattico incompiuto in distici di settenari a rima baciata (circa 3.000), cui di solito si accompagna il Favolello, un breve componimento nello stesso metro (160 versi) sul tema dell’amicizia; e una modesta canzone d’amore. 
Scrittore prevalentemente in prosa, autore in lingua francese del Tresor, «la prima enciclopedia volgare in senso proprio» (Segre) e compilatore del trattato della Rettorica sul modello ciceroniano, il poeta Brunetto non ha avuto quel che meritava. Carrai ricorda il parere di Hans Robert Jauss, secondo il quale pesa sul Tesoretto «un pregiudizio estetico non dichiarato» che ha contribuito a svalutarne il significato storico e le indubbie qualità poetiche. Scritto a Firenze dopo gli anni dell’esilio francese, si configura come una sorta di aggiornamento e di versione minore in versi del Tresor, rispetto al quale è ormai accertato il rapporto di dipendenza (si ricordi, tra parentesi, che il Tresor è stato riproposto, nel 2007, sempre da Einaudi, nei Millenni). 
Che cosa narra il racconto visionario-allegorico del Tesoretto? L’alter ego dell’autore attraversando la piana di Roncisvalle, dove viene a sapere della sconfitta di Montaperti, smarrisce la strada e si addentra (pre-dantescamente) in una foresta, dove incontra la personificazione della Natura che evoca gli episodi della creazione, degli angeli ribelli, le vicende di Adamo ed Eva e del peccato originale, offre una visione dei quattro elementi e del disegno astronomico, la descrizione dei principali fiumi, da est a ovest, e delle bellezze delle terre attraversate e dei mari, con elementi di lapidario e di bestiario. Alla lezione di filosofia naturale seguono un’immersione nel Regno delle Virtù e poi una puntata nel territorio di Amore, in cui Ovidio farà da guida. Il viaggio di redenzione giunge infine a Montpellier, dove il pellegrino trova riparo in un convento per espiare i propri peccati e riprendere il percorso verso l’Olimpo. 
Il progetto originario brunettiano, ricorda Carrai, era più ambizioso e più ampio. Avrebbe dovuto trattarsi di un prosimetrum (opera mista di rime e di prose), se è vero che l’intenzione, accennata qua e là, era quella di sciogliere in inserti prosastici i luoghi che sarebbero stati più impervi e meno comprensibili se consegnati ai versi. Si incontrano infatti alcune promesse di ampliamenti futuri: ma la prevista «sinergia», o struttura a più strati che affiancava il racconto didattico-allegorico con uno svolgimento in prosa adatto a un pubblico più vasto (non solo ai colti capaci di avvicinarsi al francese del Tresor), non si realizzerà forse per il subentrare di imprevisti impegni politici, forse perché il piano iniziale non appariva più convincente allo stesso autore. Fatto sta che l’operetta riuscì a imporsi, fra Tre e Quattrocento, anche nella forma incompiuta che conosciamo, se ebbe, come pare dai manoscritti superstiti, una circolazione non marginale. Non va escluso, tra l’altro, che il Tesoretto incompiuto possa intendersi come «anello di congiunzione» verso i ben più illustri prosimetri danteschi (la Vita nova e il Convivio). 
Tornando alla Commedia, Carrai vi individua numerosi echi del Tesoretto, come certe coincidenze di sintagmi (la «valle scura» di Brunetto e la «selva oscura» dantesca), di punti di vista (la messa in scena di un personaggio che parla di sé in terza persona), di certi stilemi rari in rima ( epa-crepa), di immagini e movenze (flagrante la somiglianza tra il volgersi e il sorridere della Natura e quello del personaggio di Matelda in Dante). Ma al di là delle occorrenze minime, sarebbe la concezione complessiva del viaggio di Dante nell’aldilà a subire l’influsso del programma pensato da Brunetto: lo smarrimento dentro la foresta e l’incontro di una guida sul cammino di rigenerazione. Certo, quando poi Dante deve decidere quale guida scegliere per il proprio viaggio, troverà in Virgilio il «maestro di bello stile senza condizioni, elargitore di un insegnamento imperituro», relegando il vecchio Brunetto, con i suoi settenari cantilenanti, al ricordo riconoscente di una «cara e buona imagine paterna». C’era ben altro maestro, Virgilio, a indicargli la via verso le sue sperimentazioni metriche e visionarie.

I versi rap di ser Brunetto maestro di Dante 
In volume le composizioni di Latini, che nell’Inferno è punito con i sodomiti
ALBERTO ASOR ROSA Restampa 7 4 2016
Se qualcuno me lo chiedesse, lo definirei un eccezionale intellettuale d’avanguardia della fine del secolo XIII. Intendo Brunetto (o Burnetto) Latini, fiorentino, vissuto fra il 1220/25 e il 1293, grande notaio, politico, pensatore e scrittore. Nel 1260, di ritorno da un’ambasceria in Castiglia per conto del suo Comune, viene sorpreso dalla notizia che i guelfi, fra i quali convintamente militava, in seguito alla sconfitta subita a Montaperti ad opera dei ghibellini, erano stati cacciati da Firenze; è costretto a tornare indietro; si ferma nel Mezzogiorno della Francia; torna a Firenze nel 1266. Nel corso del suo esilio scrive le
sue due opere più importanti, Le Tresor (ovvero, più esattamente, i tre Livres dou Tresor), un’imponente enciclopedia del sapere antico e medievale, in francese antico; e Il Tesoretto, un componimento in 2944 versi, in volgare fiorentino, che, in qualche sommario modo, avrebbe dovuto rappresentare un sintetico compendio della precedente, — ed invece è ben altro.
