venerdì 8 gennaio 2016

Todorov sulla costruzione del nemico necessario nelle democrazie liberali

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Lo stesso articolo ricompare con una diversa traduzione su Repubblica quasi un mese dopo [SGA].


Un nemico non è per sempre 
Etichettare come “barbaro” e “mostro” chi oggi ci aggredisce è sbagliato: come ha insegnato Mandela è più utile cercare il barlume di umanità che è in lui 
Tzvetan Todorov Stampa 31 12 2015
Durante la mia infanzia e adolescenza in Bulgaria, paese che apparteneva allora al «campo comunista», soggetto quindi a un regime totalitario, il concetto di «nemico» era uno dei più necessari e utilizzati. Permetteva di spiegare l’enorme divario tra la società ideale, dove dovevano regnare prosperità e felicità, e la realtà opaca in cui eravamo immersi. Se le cose non funzionavano bene come promesso, la colpa era dei nemici. Questi appartenevano a due grandi categorie. C’era intanto un nemico lontano e collettivo, quello che chiamavamo «l’imperialismo angloamericano» (una formula fissa), responsabile di tutto ciò che non andava bene nel mondo. Accanto a lui si palesava un nemico vicino, dotato di un’identità individuale, identificabile nelle istituzioni familiari: la scuola dove si studiava, la ditta in cui si lavorava, le organizzazioni a cui si apparteneva. 
Manicheismo leninista
La persona designata come nemico aveva ragione di preoccuparsi: una volta che gli era stato attribuito quel marchio infamante, poteva perdere il lavoro, il posto a scuola, il diritto a vivere in una città, e ognuna di queste misure poteva essere seguita dalla reclusione o dall’internamento in un campo di rieducazione, un’istituzione di cui la Bulgaria a quei tempi era generosamente fornita. 
Adottando questo atteggiamento, i rappresentanti delle autorità si comportavano in conformità ai precetti dettati dagli strateghi della rivoluzione, compreso Lenin, fondatore del regime totalitario comunista, che interpretava la vita sociale in termini militari. Una tale situazione di conflitto giustifica tutte le misure repressive. Una persona che difetta di entusiasmo per la costruzione del comunismo è vista come un avversario, ma ogni avversario diventa un nemico, e i nemici meritano un solo destino: l’eliminazione. Lenin raccomanda pertanto di «sterminare senza misericordia i nemici della libertà», di condurre «una sanguinosa guerra di sterminio». Il totalitarismo è un tipo di manicheismo che divide la popolazione della Terra in due sottospecie che si escludono a vicenda, che incarnano il bene e il male e di conseguenza anche gli amici e i nemici. 
Troviamo la stessa rigida ripartizione tra i teorici del nazifascismo, e quindi la stessa importanza attribuita alla nozione di nemico. Il giurista e filosofo tedesco Carl Schmitt (1888-1985) riduce la categoria stessa della politica a «discriminazione tra amico e nemico», paragonando a sua volta la vita della città a una guerra. E si oppone a quelle che definisce le utopie pacifiste e liberali, che mantengono la speranza di una graduale estinzione delle guerre; il suo ruolo, dice, è quello di essere il nemico di coloro che non vogliono più riconoscere il nemico... La guerra non è la manifestazione più comune della politica, ma ne è la manifestazione ultima, perché è l’unica in cui l’individuo mette la sua vita interamente nelle mani dello Stato e la sola che lo porta ad accettare tanto di morire quanto di uccidere. Per questo motivo, rivela la verità. La convinzione di Schmitt non si basa su un’analisi storica o antropologica, ma sulla dottrina cristiana del peccato originale, cui aderisce con un atto di fede.
Ieri i comunisti, ora l’islam
Consustanziale alle concezioni totalitarie della storia, il concetto di nemico non svolge un ruolo di primo piano nella vita dei paesi democratici, ma viene sporadicamente utilizzato nello stesso modo. In guerra, questo termine designa, per convenzione, il paese o l’organizzazione che si combatte. Al tempo della guerra fredda, il nemico era il comunismo nella sua versione sovietica e i suoi simpatizzanti ovunque fossero. Il nemico è invocato anche nel populismo demagogico che ama additare alla vendetta popolare un personaggio colpevole di tutti i mali che ci affliggono. A volte il nemico è identificato con una popolazione specifica: gli immigrati dai paesi poveri, i musulmani. L’effetto di questa dichiarazione è di instillare la paura nella gente e quindi di invogliare un numero significativo di elettori a votare per la parte che formula quest’accusa e promette di eliminare il nemico. Questo ci porta ai margini del quadro democratico. 
