Riforma. Ieri l’affollatissimo lancio del comitato promotore. Il fronte dei parlamentari e il dubbio se raccogliere anche le firme. Assemblea strapiena, parte l’iniziativa del no. I costituzionalisti: «Sfuggire dallo scontro innovatori-conservatori». In arrivo anche altri quesiti sociali di Andrea Fabozzi il manifesto 12.1.16
ROMA La fila è lunga. «Abbiamo già superato il quorum?», si scherza sperando di riuscire a entrare. Al debutto del comitato del No si riempie subito l’aula dei gruppi parlamentari di Montecitorio, mentre nell’aula quella vera — stesso palazzo — la riforma procede sul velluto. Arriva l’ultimo sì della prima lettura e comincia in contemporanea il lungo avvicinamento al referendum, che in questo caso non prevede quorum. Allora la domanda è un’altra: come ci si oppone a un plebiscito?
Come si sfugge, cioè, allo schema innovatori contro conservatori? Secondo Gaetano Azzariti centrando la campagna elettorale sugli enormi problemi della rappresentanza e del parlamento, per mettere in luce quanto sia «scarsa» la riforma di Renzi di fronte alla «crisi dello stato costituzionale». Secondo Stefano Rodotà bisogna fronteggiare «l’antipolitica di governo» avviando una lunga stagione referendaria.
Ma il primo problema che ha davanti il comitato promotore del No riguarda la sua stessa genesi. Se è vero che il referendum non può chiederlo il presidente del Consiglio, come invece racconta di voler fare (in sua vece firmeranno la richiesta un numero sufficiente di parlamentari renziani), è vero anche che un comitato di cittadini avrebbe bisogno di 500mila firme per opporsi in questa veste alla revisione costituzionale. Firme che andrebbero raccolte in tre mesi dall’ultima approvazione del disegno di legge Renzi-Boschi, prevista per la seconda decade di aprile. L’alternativa — dovendo escludere che si trovino cinque consigli regionali contrari alla riforma — resta quella delle firme di 126 deputati o 65 senatori di opposizione: quelle sono assicurate. Se non si raccolgono le firme dei cittadini, al referendum si andrà per questa strada, come fu nel 2001 quando il centrodestra provò a opporsi al nuovo Titolo V approvato dal centrosinistra. Anche allora firmarono sia i parlamentari favorevoli che quelli contrari alla riforma, che il referendum alla fine confermò.
Questa volta i parlamentari che raccoglieranno le firme, e tra questi ci saranno anche quelli di Forza Italia e della Lega, potranno costituire anche più di un comitato per il No: costituirsi in comitato dà diritto a spazi televisivi e a un rimborso sulla base dei voti. Neanche i parlamentari del Movimento 5 Stelle aderiranno al comitato lanciato ieri, che è presieduto dal costituzionalista Alessandro Pace e che ha come presidente onorario il professore Gustavo Zagrebelsky. È questo il gruppo dei costituzionalisti che si sono opposti in ogni modo alle riforme spinte da Renzi (ma anche prima da Letta) negli ultimi tre anni, attraverso numerosi appelli (l’ultimo quello firmato da Lorenza Carlassare, Gaetano Azzariti, Gianni Ferrara, Stefano Rodotà e Massimo Villone, tutti presenti ieri, a ottobre sul manifesto). Questo comitato sta mettendo in piedi comitati locali nelle città e si è già dato un altro appuntamento per il 30 gennaio alla Sapienza a Roma, coinvolgendo le associazioni — a cominciare da Anpi e Arci.
Ieri è apparso chiaro che all’interno di questo comitato c’è chi spinge per provare a raccogliere le 500mila firme, così da poter procedere in maniera parallela ma autonoma dai parlamentari di Sinistra italiana e dai civatiani che sono disponibili ad accompagnare i costituzionalisti. Felice Besostri, l’avvocato che sta promuovendo i ricorsi nei tribunali contro l’Italicum, ha detto tra gli applausi che «anche se pensiamo di non riuscire a raggiungere le firme necessarie, dobbiamo provarci come iniziativa di mobilitazione». Obiettivo che invece, secondo altri, si può raggiungere meglio accompagnando al referendum sulla riforma costituzionale un pacchetto di referendum abrogativi, il primo dei quali è quello contro l’Italicum che ha già un comitato promotore (presidente Villone, presidente onorario Rodotà). Ma sono in fase di avvicinamento anche i referendum contro la legge sulla scuola e contro il Jobs act. Per tutti quanti andranno raccolte le firme, proprio a partire da aprile. E come sempre quando c’è da raccogliere firme si guarda a cosa farà il sindacato: al momento la Cgil sarebbe disponibile a impegnarsi per i referendum «sociali», scuola e lavoro, mentre non ha ancora sciolto la riserva su quelli «istituzionali», legge elettorale e soprattutto riforme. Nove anni fa, nell’unico esempio di referendum costituzionale dove il fronte del No ha vinto, quello contro la «devolution» di Berlusconi e Bossi, furono raccolte oltre alle richieste dei parlamentari e dei consigli regionali anche un milione di firme dei cittadini.
