venerdì 8 gennaio 2016

Ripubblicato il "Testamento politico" di Richelieu

immagine scheda libro
Richelieu: Testamento politico, Aragno

Risvolto
Il Testamento politico è un’opera complessa, ricca di spunti suggestivi per chiunque si interessi dei grandi passaggi storici, un condensato di ragione, saggezza e realismo, dove pratica della politica e riflessione si intrecciano in una combinazione particolarissima; dove l’agire politico viene interpretato in una dimensione totalmente secolarizzata che tuttavia permane nel perimetro di un finalismo che permette di coniugare ragion di Stato e ragione divina in un armonico progetto.






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Rivalutiamo il cardinale Richelieu 

Nuova edizione del «Testamento politico» pubblicata da Aragno Maligno tessitore? No, abile statista 8 gen 2016  Corriere della Sera Di Sergio Romano © RIPRODUZIONE RISERVATA 
Quando I tre moschettieri erano straordinariamente popolari, i loro giovani lettori non potevano apprezzare i meriti e le virtù di ArmandJean du Plessis de Richelieu, cardinale e ministro dirigente di Luigi XIII, re di Francia e di Navarra. L’autore del romanzo, Alexandre Dumas, ne aveva fatto un gelido tessitore di trame nazionali e internazionali, circondato da antipatiche guardie con cui i moschettieri non perdevano occasione per incrociare le spade. Non so se il libro goda ancora della stessa popolarità, ma il ritratto di Richelieu è senza dubbio ingiusto. 
Il cardinale non fu soltanto un uomo politico. Fu anche uno stratega e ne dette la prova in parecchie circostanze. Fece occupare la Valtellina nel 1624 per interrompere la via di comunicazione, che passava attraverso le Alpi grigionesi, che permetteva alla Spagna e all’Austria di prestarsi assistenza e dominare insieme una larga parte d’Europa. Conquistò La Rochelle nel 1628 perché gli ugonotti, con l’aiuto degli inglesi, avevano trasformato questo porto sull’Atlantico in una enclave protestante, sottratta alla corona del re di Francia. Ma si alleò con un re protestante (Gustavo Adolfo di Svezia) contro l’impero cattolico degli Asburgo, perché le lealtà religiose gli sembrarono sempre meno importanti degli interessi nazionali francesi. 
Lo Stato era la sua passione. Quando conquistò il potere la Francia era ancora un complicato intreccio di corporazioni e prerogative feudali, dove la nascita garantiva l’esercizio delle funzioni pubbliche e i poteri si trasmettevano da una generazione all’altra. Lui stesso, paradossalmente, ne forniva una prova. Era nato in una famiglia a cui era stato conferito da un secolo il diritto di nominare il vescovo di Luçon, una piccola città nel dipartimento della Vandea. Quando il fratello rifiutò di indossare l’abito talare, la carica gli cadde sulle spalle. La berretta cardinalizia verrà pochi anni dopo, quando il giovane vescovo, durante un viaggio a Roma, riuscirà a conquistare le simpatie del Papa. 
Come nel caso di altri due cardinali, francesi ma di origine italiana (Mazarino e Retz), la carica poteva schiudere le porte del potere. Ammesso a corte, Richelieu impiegò una buona parte della sua vita a smantellare le vecchie strutture dello Stato francese e molto tempo, negli ultimi anni, a spiegare, per il re e i suoi eredi, di quali mezzi e criteri si fosse servito per cambiare il volto istituzionale del Paese. Abolì molti privilegi, creò una funzione pubblica, spiegò al sovrano come giudicare e scegliere i suoi consiglieri, come tenere a bada le grandi corporazioni, gli ordini religiosi e i corpi intermedi della società francese. In un’epoca dominata dal conflitto tra cattolici e protestanti, Richelieu gettò le fondamenta di uno Stato più secolare, guidato soltanto dai propri interessi. 
Mentre le grandi religioni nemiche si logoravano a vicenda, Richelieu creava una fede nuova: la religione dello Stato. Un saggista cattolico di padre francese e madre inglese, Hilaire Belloc, ha scritto che il risultato di questo instancabile lavoro del cardinale fu «una nuova nazione moderna  perfettamente organizzata, sottomessa a un forte potere monarchico centrale, arrivata rapidamente all’apogeo dell’arte nelle lettere, nell’architettura, nella pittura, nella scultura e nella scienza, e formante un modello al quale il nuovo ideale del nazionalismo si sarebbe conformato». 
Su questa impresa esiste una specie di libro mastro pubblicato nel 1667, venticinque anni dopo la morte dell’autore, con il titolo Testamento politico. Richelieu vi aveva raccolto, per il re di Francia, la cronaca dei maggiori avvenimenti della propria vita e tutti gli ammaestramenti che avrebbero permesso alla dinastia di perpetuare la gloria del regno. L’editore Aragno ne ha fatto una nuova edizione e ne ha affidato la cura a uno studioso di Richelieu, Alessandro Piazzi. Per molti Paesi che occupano arbitrariamente uno spazio sulla carta geografica, questa guida alla creazione di uno Stato è ancora tragicamente attuale.