Io penso che alla rinomanza di Brunetto abbia nuociuto paradossalmente il fatto che Dante ce lo presenta nella sua Commedia come uno dei personaggi di maggior rilievo umano e poetico, e anche uno di quelli nei confronti dei quali egli manifesta un proprio più intenso coinvolgimento personale e morale. Sicché, quando si dice Brunetto, uno istintivamente pensa al Brunetto di Dante, non al Brunetto Brunetto. Siamo nel canto XV dell’Inferno, terzo girone del settimo cerchio, quello in cui vengono puniti i peccatori contro natura, gli omosessuali, in primo luogo (alcuni interpreti avanzano l’ipotesi che sia parso a Dante contro natura che Brunetto, come accade nel Tresor, abbia scritto in una lingua diversa dalla sua: mi sembra debole rispetto all’altra, del resto dominante). I sodomiti, — per usare l’espressione tradizionale, che è anche quella dantesca, — sono tormentati da una pena atroce, in cui si staglia inequivocabilmente il contrappasso: su di loro scende una pioggia di fuoco, che li costringe a correre perennemente su di una distesa a sua volta infuocata.
Dante e Brunetto, nonostante quest’ultimo abbia un «cotto aspetto» e un «viso abbrusciato» in conseguenza della pena, si riconoscono all’incontrarsi con stupore reciproco. Brunetto: «Qual maraviglia!»; Dante: «Siete voi qui, ser Brunetto?». Dante mette non a caso sulla bocca del suo antico e riverito maestro una delle più belle, anche se dure e spietate, profezie che su se stesso abbia formulato nel corso dell’intero poema; ma in compenso pronunzia su di lui il riconoscimento forse più elevato, — e al tempo stesso più personale, più intimo e affettuoso, — che abbia formulato nei confronti di uno dei suoi personaggi: «’n la mente m’è fitta, e or m’accora, / la cara e buona immagine paterna / di voi, quando nel mondo, ad ora ad ora, / m’insegnavate come l’uom s’etterna» (vv. 82-85). «Come l’uom s’etterna»! Espressione di potenza straordinaria. E cioè: come l’uomo può liberarsi dai suoi vincoli terreni e mondani e diventare, attraverso le sue opere, capace d’immortalità.
Questo sproloquio iniziale per arrivare a dire che recentemente è apparsa di Brunetto una raccolta di tutte le Poesie (Einaudi), ottimamente curata da uno dei nostri più brillanti studiosi di letteratura italiana medievale, Stefano Carrai, comprendente, oltre al Tesoretto, un Favolello e l’unica canzone amorosa attribuita a Brunetto, S’eo sono distretto inamoratamente, anch’essa sospetta di omosessualità.
Il Tesoretto, come abbiamo già detto, è un poemetto di 2944 versi, rimasto incompiuto per motivi sconosciuti, tutto in settenari a rima baciata. E cioè? Un esempio scelto a caso di questa formula metrica: «Ma, tornando a la mente, / mi volsi e posi mente / intorno a la montagna, / e vidi turba magna…». La straordinaria leggibilità e la forza espressiva fuori del comune di questo testo vanno ricondotte secondo me a due fattori intrinseci, del resto profondamente correlati fra loro.
Il primo è di natura tematica, o, se si vuole, contenutistica. Nel Tesoretto la materia del Tresor, condensata al massimo, più che nelle formulazioni d’ordine generale, si concreta e risolve, sotto il segno della Natura creatrice, in una serie di suggerimenti, indicazioni e consigli, che nel loro insieme costituiscono una specie di elevatissimo codice o manuale di comportamento mondano. Il modo d’essere, e il dover essere, dei cittadini di un certo rilievo e di una certa cultura nell’ambito, — questo è detto chiaramente più volte, — dell’esperienza comunale contemporanea, vi traspare con una evidenza straordinaria, che va ben al di là di una banale precettistica.
L’altra è, ovviamente, di natura formale. Provate a leggere rapidamente, e ad alta voce, questa sorta di rap medievale, che le coppie di settenari a rima baciata, ripetute per quasi millecinquecento volte, producono su chi legge non meno che su chi ascolta: «Amico, primamente / consiglio che non mente / e, ’n qual parte che sia, / tu non usar bugia, /ch’on dice che menzogna / ritorna in gran vergogna, / però c’ha breve corso / e, quando vi se’ scorso, / se tu a le fiate / dicessi veritate, / non ti sarà creduta… » (vv. 1877-1887).
Osservo en passant che è una gran menzogna che i testi medievali in italiano antico non siano oggi comprensibili: non c’è qui, ad esempio, nessun verso che non possa essere inteso da un lettore colto nella maniera più semplice. E quel che si capisce è l’affascinante vicenda di un sapere alto, molto alto, che si fa insegnamento comunitario, linguaggio e costume popolare, comunicazione diffusa.
In fondo, anche la Commedia di Dante ubbidisce a una pulsione primigenia di tale natura: certo illuminata nel caso suo dalla luce misteriosa del genio, che in Brunetto non c’è, mentre c’è in compenso questa disponibilità estrema alla comunicazione, questa cultura che si leva, coraggiosamente, a fare opera feconda di formazione, a spiegare urbi et orbi, «come l’uom s’etterna».
Ogni stagione della vita ha le sue fascinazioni e le sue fissazioni. In questa stagione le mie sono il richiamo al momento magico, spiegabile, certo, e pure al tempo stesso difficilmente spiegabile, della Genesi: quando nacque la cultura, di cui ci siamo nutriti per secoli e secoli, e che ora sta morendo. Sta morendo, perché guardiamo troppo poco alla Genesi? Forse. Anche Brunetto, dal suo calvario ultraterreno, può aiutarci a ritrovarla. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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