lunedì 11 gennaio 2016

Spezzaferro sogna ancora di essere Renzi. Sinistra Inutile spera sempre di allearsi



Massimo D’Alema «All’estero non siamo più protagonisti Arabia e Israele da alleati a problemi»

intervista di Aldo Cazzullo Corriere 11.1.16
Massimo D’Alema, rispetto a quando lei era premier e poi ministro degli Esteri, le alleanze in Medio Oriente sembrano essersi capovolte. I nemici di ieri sono diventati nostri alleati. A cominciare dall’Iran.
«Era sbagliato l’ostracismo verso l’Iran. Ed è divenuto insostenibilmente sbagliato con il passaggio dal conservatore Ahmadinejad al riformista Rohani. L’ostracismo era dettato non dagli interessi dell’Occidente, ma da quelli dei due alleati dell’Occidente: Arabia Saudita e Israele. I quali, più che alleati, si sono rivelati due problemi».
Come spiega la sfida dell’Arabia Saudita all’Iran?
«È un conflitto di potenze che tende a degenerare in un conflitto religioso; e i conflitti nazionali ammettono risoluzioni, quelli religiosi no. Eppure sciiti e sunniti hanno convissuto per secoli. La vera questione è l’egemonia nell’area. L’Arabia Saudita teme l’ascesa dell’Iran. E con un atto deliberato, privo di senso, ha messo a morte un chierico che non era un estremista, Nimr Al Nimr, per provocare la reazione dell’ala conservatrice del regime iraniano».
Nimr Al Nimr aveva avuto espressioni poco cortesi nei confronti del defunto re saudita…
«Il defunto re saudita auspicava che fosse “schiacciata la testa del serpente”, vale a dire che venisse distrutto l’Iran sciita con le bombe atomiche. Diciamo che è stato uno scambio di espressioni poco cortesi… Il punto è che l’apertura all’Iran non è contestata solo in Occidente. Ha nemici anche tra gli estremisti di Teheran. L’Arabia Saudita tenta di farla saltare nella speranza di restare partner privilegiato degli americani. La nuova leadership ha attitudini belliciste preoccupanti; si pensi all’avventura militare in Yemen. Io conoscevo bene il principe Faysal, figlio dello storico re Faysal, che è stato ministro degli Esteri per 39 anni — questa è stabilità, altro che l’Italicum —: era uomo di grande saggezza, non avrebbe mai fatto azzardi muscolari».
Chi sconfiggerà l’Isis?
«Fino a quando resterà questa tensione tra Arabia Saudita e Iran, l’Isis non sarà sconfitto. Purtroppo gli Usa hanno commesso errori gravissimi nella regione, dalla guerra in Iraq alla scelta del governatore Bremer — il quale non passerà alla storia come un genio — di liquidare, con Saddam, anche lo Stato e l’esercito iracheno. Oggi alcuni capi dell’Isis sono ex ufficiali di Saddam».
Quali sono i rapporti tra Riad e l’Isis?
«L’estremismo dell’Isis ha una radice culturale nell’islamismo più retrogrado, che ha il suo epicentro proprio nel Golfo. Questo non vuol dire che sia un’emanazione del regime saudita; ma non dimentichiamo che gran parte degli attentatori delle Twin Towers provenivano dalla migliore élite saudita».
E di Netanyahu cosa pensa?
«Il governo della destra israeliana sta giocando un ruolo negativo nella regione. Con l’espansione delle colonie, la prospettiva di uno Stato palestinese è di fatto scomparsa. La coltiva ancora la leadership politica, che vive di aiuti internazionali; ma la società civile no. Gli intellettuali credono ormai allo scenario che chiamano sudafricano».
Vale a dire?
«Un unico Stato, in cui i palestinesi dovranno battersi per i propri diritti. È nata così la nuova Intifada. Ma Israele, negando uno Stato palestinese, mette in pericolo la propria stessa idea di Stato ebraico. E la comunità internazionale accetta il doppio standard: Israele non rispetta gli impegni sottoscritti, viola le risoluzioni dell’Onu. Questo alimenta nel mondo arabo l’odio verso l’Occidente. Usa e Europa dovrebbero smetterla di avere nella regione alleati privilegiati, ai cui interessi finiscono per essere sacrificati gli interessi della stabilità e della pace. Noi abbiamo bisogno di un equilibrio fra i diversi Stati e di una convivenza basata sul rispetto dei diritti umani e dei principi del diritto internazionale».
Lei nel 2006 fu molto criticato per la sua passeggiata a Beirut sottobraccio a un deputato di Hezbollah.
