sabato 30 gennaio 2016
Non avrai altro dio al di fuori del Renzi e sarà dunque un dio un po' ebete: la fine della democrazia moderna trasfigurata come "democrazia del leader"
Gli intellettuali italiani sono sempre gli stessi [SGA].
Risvolto
La crisi dei partiti, già indeboliti nei loro ancoraggi sociali e
ideologici, che subiscono lo smembramento interno sotto i colpi della
personalizzazione; la centralità decisionista dell’esecutivo e del
premier che mettono fuorigioco il parlamento; la colonizzazione
mediatica della vita quotidiana che muta drasticamente i circuiti della
partecipazione e scalza i partiti dal loro presidio secolare della
discussione. In La democrazia del leader, Mauro Calise mette a fuoco gli snodi del processo che ha trasformato la democrazia rappresentativa in democrazia del leader.
L’IMPORTANZA DI AVERE UN LEADER
30 gen 2016 Corriere della Sera Di Marco Demarco
Sempre populismo è. Ma attenti a confondere quello di Berlusconi con quello di Renzi. Nel suo nuovo libro La democrazia del leader (Laterza, pagine 160, 13) Mauro Calise analizza i due diversi modelli italiani. E sottolineando le differenze più che i tratti comuni, mette a fuoco ciò che ritiene essere un passaggio decisivo della nostra storia politica: dall’era (recente) del partito personale a quella (corrente) che dà il titolo al suo saggio. Un passaggio positivo, lascia intendere l’autore: perché il partito personale, il partito del capo carismatico, faceva intuire sin dall’inizio pericolose derive legate alla sua tenuta in un mondo senza più organizzazioni di massa e sempre più disunito; mentre la democrazia del leader, quella americana, quella in cui i partiti si mettono al servizio del capo governante, fa comunque sperare in un approdo. Si regge infatti più sull’esercizio del potere che sulla sua semplice ostentazione.
Del partito personale, Calise ha scritto già nel 2000. Sedici anni dopo, eccolo dunque tornare sul tema per estenderlo ulteriormente. Da sociologo della politica e da studioso della sua modernizzazione, non ha dubbi: il partito personale è stato una straordinaria innovazione. E a Berlusconi va il merito di averla sperimentata in Italia. Ma, facendone un pilastro del nuovo assetto politico, il Cavaliere si è trascinato dietro, nella Seconda Repubblica, qualcosa che apparteneva alla Prima: l’elemento ideologico. Berlusconi, dice Calise, ha puntato tutto sull’anticomunismo e così ha tenuto diviso il Paese. In più, è rimasto prigioniero del proprio narcisismo, vedi la fine che ha fatto la sua squadra.
Renzi, invece, per un tratto si spinge oltre, per un altro si trattiene. Coltiva il carisma oltre ogni misura, ma si guarda bene dal creare un partito tutto suo, col rischio, poi, di ritrovarsi con poco o nulla tra le mani. Si tiene piuttosto quello che c’è, il Pd, e nel frattempo rafforza con le riforme il fronte istituzionale. In più, senza mai individuare il nemico all’interno del corpo sociale allargato. Sceglie non a caso «categorie ristrette, elitarie, privilegiate, che si tratti della nomenclatura burocratica o di gruppi di opinione il cui collante è il remare contro: i gufi, i rosiconi...». Renzi è decisionista, ribadisce Calise. Berlusconi molto meno. Renzi è presidenzialista e lavora per questa prospettiva. Berlusconi lo è nelle intenzioni, non nei fatti.
La scena del capo
Politica. Il saggio di Calise, «La democrazia del leader», edito da Laterza, è quasi una guida pratica al renzismo. E al suo modello (Berlusconi)
Andrea Fabozzi Manifesto 8.3.2016, 0:04
In una recente assemblea del Pd, Matteo Renzi ha ricordato la famosa promessa di Berlusconi: «Un milione di posti di lavoro». L’ha citata come modello positivo, esempio riuscito di comunicazione politica. «Su questo ha vinto lui», ha detto, mostrando una foto di Berlusconi che firma il contratto con gli italiani nello studio di Porta a Porta. Il giorno dopo, è partita nelle città italiane una campagna di affissioni pubblicitarie per celebrare i successi del biennio renziano, ispirata evidentemente alla celebre propaganda berlusconiana: «Fatto!». Tre giorni ancora dopo, Renzi ha così commentato l’approvazione in senato della legge sulle unioni civili: «Ha vinto l’amore».
I riferimenti allo stile berlusconiano sono continui e ricercati dal giovane presidente del Consiglio, che può consentirsi di parlare con leggerezza di quel suo, mancato, avversario. E ogni tanto può pescare nel vasto repertorio del Cavaliere per qualche citazione che serve in fondo a rimarcare come egli non sia più un problema, perché già «passato alla storia». Una condizione che consente a Renzi di sospendere il giudizio sul ventennio di governo del centrodestra, per concentrarsi nella critica al centrosinistra.