di Massimo Villone il manifesto 12.1.16
Il comitato per il no alla riforma costituzionale Renzi-Boschi ha dato il via alla propria campagna nel giorno in cui il voto della Camera ha concluso la prima deliberazione ex art. 138. Una assemblea molto affollata, tanto da costringere gli organizzatori a cercare una sala più grande. E ai piani alti del Pd qualcuno ha mugugnato contro la Boldrini, colpevole di aver autorizzato l’uso della sala nelle stesse ore in cui l’Aula votava. Evidentemente, un sassolino nella strategia comunicativa del capo. Saranno pure i cittadini a decidere sulla riforma. Ma evitiamo che discutano o pensino troppo, prima di votare. Potrebbero confondersi.
Il referendum sulla riforma è ormai certo, perché la maggioranza rimane lontana dai due terzi dei componenti sia alla Camera che al Senato. Solo per chiarezza, sarà utile ribadire che il referendum è strumento dato dalla Costituzione a chi si oppone alla riforma, e non a chi la approva. Quindi la trasformazione in un plebiscito sullo stesso Renzi è l’ennesima forzatura cui assistiamo.
«Se perdo vado a casa» è minacciare la crisi. Renzi vuole sequestrare domani la libertà di voto degli italiani come ha sequestrato ieri la libertà di voto dei parlamentari. E il primo obiettivo di chi si oppone alla riforma deve appunto essere ridare agli italiani la libertà di voto. Come? Anzitutto con la richiesta di referendum da parte dei parlamentari di opposizione (almeno 126 deputati). Ma ancor più facendo partire una stagione di referendum abrogativi contro le leggi di Renzi, dalla scuola al Jobs Act, all’Italicum. La migliore risposta alle pulsioni plebiscitarie del leader viene da centinaia di migliaia di firme su quesiti abrogativi delle sue leggi.
Tra queste, l’Italicum merita una menzione particolare. Non solo per l’incostituzionalità che con certezza deriva dalla inosservanza dei principi posti dalla Corte costituzionale nella sentenza 1/2014, quanto alla rappresentatività delle assemblee elettive ed alla libertà di voto. Ma ancor più perché in sinergia con la riforma costituzionale determina un favor per governi a vocazione minoritaria.
Governi fondati su una ridotta base di consensi reali perché espressione di una forza politica minoritaria cui solo gli artifici del sistema elettorale consegnano i numeri posticci di una maggioranza parlamentare priva di qualsiasi contatto con la realtà.
E quei numeri posticci consegnano le chiavi di un potere non più limitato da un efficace sistema di checks and balances. Questo esito viene dal combinato disposto di premio di maggioranza e ballottaggio senza soglia, con il mantenimento di quorum per gli organi di garanzia che perdono sostanzialmente di significato.
Si indebolisce la stessa rigidità della Costituzione, visto che alla forza politica minoritaria si garantisce nella camera politica una maggioranza ampiamente sufficiente per la revisione. Rispetto alla forza politica vincente, quale che sia il consenso ricevuto, perdono largamente di significato le garanzie della rigidità di cui all’art. 138. Con una maggioranza garantita alla Camera e una manciata di senatori sindaci e consiglieri regionali si dispone della Costituzione.
