venerdì 8 gennaio 2016

Una biografia del "giacobino" Lincoln. Il parere del Nostro Toynbee, del Defelicino e di altri

Abraham Lincoln. Un dramma americano
Tiziano Bonazzi: Abraham Lincoln. Un dramma americano, il Mulino

Risvolto
Abraham Lincoln (1809-1865), con Washington e F.D. Roosevelt il più famoso presidente degli Stati Uniti, incarna il mito della frontiera e dell’uomo che si fa da sé: dalle foreste del West al Campidoglio, da contadino a presidente. Eletto nel 1860, dovette affrontare la crisi della nazione americana precipitata nella sanguinosissima guerra civile seguita alla secessione degli stati schiavisti. Nel farlo rafforzò il potere federale, modernizzò l’economia e liberò i 4.000.000 di schiavi presenti nel Sud; ma pagò i suoi successi con la vita, assassinato pochi giorni dopo la conclusione della guerra. Il libro delinea il ritratto coinvolgente di un uomo complicato, depresso cronico e quasi insondabile, intrecciandolo alla storia violenta, vitale e contraddittoria di un paese in formazione.


Tutti i segreti di "Abe l'onesto", l'uomo che rifondò l'America
Alto, sgraziato e inelegante, Abraham Lincoln era dotato di un fascino magnetico. Il sedicesimo presidente degli Stati Uniti seppe riunire un Paese diviso
Francesco Perfetti Giornale - Ven, 19/02/2016

Una biografia di Tiziano Bonazzi (Il Mulino) dedicata al più grande presidente degli Stati Uniti, che riuscì a salvare l’Unione a prezzo di una guerra terribile In quella situazione tragica la sua arma più efficace fu l’uso sapiente dell’ironia 
I PREGIUDIZI DI LINCOLN 