Si dovrà allora, rifuggendo la contiguità con i precedenti utilizzatori, tanto compromettenti, rinunciare all’uso di questo termine? Questa conclusione sembra inaccettabile, soprattutto in un contesto come quello che stiamo vivendo, dove dobbiamo identificare il nemico perché questi minaccia di ucciderci. L’osservazione spassionata del mondo che ci circonda non fa pensare che l’ostilità sia scomparsa dalla faccia della Terra, né tra i popoli né tra gli individui: le nostre società non sono abitate da tribù di angeli. 
Ostilità temporanea
Per mantenere l’uso del concetto di nemico in una democrazia, tuttavia, si dovrebbe adattarne il senso. Non si può aderire ai postulati fondamentali del pensiero totalitario, che si esprimono in formule del tipo «la guerra dice la verità sulla vita», o invocare il carattere decisivo del «peccato originale». Un certo consenso è stato raggiunto oggi tra coloro che mettono in discussione la specificità della specie umana: è diventato impossibile dire che la lotta, la violenza, la guerra rappresentino la caratteristica dominante della nostra specie. Se dobbiamo riservare un tale spazio a una sola attività, questa sarebbe la cooperazione piuttosto che la lotta all’ultimo sangue. E questa caratteristica è comune a tutte le popolazioni del mondo. 
Si arriva quindi a non identificare il nemico in un gruppo umano, ma a trovare le sue origini in un’ideologia o un dogma, in un’emozione o in una passione. Gli individui diventano «nemici» solo parzialmente e temporaneamente. In tutti i casi che ho citato, il nemico è stato identificato con un insieme di persone che occupano un posto fisso nel tempo e nello spazio: a un certo punto gli americani per i sovietici, e viceversa, in un altro momento gli immigrati di alcuni paesi per gli autoctoni, in un altro ancora i terroristi agli occhi del potere legale. Se si rinuncia a fare del nemico un’essenza a parte, abbiamo piuttosto un attributo, una condizione precisa e temporanea, che si ritrova in tutti. Piuttosto che eliminare i nemici, ci si darà l’obiettivo di prevenirne gli atti ostili. Questa è la lezione che ci ha insegnato la vita di quel combattente esemplare che fu Nelson Mandela. Egli riuscì ad abbattere un nemico come il sistema dell’apartheid senza versare una goccia di sangue, avendo scoperto nei suoi potenziali nemici un «barlume di umanità», avendo capito le ragioni della loro ostilità ed essendo così riuscito a trasformarli in amici.
Ma i Paesi occidentali che hanno sofferto attacchi terroristici, come gli Stati Uniti o altri, non si sono rivolti in questa direzione. I loro leader hanno preferito adottare la massima di Lenin, secondo la quale bisogna «sterminare senza misericordia i nemici della libertà». All’indomani dell’11 settembre 2001, il presidente Bush aveva promesso al suo Paese che avrebbe garantito, con tutti i mezzi possibili, il trionfo della libertà sui suoi nemici. In quell’occasione è stata creata una nuova categoria, quella dei «combattenti nemici» privi sia dello status di criminali, e quindi giudicati in base alle leggi del Paese, sia di quello di prigionieri di guerra protetti dalle Convenzioni di Ginevra: sono quelli rinchiusi a Guantanamo. Il risultato di queste misure è stato, come sappiamo, l’ampliarsi del fenomeno del terrorismo.