Il punto grave è che il governo a vocazione minoritaria non viene da un fortuito ed eccezionale concorso di circostanze, che potrebbero occasionalmente verificarsi in qualunque contesto di sistema elettorale o modello costituzionale. Il favor per il governo a vocazione minoritaria si mostra invece come elemento strutturale del modello messo in campo, e come esito normale e consapevolmente voluto dal costituente di oggi, per l’obiettivo — dichiarato — di avere un vincitore certo la sera del voto. Questo perché si traducono acriticamente i luoghi comuni del bipolarismo maggioritario in un sistema che bipolare più non è. I passatisti veri, che non capiscono il nuovo, sono a Palazzo Chigi,
Non c’è modo di ricondurre tutto questo a una qualsivoglia forma di continuità con la Costituzione repubblicana. Nessuno in Assemblea Costituente avrebbe mai pensato che la filosofia della governance repubblicana fosse consegnare le chiavi del potere a una forza politica di minoranza. Si assumeva come punto di partenza indispensabile per governare che ci fosse un consenso reale nel paese. Per questo era previsto che la cd legge truffa trovasse applicazione solo con il conseguimento di una maggioranza assoluta di voti, in un tempo che vedeva la partecipazione degli elettori superare il 90%.
Oggi, è la stessa Costituzione a uscirne indebolita. E la patologia diventa normalità, regola.
Ci aspettano tempi difficili. Dalla crisi economica ai nuovi rapporti di forza tra nord e sud del mondo, al terrorismo endemico, alla difficile convivenza tra etnie e culture assai diverse imposta da migrazioni di interi popoli. Saranno tempi non meno difficili degli anni della ricostruzione post-bellica. Pensare di affrontarli riducendo il potere in poche mani è illusorio. È politicamente sciocco, oltre che in piena rottura con la Costituzione vigente. Bisogna capovolgere questo impianto che può solo fare danno al paese. A questo serve la stagione referendaria di partecipazione democratica di massa che andiamo ad aprire.
Quali credenziali possono esibire gli attuali legislatori costituzionali? A parte la questione, bellamente ignorata, dell’incostituzionalità della legge elettorale in base alla quale essi sono stati eletti; a parte la falsificazione delle maggioranze che quella legge ha comportato, senza la quale non ci sarebbero stati i numeri in Parlamento; a parte tutto ciò, la domanda che deve essere posta è: quale visione della vita politica li muove? A quale intento corrispondono le loro iniziative? C’è un «non detto» e lì si trovano le ragioni di tanta enfasi, di tanto accanimento, di tanta drammatizzazione che non si giustificherebbero se si trattasse solo di riduzione dei costi della politica e di efficientismo decisionale. La posta in gioco non è di natura economica e funzionale. Se fosse solo questo, si dovrebbe trattare la «riforma» come una riformetta da discutere tecnicamente, incapace di sommuovere acute passioni politiche. Invece, c’è chi la carica d’un significato eccezionale, si atteggia a demiurgo d’una fase politica nuova e dice d’essere pronto a giocarsi su di essa perfino il proprio futuro politico.
Ciò si spiega, per l’appunto, con il «non detto». Cerchiamo, allora, di dirlo, nel quadro delle profonde trasformazioni istituzionali degli ultimi decenni, trasformazioni che hanno comportato un ribaltamento della democrazia parlamentare in uno strano regime tecnocratico-oligarchico che, per sua natura, ha come punto di riferimento l’esecutivo. Viviamo in «tempi esecutivi»! La politica esce di scena. I tecnici ne occupano lo spazio nei posti-chiave, cioè nei luoghi delle decisioni in materia economica, oggi prevalentemente nella versione della finanza, e nel campo della politica estera, oggi principalmente nella versione degli impegni militari. La partecipazione politica che dovrebbe potersi esprimere nella veritiera rappresentazione del popolo, cioè in parlamento, a partire dai bisogni, dalle aspirazioni, dagli ideali non è più considerata un valore democratico da coltivare, ma un intralcio. Così, del fatto che la metà degli elettori sia lontana dalla politica al punto da non trovare attrattive nell’esercizio del diritto di voto, nessuno si preoccupa: pare anzi che ce ne si rallegri. Il fatto che i sindacati trovino difficoltà nel rappresentare i bisogni dei lavoratori, invece che spingere a misure che ne rafforzino la capacità rappresentativa, induce ad atteggiamenti sprezzanti e di malcelata soddisfazione. Che i diritti dei lavoratori siano sottoposti e condizionati alle esigenze delle imprese, non fa problema: anzi il ritorno a condizioni pre-costituzionali si considera un fattore di modernizzazione. Che i partiti siano a loro volta ridotti come li vediamo, a sgabelli per l’ascesa alle cariche di governo e poi a intralci da tenere sotto la frusta del capo e di coloro che fanno cerchio attorno a lui, non è nemmeno da denunciare con più d’una parola. A questa desertificazione social-politica corrisponde perfettamente la legge elettorale. Essa dovrebbe servire a incoronare «la sera stessa delle elezioni» il vincitore, cioè il capo politico che per cinque anni potrà governare controllando il parlamento attraverso il controllo del partito di cui è capo. La piramide si è progressivamente rovesciata e non abbiamo fatto il necessario per impedirlo. La democrazia dalle larghe basi voluta dalla Costituzione è stata sostituita da un regime guidato dall’alto dove si coagulano interessi sottratti alle responsabilità democratiche.