«Spesso in Italia prevale l’ignoranza di trogloditi che non sanno di cosa si parli. Hezbollah rappresenta una parte significativa della società libanese. All’epoca faceva parte della coalizione di governo: il ministro degli Esteri era un accademico islamico espressione di Hezbollah. Siccome io lavoravo per la pace tra Israele e Libano, era inevitabile che incontrassi anche le forze che governavano il Libano».
Come andò?
«Arrivai a Beirut il mattino del 14 agosto, un’ora dopo la fine dei bombardamenti di Israele, che aveva colpito sino a un secondo prima del cessate il fuoco deliberato dall’Onu. Il ministro degli Esteri mi disse che c’erano molte vittime nei quartieri popolari, e avrebbe apprezzato che avessi fatto loro visita. Non era una manifestazione estremista; era lo scenario di un dramma, con civili che cercavano i loro congiunti sotto le macerie. Il mio fu un gesto di solidarietà umana giusto e apprezzato, che contribuì a garantire la sicurezza dei nostri militari poi schierati sul confine. Come i gesti che compii dall’altra parte, visitando i familiari di soldati israeliani rapiti. E incontrando all’aeroporto di Tel Aviv lo scrittore David Grossman, che in quella guerra aveva perso il figlio. Citai una felice espressione di Andreotti: l’equivicinanza. In Italia mi presero in giro».
Ora i guerriglieri sciiti sono nostri alleati?
«Alleati no; ma combattono il nostro stesso nemico. E in Siria noi dobbiamo costruire un fronte anti-Isis tra il governo, i suoi sostenitori interni tra cui la minoranza cristiana, i suoi sostenitori esterni che sono la Russia e l’Iran, e i gruppi sunniti appoggiati dall’Occidente».
In Libia cosa si può fare?
«Dopo il disastroso intervento di Francia e Gran Bretagna, in Libia c’è stata una gestione debolissima della crisi da parte dell’Onu. Né si è capito perché l’Europa l’abbia accettata. Ci si è impantanati in un’estenuante mediazione tra il governo di Tobruk e quello di Tripoli, anziché individuare una forte personalità politica, un alto rappresentasse delle Nazioni Unite, in grado di coinvolgere i diversi Paesi arabi che su un fronte e sull’altro hanno fomentato il conflitto».
Si era parlato di Prodi.
«Prodi avrebbe potuto essere una soluzione adeguata. Nel frattempo invece l’Isis si è insediato sulla sponda meridionale del Mediterraneo».
Qual è oggi il ruolo dell’Italia?
«Non siamo tra i protagonisti. Questo ci ha evitato se non altro di commettere errori. Non siamo tra coloro che hanno destabilizzato, ma neppure tra coloro che cercano di rimettere insieme i pezzi».
In Libia siamo stati una potenza coloniale.
«Ma in Libia non c’è affatto un sentimento anti-italiano, come mi hanno confermato i sindaci delle principali città. Anzi, tutti sperano che assumiamo un ruolo. Purtroppo il giorno dopo che Renzi ha rivendicato un ruolo-guida in Libia, l’Onu ha nominato l’ambasciatore tedesco».
L’Italia è passata dalla fase in cui «si andava in Europa con il cappello in mano» a quella in cui «si picchiano i pugni sul tavolo». Ma qual è la strategia giusta?
«Non siamo mai andati in Europa con il cappello in mano. Il centrosinistra vi andò con l’autorevolezza di governi che ridussero il debito pubblico dal 132 al 102% del Pil, portando l’Italia nell’euro e ottenendo per Prodi la presidenza della Commissione. Quando Ciampi prendeva la parola a Ecofin, non era considerato un questuante. A picchiare i pugni sul tavolo provarono Berlusconi e Tremonti, senza grandi fortune. Non seguirei quella strada. Renzi, anziché baccagliare con la Merkel, dovrebbe farsi promotore con gli altri leader del socialismo europeo di una nuova politica. Che fine ha fatto il piano di investimenti Juncker?».
I socialisti europei a Bruxelles e a Berlino fanno i vice dei conservatori.
«In tempo di rivolta contro l’establishment, i socialisti rischiano di rinchiudersi nel fortilizio con i loro antichi avversari, per giunta in una posizione subordinata. Invece devono dialogare con i nuovi movimenti. Che possono essere deviati a destra, in nome dell’antipolitica. Ma possono anche essere declinati a sinistra. Sono segnali interessanti sia il nuovo governo portoghese sia la scelta del socialisti spagnoli, che respingono le pressioni per una grande coalizione con i popolari e dialogano con Podemos ».