CANCELLÒ LA SCHIAVITÙ MA NON CREDEVA ALLA PARITÀ DI DIRITTI TRA BIANCHI E NERI 
5 gen 2016  Corriere della Sera di Paolo Mieli 
Accettazione delle proprie incertezze e uso sapiente dell’ironia furono le caratteristiche principali del più grande presidente della storia degli Stati Uniti. È la tesi di uno straordinario libro di Tiziano Bonazzi, Abraham Lincoln. Un dramma americano, che sta per essere pubblicato dal Mulino. Bonazzi non si occupa esclusivamente della Guerra civile (1861-1865) alla quale, in tempi più o meno recenti, sono già state dedicate pagine molto interessanti da Arnaldo Testi in La formazione degli Stati Uniti, Robert H. Wiebe in La democrazia americana (entrambi per Il Mulino), Raimondo Luraghi in Storia della guerra civile americana (Bur) ed Eric Foner in Storia della libertà americana (Donzelli). Ma il testo di riferimento per Bonazzi sembra essere, piuttosto, un classico del teologo luterano Reinhold Niebuhr, L’ironia della storia americana, pubblicato in Italia da Bompiani. In che senso? 
Per Lincoln, scrive Bonazzi, fu importantissimo il senso dell’ironia «che gli consentiva di gestire la lacerante contraddizione tra la libertà che amava con passione e l’impossibilità di credere in essa». Con «l’ironia, le battute, il comico capovolgimento delle situazioni, Lincoln alleggeriva le tensioni sue e degli altri e nascondeva il suo vero pensiero nella tradizione del furbo popolano di buon senso, ma forse si faceva anche beffe di se stesso». Il suo humour «era un codice con cui velatamente trasmetteva la sua impotenza e si difendeva da essa». All’utopia opponeva l’incertezza, «non come titubanza, ma come modo per aggirare l’inconoscibilità delle cose attraverso il lento approfondimento delle questioni e l’attesa, una tattica che lo portava a volar basso e però gli consentiva di sfuggire sia all’entusiasmo, sia alla disperazione».
Non fu facile la situazione in cui Lincoln si trovò quando giunse al potere: alle elezioni presidenziali del 1860 vinse con 1.866.452 voti e i suoi avversari ne ebbero, frazionati, il 20 per cento in più: Douglas 1.376.957, Breckinridge 849.781, Bell 588.879. Negli Stati del Sud ottenne solo il 2 per cento. E fu subito la secessione del South Carolina, a cui si sarebbero aggiunti, a gennaio del 1861, Georgia, Alabama, Florida, Mississippi, Louisiana e Texas, che scelsero come presidente alternativo Jefferson Davis. La guerra che ne seguì fu assai complessa: il Nord subì numerosi rovesci militari, la stessa Washington fu più volte in pericolo, il Sud — a dispetto della disparità di abitanti: nove milioni e mezzo (di cui quattro milioni di schiavi) contro i ventidue « settentrionali » — mostrò un’inaspettata vitalità. I morti ammontarono a una cifra spaventosa, oltre seicentomila (circa la metà per dissenteria). Francia e Gran Bretagna attesero la fine delle ostilità prima di schierarsi. E in Europa non pochi considerarono quella dei sudisti come una guerra di liberazione meritevole di una qualche simpatia.
Solo un uomo come Lincoln poteva far fronte a una situazione così complicata. Nato nel 1809 in una fattoria del Kentucky da una famiglia che sette anni dopo si sarebbe trasferita nell’Indiana, visse in condizioni disagiate fino all’età di trent’anni. Sua madre morì giovane per il latte infetto da mucche ammalate di brucellosi. Il quinquennio che Lincoln trascorse poi a New Salem, dove era andato a vivere nel 1831, si risolse, secondo Bonazzi, in una «pirotecnica serie di tentativi di uscire dal mondo contadino che non amava e di affermarsi in mestieri borghesi». Fu un vivace barzellettiere, capace di affrontare da solo una gang di bulli, ma anche incline alla depressione. 
Era irriverente nei confronti della religione a dispetto dell’appartenenza dei suoi genitori a una Chiesa battista, la Little Pigeon Church, che non riconosceva alcuna autorità tranne la lettera della Bibbia: secondo molti testimoni, da ragazzo scrisse un’operetta ferocemente anticristiana, che successivamente i suoi amici si affrettarono a distruggere per evitare che lo intralciasse nella carriera politica. Per molto tempo lavorò come giornaliero nei campi, ma tentò anche la via del commercio, mettendo su un emporio che presto fallì, lasciandolo indebitato a lungo (lui però restituì i soldi fino all’ultimo dollaro, guadagnandosi così per il resto della vita il nomignolo «Honest Abe»). 
Ebbe un grande amore a New Salem per Ann Rutledge, figlia del fondatore della cittadina, che però morì quasi subito, nel 1835, probabilmente di tifo. Poi nel 1839 Lincoln conobbe l’«energica e ambiziosa» Mary Todd, figlia di un ricco piantatore di Lexington nel Kentucky, con la quale si fidanzò, tentennò, ruppe il fidanzamento, ma poi, tornato alla carica, la sposò nel 1842. 
Sono gli anni in cui inizia la sua vita politica, che ha una tappa fondamentale nel biennio da deputato whig (1846-1848). In quegli anni gli Stati Uniti combattono una dura guerra contro il Messico (alla quale Lincoln si dichiara contrario) che si conclude con la loro vittoria. Reid Mitchell in La guerra civile americana (Il Mulino) spiega alla perfezione come e perché l’allora presidente, il democratico James K. Polk, in quel momento scelse la via del compromesso con la Gran Bretagna per le questioni di confine con il Canada e della guerra, invece, con il Messico. La guerra con il Messico, in sostanza, allargava l’area degli Stati schiavisti. Henry David Thoreau scrisse La disobbedienza civile (che avrebbe avuto grande influenza sul pensiero di Gandhi e di Martin Luther King) contro il conflitto armato con il Messico, e altri nordisti dichiararono che quella di Polk era, sotto un manto di dissimulazione, «una misura a favore della schiavitù». 