Il cardinal Richelieu patrono della Francia e della sua grandeur 23 mar 2016  Libero  MARIO BERNARDI GUARDI   
Un’iniziativa di Aragno illumina la figura del Cardinale di Richelieu, arbitro della politica francese tra il 1624 - quando entrò nel Consiglio di Luigi XIII- e il 1642, l’anno della morte (Armand-Jean du Plessis cardinal de Richelieu, Testamento politico. Massime di Stato, a cura di Alessandro Piazzi, pp. 378, euro 22). Il Testamento offre una succinta narrazione delle imprese del Re, considera i differenti ordini del Regno e le loro funzioni, si sofferma sui principi generali secondo cui lo Stato può essere ben governato. Alle Massime il compito di orientare gli aspiranti politici attraverso sentenze e consigli.
Certo, Richelieu resta una figura complessa. Incarna la «ragion di Stato» secondo la lezione del Machiavelli? Offre al tiranno consigli e servigi in nome delle proprie personali ambizioni? Intende restaurare un antico sistema di valori sconvolto da parte di gruppi sociali che non hanno rispettato né l'ordine divino né i ruoli sociali né le gerarchie politiche tradizionali? Gli interrogativi si infittiscono , se consideriamo che il Cardinale, che pure aveva distrutto la potenza degli Ugonotti e combattuto il giansenismo, strinse alleanze con le potenze protestanti per contrastare il predominio dei cattolici Asburgo. Insomma, in cima a tutto, la gloria del Re e il rango politico continentale della Francia. Un Richelieu «padre della patria» e patrono della grandeur? Si direbbe di sì.