Smeriglio: “Rompere le alleanze è un regalo a Renzi”

Massimiliano Smeriglio (Sel): per una forza delle nostre dimensioni sarebbe ridicolo rinunciare alla ricerca delle coalizioni Fassina è stato un eccellente uomo di governo, non lo nasconda La candidatura a sindaco di Roma deve servire ai romani, non al nuovo soggetto

intervista di Daniela Preziosi il manifesto 10.1.16
ROMA L’ultimo guaio della già inguaiata famiglia della sinistra italiana attraversa lo Stivale, da Milano a Torino a Bologna fino a Roma e Napoli. Investe soprattutto casa Sinistra ecologia e libertà, il partito nato nel 2009 da una scissione di Rifondazione comunista per l’alleanza con il Pd, e oggi alle prese con la scelta opposta della rottura in vista delle amministrative. Scelta che non va giù a una parte dei dirigenti: l’opinione — decisiva — degli elettori si misurerà nel voto. Guidano il fronte i sindaci Pisapia, Doria, Zedda. E nel Lazio Massimiliano Smeriglio, numero due della Regione, vice del presidente Zingaretti.
Smeriglio, il Pd minaccia di farvi fuori dalla giunta regionale se non fate l’alleanza al Campidoglio. Paura di perdere la poltrona?
Nel 2013 ho lasciato la poltrona comoda della camera, d’accordo con il gruppo dirigente di Sel, per dare vita a un laboratorio politico, quello della Regione. Oggi mi pare che un po’ tutti a sinistra siano soddisfatti delle scelte compiute. Senza Sel questa esperienza non esisterebbe. In ogni caso i ruoli politici o istituzionali sono sempre temporanei.
Lei governa in coalizione: è una posizione particolare o rischia di diventare una diversa scelta politica?
La mia scelta politica si chiama sinistra, un luogo che mi piace abitare e trasformare. Per me il tema è come si contende il campo al Partito della Nazione mantenendo alta la critica al governo Renzi. Dobbiamo però decidere se assistere alla rivoluzione passiva renziana lasciandogli tutto il campo o provare a contendergli parte del campo. In ogni caso la nostra posizione ufficiale è far valutare caso per caso alle realtà locali.
Ma nel caso di Milano, finire a sostenere Sala non è l’opposto, cioè legittimare il partito della nazione?
A Milano c’è un gruppo dirigente capace che si muove con grande responsabilità. Decideranno loro la nostra collocazione, insieme a Pisapia. Sel ha inciso e cambiato le cose, dai sindaci arancioni alla coalizione Italia bene comune. Ha vinto e ha perso, ma ha sempre giocato la partita per l’egemonia e il cambiamento. Non è mai stata una ridotta identitaria. Con il minoritarismo si vincono i congressi delle formazioni radicali ma si perde il contatto con la società.
Italia bene comune è stata sconfitta alle urne nel 2013. Poi l’Italicum ha mandato in archivio l’idea stessa di coalizione.
Se non vogliamo essere ridicoli, per una forza delle nostre dimensioni la ricerca delle coalizioni resta un tema aperto. Se non c’è il centrosinistra per me è un problema, non un’opportunità. Dobbiamo battere la vocazione maggioritaria del Pd, ma non opponendo quella minoritaria della sinistra. Sono contrario alla separazione consensuale, abbiamo già dato nel 2008. Ogni separazione ha comportato disastri per il Paese e per la sinistra. Nessuna catarsi annunciata si è mai avverata. Neanche nel 98. Dobbiamo evitare la coazione a ripetere lo stesso errore ogni dieci anni.
Insisto. Il nuovo partito di sinistra nasce sull’idea dell’autonomia dal Pd . E a livello nazionale Renzi è alleato di Alfano.