Etichette fuorvianti
Non si tratta di un semplice slittamento semantico nell’uso di una parola o di un dibattito puramente filosofico. Dobbiamo affrettarci ad abbandonare le etichette fuorvianti di cui continuano a servirsi i leader politici che, di fronte alle aggressioni, invocano «il nemico barbaro», «gli atti mostruosi» o «i personaggi diabolici». La comprensione del nemico permette di scoprire modi specifici per combatterlo. L’uso della forza, militare o di polizia, deve sempre restare possibile, un attacco imminente dev’essere contrastato con le armi. Ma a questo si deve aggiungere un’altra conseguenza: capire il punto di vista dell’aggressore diventa il presupposto di qualsiasi lotta contro di lui. Perché dietro alle azioni ci sono sempre pensieri ed emozioni, su cui è possibile agire. 
L’ostilità può essere motivata da un senso di umiliazione, o da un’ingiustizia subita, o dalla rabbia, o da sogni di potere, o essere frutto dell’ignoranza. I nemici sono esseri umani come noi. Per neutralizzarli non servono necessariamente le bombe o i missili, ma saranno sempre necessari il coraggio e la perseveranza.
[Traduzione di Carla Reschia] © Le Monde, 2015

Qual è il vero volto dei nostri nemici 
Invece di cercare ovunque persone da combattere, occorre impegnarsi a impedire gli atti ostili. È la lezione di Mandela Nei totalitarismi si individua costantemente un responsabile lontano e collettivo di quel che non va nel mondo
TZVETAN TODOROV Repubblica 25 1 2016
Durante la mia infanzia e adolescenza in Bulgaria, paese che apparteneva allora al «campo comunista», sottoposto quindi a un regime totalitario, la nozione di «nemico» (vrag) era una delle più indispensabili e utilizzate. Permetteva di spiegare l’enorme sfasamento fra la società ideale, dove dovevano regnare prosperità e felicità, e la cupa realtà in cui eravamo immersi. Se le cose non andavano bene come promesso, la colpa era dei nemici. I nemici erano principalmente di due specie. C’era innanzitutto un nemico lontano e collettivo, quello che chiamavamo «l’imperialismo angloamericano » (una formula fissa), responsabile di quello che non andava nel vasto mondo. Accanto a questo, c’era un nemico vicino, fornito di un
volto individuale e identificato in seno a istituzioni che facevano parte della nostra esperienza diretta: la scuola dove studiavamo, l’impresa dove lavoravamo, le organizzazioni di cui facevamo parte. La persona designata come nemico aveva buoni motivi per preoccuparsi: una volta che gli veniva appiccicata addosso questa etichetta infamante, poteva perdere il lavoro, la possibilità di frequentare la scuola, il diritto di vivere in una certa città, e a tutte queste misure poteva far seguito la prigione o più facilmente un campo di rieducazione, istituzione di cui la Bulgaria dell’epoca era riccamente dotata.
Adottando questo approccio, i rappresentanti delle autorità si comportavano in conformità con i precetti lasciati dagli strateghi della rivoluzione, e in particolare da Lenin, fondatore del regime totalitario comunista, che interpretava la vita sociale in termini militari. Una simile situazione di conflitto giustifica qualsiasi misura repressiva. Il totalitarismo è un manicheismo che divide la popolazione terrestre in due sottospecie che si escludono a vicenda e incarnano il bene e il male, e di conseguenza anche gli amici e i nemici.
La stessa suddivisione rigida si ritrova fra i teorici del fascismo nazista, e dunque la stessa importanza attribuita al concetto di nemico. Carl Schmitt riduce la categoria stessa della politica alla «discriminazione dell’amico e del nemico», assimilando a sua volta la vita del cittadino alla guerra.
Consustanziale alle concezioni totalitarie della storia, il concetto di nemico non gioca un ruolo di primo piano nella vita dei paesi democratici, ma è utilizzato sporadicamente nello stesso senso. In tempo di guerra, questo vocabolo designa, per convenzione, il paese o l’organizzazione che si combatte. Nel periodo della guerra fredda, il nemico era il comunismo nella sua versione sovietica, e coloro che in patria manifestavano simpatia verso di esso. Il nemico è invocato nel discorso del populismo demagogico, che ama additare alla riprovazione popolare un personaggio colpevole di tutti i mali che ci affliggono. A volte il nemico è identificato con una popolazione specifica: gli immigrati dai Paesi poveri, i musulmani. L’effetto di queste affermazioni è di instillare nella popolazione un sentimento di paura, e dunque stimolare un numero importante di elettori a votare per il partito che promette di far scomparire il nemico. Siamo ai margini del quadro democratico.