Per Mauro Calise (La democrazia del leader, pp 159, euro 13, editore Laterza) la chiave per interpretare il successo renziano è (quasi) tutta qui, nella dimostrazione di saper seguire il modello berlusconiano e nella prova, in corso, di poterlo superare. La traccia è comune, il Cavaliere essendo stato «il primo esempio, da manuale, di come il populismo possa servire a entrare nelle stanze del governo». Ma poi, secondo l’analisi del politologo napoletano, il discorso di Berlusconi ancora così centrato sulla divisione del paese – «i comunisti» – non gli ha consentito di governare seguendo la retorica che gli ha fatto vincere, e rivincere, le elezioni. Il Cavaliere outsider, scrive Calise, in fondo «non ha mai fatto consapevolmente ingresso» a palazzo Chigi. Al contrario Renzi è in grado di rivolgere il suo racconto a tutti gli italiani, stando seduto sulla poltrona di governo. Con un’innovazione di linguaggio già tentata (riconosce il libro) da Veltroni, che però rimase «nel target tradizionale della sinistra riformista». Renzi invece non si accontenta né dell’Italia laboriosa del Cavaliere né di quella popolare di Veltroni, ha l’ambizione di parlare a un paese senza classi e non ha caso confina i suoi avversari – ogni leader deve pur individuarli – in un piccolo zoo: i gufi. Strutturalmente interclassista, la sua proposta non poteva dispiegarsi da una posizione di parte come quella di capo partito. Renzi, spiega Calise, non poteva fare altro che forzare e passare il più presto possibile dalla guida del Pd a quella del paese.
Passando invece dal piano della comunicazione a quello delle scelte politiche concrete (distinzione che Renzi non approverebbe), la svolta dell’attuale presidente del Consiglio sta nell’avere messo palazzo Chigi «al centro della scena e dell’agenda politica nazionale». Per l’Italia si tratterebbe di una «novità radicale», così come tutta nuova è l’unità di missione con la quale Renzi sta provando a trasferire a palazzo Chigi le leve della politica economica. Il tutto accade, può essere interessante notare, senza modifiche alla Costituzione formale: malgrado la riforma in via di definizione non faccia economia di articoli «revisionati». Formalmente il presidente del Consiglio dei ministri resta quel primum inter pares disegnato nel ’47, formalmente continua a non essere eletto direttamente. Sostanzialmente, nota Calise, il regime presidenzialista e quello parlamentare ormai si assomigliano. Non solo in Italia. E non è detto, aggiungiamo noi, che grazie all’abbondante maggioranza che regalerà la nuova legge elettorale, la Costituzione non potrà essere facilmente adattata alla nuova prassi.
Il leader «comunicatore carismatico» alla guida di un paese sostanzialmente presidenzialista e di un partito «inconsapevolmente» presidenzialista manca tuttavia, scrive Calise, di una «rete di protezione» paragonabile a quella che garantisce sindaci e presidenti di regione e per questa ragione tende a legare le sue sorti a quelle della legislatura. Renzi l’ha fatto abilmente per conquistare in poche ore un gruppo parlamentare selezionato da Bersani. Resta tuttavia scoperto sul fronte della magistratura, la cui indipendenza secondo Calise tende a sconfinare nell’irresponsabilità. La «giuridificazione della politica» appare all’autore un fenomeno ormai compiuto, così come la «politicizzazione dell’azione giudiziaria» che fatalmente «tende a privilegiare nella scelta dei suoi obiettivi le personalità di maggior calibro istituzionale». Di certo Renzi ha affrontato la materia con inconsueta prudenza, come a segnalare la consapevolezza dei rischi. La sua prima scelta per il ministero della giustizia era un magistrato, lo ha poi affidato a un politico di nota cautela. Quando ne parla, oscilla tra dichiarazioni di garantismo che danno l’impressione di essere interessate, e slanci di giustizialismo contro avversari o alleati non in condizione di nuocere. D’altra parte la stessa magistratura sembra partecipare di questa prudenza; ha frenato ogni tentazione allo sciopero di fronte alle prime iniziative concrete del governo, per quanto non gradite.
La condizione di autonomia e indipendenza («irresponsabilità») della magistratura, nell’analisi di Calise caratterizza parimenti il sistema dei media. Tant’è che l’autore parla di «fattore M», sottratto ai circuiti della legittimazione elettorale e dunque unico elemento di ansia per il leader di successo, perennemente a rischio di scoprirsi «leader solitario». Eppure, al momento, il racconto delle gesta renziane non pare affatto minacciato, o minaccioso. Né l’attuale panorama editoriale autorizza in concreto preoccupazioni, o speranze.
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