L’informazione si allinea; la vita pubblica è drogata dal conformismo; gli intellettuali tacciono; non c’è da attendersi alcuna vera alternativa dalle elezioni, pur se e quando esse si svolgano, e se alternative emergessero dalle urne, sarebbe la pressione proveniente da fuori (istituzioni europee, Fondo monetario internazionale, grandi fondi d’investimento) a richiamare all’ordine; nella scuola si affermano modelli verticistici e i nostri studenti e i nostri insegnanti gemono sotto programmi ministeriali finalizzati a produrre non cultura ma tecnica esecutiva. Può essere che questo è quanto richiedono i tempi che viviamo, i tempi dello sviluppo per lo sviluppo, dell’innovazione per l’innovazione, della competitività che non ammette deroghe, della spremitura degli esseri umani, dei diritti dei più deboli e delle risorse naturali per tenere il passo sempre più veloce della concorrenza. Può essere che solo a queste condizioni il nostro paese sia annoverabile tra i virtuosi, nei quali la finanza sovrana consideri conveniente investire le sue immani risorse; cioè, in termini più realistici, consideri conveniente venire a comperarci, approfittando delle tante privatizzazioni che segnano l’arretramento dello stato a favore degli interessi del mercato. Gli inviti che provengono dalle istituzioni sovranazionali, legate al governo della finanza globale, sono univoci. I moniti che provengono dall’Europa («ce lo chiede l’Europa») sono dello stesso segno. Perfino una banca d’affari (gli «analisti» della J.P. Morgan) ha dettato la propria agenda, nella quale è scritta anche la riduzione degli spazi di democrazia che le costituzioni antifasciste del II dopoguerra hanno garantito ai popoli usciti dalle dittature (è detto proprio così e nessuno, tra le autorità che avrebbero il dovere di difendere la democrazia e la Costituzione, ha protestato). La riforma della Costituzione, promossa, anzi imposta dall’esecutivo, s’inserisce in questo contesto generale. Il «non detto» è qui. Occorre dimostrare d’essere capaci di rispondere alle richieste. Se, come si dice nella prosa degenerata del nostro tempo, non si riesce a «portare a casa» il risultato, viene meno la fiducia di cui i governi esecutivi devono godere rispetto ai centri di potere che stanno sopra di loro e da cui, alla fine dipende la loro legittimazione tecnica.
La chiamiamo «riforma costituzionale», ma è una «riforma esecutiva». Stupisce che tanti uomini e tante donne che hanno nella loro storia politica numerose battaglie per la democrazia, si siano adeguati a subire questa involuzione, anzi collaborino attivamente chiudendo gli occhi di fronte a ciò che a molti appare evidente. La riforma costituzionale è il coronamento, dotato di significato perfino simbolico, di un processo di snaturamento della democrazia che procede da anni. Coloro che l’hanno non solo tollerato ma anche promosso sono oggi gli autori della riforma. Sono gli stessi che ora ci chiedono un voto che vorrebbe essere di legittimazione popolare a un corso politico che di popolare non ha nulla.
I singoli contenuti della riforma importano poco o nulla di fronte al significato politico. Contano così poco che chi avesse voglia di leggere e cercare di capire ciò su cui ci si chiede di esprimerci nel referendum resterebbe sconcertato (…). Siamo di fronte a un testo incomprensibile. Verrebbe voglia di interrogare i fautori della riforma — innanzitutto il presidente della Repubblica di allora, il presidente del Consiglio, il ministro — e chiedere, come ci chiedevano a scuola: dite con parole vostre che cosa avete capito. Qui, addirittura, che cosa avete capito di quello che avete fatto? Saprebbero rispondere? E noi, che cosa possiamo capirci?
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