Dovremmo allora, per non essere accostati ai personaggi compromettenti che hanno utilizzato questo termine in passato, rinunciare a usarlo? Una conclusione simile sembra inaccettabile, soprattutto in un contesto come quello che attraversiamo, dove non abbiamo alcun problema a individuare il nemico, poiché è un nemico che ci minaccia di morte. L’osservazione candida del mondo intorno a noi non ci induce a pensare che ogni ostilità sia scomparsa dalla faccia della terra.
Per poter conservare l’uso del concetto di nemico in un regime democratico, è opportuno tuttavia correggerne il senso. Al giorno d’oggi, un certo consenso si è venuto a creare fra coloro che si interrogano sulla specificità della specie umana: è diventato impossibile affermare che il combattimento, la violenza, la guerra rappresentano la caratteristica dominante della nostra specie. Se dovessimo attribuire questo titolo a un’unica attività, sarebbe la cooperazione più della lotta all’ultimo sangue. Ed è una caratteristica che riguarda tutte le popolazioni del pianeta.
Ci ritroviamo allora non a individuare il nemico in un gruppo umano, ma a ricercare la sua origine in un’ideologia o in un dogma, in un’emozione o una passione. Gli individui diventano «nemici» solo parzialmente e provvisoriamente. Se rinunciassimo a fare del nemico una sostanza a parte, potremmo vedere in esso semmai un attributo, uno stato puntuale e passeggero che si ritrova in tutti e in ognuno. Invece di eliminare i nemici, ci si darebbe come compito di impedire gli atti ostili. È la lezione che ci insegna il percorso di quel combattente esemplare che è stato Nelson Mandela: riuscì ad abbattere un nemico imponente, l’apartheid, senza versare una sola goccia di sangue, perché scoprì nei suoi potenziali nemici uno «sprazzo di umanità», perché comprese le ragioni della loro ostilità e riuscì in quel modo a trasformarli in amici.
I paesi occidentali che hanno subito aggressioni «terroristiche», come gli Stati Uniti o gli altri che sono seguiti, non si sono impegnati su questa strada. I loro dirigenti hanno preferito adottare la massima di Lenin secondo la quale bisogna «sterminare senza pietà i nemici della libertà». All’indomani dell’11 settembre 2001, il presidente Bush aveva assegnato come compito al suo Paese garantire con tutti i mezzi possibili il trionfo della libertà sui suoi nemici. Con l’occasione era stata addirittura creata una nuova categoria, quella dei «combattenti nemici», che non godevano né dello status del criminale, giudicato secondo le leggi nazionali, né di quello del prigioniero di guerra, protetto dalle convenzioni di Ginevra: sono le persone che popolano il campo di prigionia di Guantánamo. Il risultato di queste diverse misure è stato, come sappiamo, un’estensione del terrorismo.
Non si tratta, in questo caso, di una semplice inflessione semantica nell’uso di una parola, di un dibattito esclusivamente filosofico. Bisogna sbrigarsi ad abbandonare le etichette accecanti di cui continuano a servirsi i dirigenti politici, che di fronte a un’aggressione invocano «il nemico barbaro», «gli atti mostruosi », «i personaggi diabolici». Comprendere il nemico consente di scoprire mezzi specifici per combatterlo. L’uso della forza, militare o poliziesca, deve restare sempre possibile, un attacco imminente dev’essere fronteggiato con le armi. Ma a ciò si aggiunge un’altra conseguenza: comprendere l’agente aggressivo dal suo punto di vista diventa il preambolo indispensabile di ogni lotta contro di lui. Perché dietro gli atti fisici ci sono sempre pensieri ed emozioni, e anche su di essi si può agire. L’ostilità può essere motivata da un sentimento di umiliazione, o dall’ingiustizia subita, o dalla collera, o da sogni di potenza, oppure può essere il risultato dell’ignoranza. I nemici sono degli esseri umani, come noi. Per neutralizzarli non dobbiamo servirci necessariamente di bombe o di missili: ma ci sarà sempre bisogno di coraggio e di perseveranza.

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