Fu questa anche l’opinione di Lincoln nel corso della sua breve stagione politica della seconda metà degli anni Quaranta. Terminata la quale tornò a Springfield, nello Stato dell’Illinois, dove aprì uno studio di avvocato. Ma, raccontò il suo partner e biografo William Henry Herndon, ancorché le cose andassero bene, soffriva di crisi depressive e gli erano di sollievo solo i figli che portava al lavoro con sé: «Quei viziati dei bambini», riferì Herndon, «buttavano per aria l’ufficio, spargevano i libri dappertutto, rompevano le penne, rovesciavano l’inchiostro e facevano pipì liberamente sul pavimento». Senza che lui reagisse in alcun modo. Anzi assisteva a questo caravanserraglio con un sorriso divertito.
È in questa fase che si fa strada il tema dell’abolizione della schiavitù. Bonazzi precisa che «il lavoro schiavo, ritenuto meno efficiente di Garrison, abbandonata dai fratelli Tappan di New York, i quali non tolleravano che in essa anche le donne avessero assunto ruoli dirigenti.
 Gli argomenti a favore della conservazione della schiavitù equiparavano la condizione dei neri a quella degli operai del Nord. A tutto vantaggio dei primi. Secondo il senatore Henry Hammond del South Carolina, la differenza consisteva nel fatto che «i nostri schiavi sono assunti a vita, non c’è fame per loro, non ci sono accattoni, non c’è disoccupazione e neppure superlavoro». Lo stesso non si poteva dire per i bianchi assunti nelle aziende del Nord. Ciò spiegava, secondo Hammond, perché gli schiavi molto spesso non apparissero affatto insofferenti alla loro condizione. Fu proprio Lincoln una volta a domandarsi pubblicamente come fosse possibile che un gruppo di schiavi, che aveva visto incatenati assieme «come pesci infilzati su uno spiedo», potessero apparire come «la gente più allegra e felice del mondo». Abraham Lincoln (al centro) con Allan Pinkerton (a sinistra), fondatore della nota agenzia investigativa, e il generale John A. McClernand. La foto venne scattata il 3 ottobre 1862 da Alexander Gardner nella zona del torrente Antietam (Maryland), teatro di una dura battaglia il 17 settembre 
Al 1837 data la prima dichiarazione di Lincoln sul tema: «La schiavitù si basa su ingiustizia e cattiva politica; ma le dottrine abolizioniste tendono ad accrescere piuttosto che a farne diminuire i mali». Negli ultimi mesi in cui è deputato ritira un progetto di legge per abolire la schiavitù nel distretto di Columbia. E fino al termine degli anni Quaranta le sue dichiarazioni pubbliche contro la schiavitù sono davvero assai poche. In privato, sottolinea Bonazzi, il suo atteggiamento ha «tratti contraddittori». Siamo a conoscenza del fatto che «raccontava storielle razziste» e che lui e la moglie «amavano molto i minstrels show, gli sketch in cui attori bianchi con il volto dipinto di nero ironizzavano sulla vita, il dialetto e la musica dei neri, rappresentandoli sempre come pigri, superstiziosi e stupidi» (va ricordato però che forme analoghe di pubblico dileggio colpirono all’epoca gli irlandesi fuggiti dalla carestia in patria, i quali, una volta immigrati nel nuovo mondo, venivano presentati come straccioni, scimmie, buoni a nulla). 
In ogni caso Lincoln fino agli anni della Guerra civile distinse «con estrema accuratezza il diritto dei neri alla libertà da quello di essere parificati ai bianchi». Il futuro presidente dissentiva dai propositi di chi prospettava per i neri, una volta liberati, l’acquisizione degli stessi diritti dei bianchi. Sosteneva le tesi dell’American Colonization Society, che aveva studiato un progetto per mandare gli ex schiavi, una volta liberati, in Africa. Cosa alla quale i neri d’America erano decisamente contrari. Ne parlò esplicitamente nel discorso di Peoria (1854) — che segnò il suo ritorno in politica — là dove ribadì che non intendeva minimamente attaccare la schiavitù negli Stati dove essa già esisteva e si proponeva di restituire i neri liberati alla loro terra d’origine. 
Ribadiva in ogni circostanza di considerare gli afroamericani «esseri inferiori». Nel corso del conflitto ricevette alla Casa Bianca un gruppo di abolizionisti neri, ai quali fece un discorso assai scorretto persino per quei tempi: «Non fosse per la presenza della vostra razza, fra noi non avremmo la guerra, anche se a molti da entrambe le parti non importa nulla di voi». E, in una lettera al «Washington Chronicle», scrisse: «Il mio principale obiettivo in questo scontro è salvare l’Unione e non salvare o distruggere la schiavitù: se potessi salvare l’Unione senza liberare alcuno schiavo, lo farei». Pur se poi aggiungeva che si sarebbe comportato allo stesso modo anche se, sempre per salvare l’Unione, avesse dovuto liberarli tutti o solo in parte. Si ha la prova, scrive Bonazzi «di un suo razzismo o al massimo di un paternalismo pervaso di razzismo che la lotta allo schiavismo non annullò e che allungò la sua ombra ben al di là della Guerra civile». Forse è per questo che gli Stati Uniti hanno poi impiegato oltre un secolo prima di riuscire ad affrontare con decisione la questione razziale. 
Grazie anche all’ironia e al sapiente uso dell’incertezza, Lincoln riuscì comunque a far compiere al suo Paese un’autentica rivoluzione. Peccato che un colpo di pistola lo tolse di mezzo quel 14 aprile del 1865, quando le sue doti sarebbero state ancor più necessarie. 