La via al potere che passa attraverso la prudenza Storia. Il «Testamento» di Richelieu e le «Considerazioni politiche sui colpi di stato» di Gabriel Naudé
Antonella Del Prete Manifesto 24.4.2016, 18:50
Considerati dai contemporanei come discepoli di Machiavelli, l’uno per la spregiudicatezza della propria politica e l’altro per le teorie esposte nei suoi libri, il cardinale Richelieu e Gabriel Naudé sembrerebbero – a un primo sguardo – personalità segnate da un opposto destino: potentissimo primo ministro di Luigi XIII il primo, per quasi vent’anni protagonista assoluto della politica interna e estera della Francia, venne immortalato, fra l’altro, dalle pagine che Alexandre Dumas gli dedicò nei Tre Moschettieri; l’altro, invece, fu un oscuro segretario e bibliotecario di potenti, che delle fortune dei propri padroni sembrò sperimentare più le disgrazie che le glorie.
Li riportano alla attualità due preziose traduzioni curate da Alessandro Piazzi per Aragno – il Testamento politico Massime di Stato di Armand-Jean du Plessis cardinal de Richelieu (pp. 378, euro 22,00) e le Considerazioni politiche sui colpi di Stato di Gabriel Naudé (pp. 304, euro 15,00) – che dei due personaggi permettono di misurare affinità e divergenze.
La filiazione da Machiavelli (e dopo di lui, da Girolamo Cardano, Giusto Lipsio, Pierre Charron) si conferma come un importante legame tra i due testi, che mostrano come Richelieu e Naudé rientrino a pieno titolo in un movimento situato alla base della nascita dello Stato moderno: religione, morale e politica si separano e, entro certi limiti da un lato diventano autonome, dall’altro collaborano su basi diverse da quelle che avevano caratterizzato la cristianità medievale.
La virtù del politico diventa la prudenza, intesa come capacità di valutare prontamente il da farsi, cogliere le occasioni e non arretrare di fronte a iniziative che infrangono abitudini e leggi, se questo si rende necessario alla salute/salvezza dello Stato. La prudenza non ha più un nesso necessario con il bene, come voleva la filosofia scolastica, ma è una qualità operativa e strumentale, «una virtù morale e politica – scrive Naudé – che non ha altro scopo se non quello di ricercare le diverse scappatoie e i migliori e più accessibili espedienti per trattare e portare a buon fine gli affari che l’uomo si propone».
La dottrina dei colpi di Stato, tuttavia, occupa una parte ristretta di questa più ampia pratica della prudenza: tra questi, infatti, non vanno contate tutte quelle azioni che rispondono alle norme generali stabilite dai teorici della politica e dai giuristi, perché solo gli arcana imperii, ossia i segreti di Stato, possono aspirare a essere definiti tali. E un segreto non è ascrivibile a una norma generale, né è deciso da organismi composti da molti membri: «Sarebbe stato certamente curioso se Carlo IX avesse deliberato la Saint-Barhélémy con tutti i consiglieri del suo parlamento, e se Enrico III avesse deciso la morte del duca di Guisa in una seduta del suo consiglio», scrive ancora Naudé.
Nei trattati di filosofia politica bisogna dunque distinguere tre diversi tipi di oggetti: da un lato c’è la scienza della fondazione e della conservazione dello Stato, dall’altro troviamo le massime, ossia quei comportamenti che non si fondano sul diritto delle genti, naturale o civile, ma solo sulla considerazione del bene e dell’utilità pubblica. I colpi di Stato propriamente detti, infine, esulano dal diritto comune, come le massime, ma hanno in più la caratteristica di non essere una legittimazione dell’azione, bensì l’azione stessa, così rapida e inattesa che si può dire di aver visto il fulmine prima di udire il brontolio del tuono.
Le massime e i colpi di Stato quindi si distinguono non per una maggiore o minore fedeltà all’equità e alla giustizia, al bene e all’utilità pubblica, ma per la forma della loro attuazione: l’esecuzione di Louis de Luxembourg, conte di Saint-Paul sotto Luigi XI rientra nel primo gruppo, perché fu il risultato di un regolare processo; quella di Concino Concini, decisa da Luigi XIII, rientra nel secondo.
Pur potendo ascriversi allo stesso fenomeno, la diffusione del pensiero di Machiavelli, le Considérations di Naudé e il Testament di Richelieu non sono però perfettamente sovrapponibili. Il cardinale si propone infatti uno scopo diverso: vuole elargire consigli che possano applicarsi all’agire quotidiano dei sovrani, e non siano diretti esclusivamente a governare eventi per certi versi eccezionali. Non solo: il suo testo prende programmaticamente in considerazione i fondamenti e le strutture portanti dello Stato – l’esercito, le finanze, gli apparati statali, i ceti che compongono la società –, non quanto avviene in momenti particolari, ben delimitati nel tempo e nello spazio. Al centro del suo interesse sta la natura della sovranità e le condizioni del suo esercizio, non la pianificazione e la gestione dei momenti di svolta nella vita del potere.
A questa differenza, che riguarda l’oggetto del testo, se ne sovrappone un’altra di natura filosofica. L’appello a Dio e alla ragione nel Testamento non è una semplice concessione alle attese del pubblico o, peggio, un tentativo di giustificare una condotta politica che i contemporanei consideravano troppo spregiudicata. Occupandosi non di uno stato di eccezione, bensì della costituzione normale del potere sovrano, Richelieu infatti non ha bisogno di romperne la concezione tradizionale: la sovranità viene da Dio, e a Dio risponde; la ragione (non la passione, e nemmeno l’autorità) deve essere la guida dell’agire politico, perché siamo esseri razionali.
Se il cardinale non abbandona le strutture tradizionali del pensiero politico e non si avventura in una fondazione totalmente secolarizzata del potere, mostra tuttavia come queste stesse strutture possano essere modellate dall’interno per servire non più l’ideale di una christianitas in cui i sovrani si inseriscono in un complesso sistema di vassallaggio, che culmina nel predominio del potere papale, ma quello di un potere sovrano certamente non secolarizzato, ma ormai responsabile solo e unicamente nei confronti del proprio popolo. Non stupisce, per fare un esempio, che chi ha messo sotto assedio La Rochelle, per eliminare la resistenza ugonotta al re, affermi che «I Principi sono obbligati a stabilire il vero culto di Dio e a bandirne le false apparenze, che sono molto pregiudizievoli per lo Stato». È più inatteso invece il fatto che questo obbligo alla conversione sia accompagnato da un invito alla ragionevolezza, alla prudenza e alla gradualità.
L’invito spiega bene perché Richelieu, una volta piegata la ribellione ugonotta capeggiata da grandi famiglie nobiliari, non abbia avuto nulla in contrario a tollerare il culto calvinista: come se il problema autentico non fosse la difesa della vera fede, ma il rafforzamento del potere regale rispetto alle autonomie nobiliari. Non è soltanto una questione di cinico tatticismo: le scelte di Richelieu si spiegano solo tenendo a mente come la religione non sia tanto, per lui, una convinzione personale del credente, quanto un potente collante della società, e perciò rientra dunque a pieno titolo – come le finanze, gli eserciti, i ceti – tra quegli elementi che i re devono saper maneggiare saggiamente in quanto strumenti di governo.
L’universo di religioso del Testamento di Richelieu è cristiano, ma queste stesse considerazioni potrebbero essere state sottoscritte da Naudé, che usava la sua grande familiarità con i classici latini e greci per mostrare quanto la religione potesse funzionare, anzi essere indispensabile, al consolidamento del potere politico.

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