L’autonomia è una ricerca centrale ma non si misura in metri di vicinanza o distanza dal Pd. Vedo delle difficoltà nell’azione del governo, tornano a parlare di centrosinistra. Dovremmo incalzarli e verificare se esiste davvero uno spazio per la riapertura di un dialogo sul reddito minimo, le misure anti povertà, il clima, le riforme costituzionali. Vediamo le carte, se c’è sostanza o se è solo un bluff.
Ma le riforme costituzionali sono quasi approvate, e presto anche su questo tema sarete avversari al referendum.
Il referendum sarà importantissimo e noi dovremmo costruire una campagna per il No fatta di argomenti che riguardano la vita delle persone, non le nostalgie. Dobbiamo difendere la Costituzione senza regalare tutto il campo dell’innovazione a Renzi.
Torniamo alle città. A Roma avete un candidato ex Pd, Fassina, contrario alla coalizione e quindi a partecipare alle primarie. Ma l’impressione è che una parte di Sel, la sua, non l’ha mai sentito come il proprio candidato. Impressione sbagliata?
Non ci sono diverse parti di Sel, c’è un partito che sta discutendo. Stefano Fassina ha una biografia eccellente: da valorizzare, non da nascondere. È stato un uomo di governo, competente, credibile. Dovrebbe enfatizzare questi aspetti, come fece Emma Bonino alle regionali nel 2010, una candidatura che si inserì nelle difficoltà del Pd e prese l’intero campo. Lei non si presentò come candidata dei radicali ma di tutti i progressisti. Noi dobbiamo offrire la candidatura di Fassina a tutti, compreso il Pd, proprio a partire dal profilo del candidato. Le ipotesi da scassapopolo le lascerei ad altri: a quelli che hanno percorso e perso su queste strade mentre noi costruivamo Italia Bene Comune.
Sel ha condotto fin qui una durissima campagna contro il Pd sul caso Marino. E come a Milano, anche a Roma partecipare alle primarie significherebbe sostenere, al voto, un candidato renziano. Peraltro il Pd ancora non ha un programma né un candidato: vuole un’alleanza a prescindere?
Il fallimento del governo Marino è davanti ai nostri occhi, ognuno porta una quota di responsabilità, il Pd quella più grande. In questo contesto le primarie sono un passaggio difficile da realizzare ma, come ha detto Fassina al manifesto, vediamo se il Pd saprà stupirci. E vediamo se noi sapremo stupire la città evitando di consegnarla ai 5 stelle o agli eredi di Alemanno. Serve un’iniezione di partecipazione e protagonismo civico. L’idea di mettere a verifica questa opzione in una consultazione del nostro popolo mi pare buona. Viceversa vi è il rischio di essere fraintesi: la candidatura a sindaco non deve stare in uno schema politicista che risponde alla logica della costruzione del nuovo soggetto della sinistra più che ai bisogni dei romani. Così si va a sbattere.
Sono posizioni molto distanti da quelle di altri dirigenti di Sel. Rischiate una scissione?
Siamo impegnati insieme a tanti militanti, parlamentari, sindaci, amministratori a portare la cultura politica di Sel nel nuovo soggetto. Dobbiamo imparare a confrontarci senza immaginare scissioni a ogni tornante.
Se non otterrà correzioni di rotta lei che farà?
Sono fiducioso, confido nella maturità della nostra gente. In fondo cos’è un processo costituente se non questo?
Insisto: c’è ancora uno spazio di accordo fra voi?
Troveremo una quadra per affermare l’idea di una sinistra socialmente utile. Con lo sforzo e il contributo di tutti. L’ambizione è fondare una «chiesa» grande, aperta, capace di accogliere le diversità e di far vivere una connessione sentimentale con il vincolo di popolo. A me non interessa una setta che si nutre di abbandoni e purificazione. Anche perché il film dell’organizzazione omogenea e angusta è vecchio, già visto: anche qui, abbiamo già dato. 

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