Esce in libreria il 14 gennaio il saggio di Tiziano Bonazzi Abraham Lincoln (Il Mulino, pagine 306, 22), che ricostruisce la vita e le scelte del presidente che vinse la guerra di Secessione e abolì la schiavitù dei neri. Tra i libri sul conflitto tra Nord e Sud degli Usa spicca l’ampia Storia della guerra civile americana di Raimondo Luraghi (Bur), mentre Il Mulino ripropone, sempre il 14 gennaio, il lavoro di sintesi La guerra civile americana di Reid Mitchell (traduzione di Luisa Pece). Da segnalare anche: Arnaldo Testi, La formazione degli Stati Uniti (Il Mulino, 2003); Robert Wiebe, La democrazia americana (traduzione di Giulia Guazzaloca, Il Mulino, 2009); Eric Foner, Storia della libertà americana (traduzione di Annalisa Merlino, Donzelli, 2000); Reinhold Niebuhr, L’ironia della storia americana (a cura di Alessandro Aresu, Bompiani, 2012).

Sensibili e «presidenziali» eccedenze SAGGI. «Abraham Lincoln. Un dramma americano», di Tiziano Bonazzi per Il Mulino
Maurizio Ricciardi Manifesto 25.3.2016, 22:04
Nel 1867 un rifugiato tedesco, un comunista, in un libro che avrebbe avuto un’importanza capitale, commentava quanto avvenuto pochi anni prima negli Stati Uniti, scrivendo che «Il lavoro in pelle bianca non può emanciparsi in un paese, dove è marchiato a fuoco quando è in pelle nera». Karl Marx aveva seguito con attenzione quanto avveniva a un oceano di distanza, convincendosi che l’abolizione della schiavitù fosse solo il primo segno dell’emancipazione di tutto il lavoro. Non è andata così. I rapporti all’interno degli Stati uniti erano troppo consolidati per essere modificati da un solo evento. Lo erano al punto da non poter essere spiegati nemmeno dalla biografia di un solo uomo per quanto rappresentativo. Questa convinzione sembra essere alla base di Abraham Lincoln. Un dramma americano (Bologna, Il Mulino, 2016, euro 22) scritto da Tiziano Bonazzi che, attraverso e grazie a Lincoln, ricostruisce il lungo passaggio storico che investe l’architettura di quella parte della Grande Europa che è ancora la società statunitense dell’Ottocento.
Il volume dunque è molto di più della biografia del XVI presidente, perché restituisce la storia costituzionale degli Stati Uniti in un momento di trasformazione che investe seriamente i tre pilastri costituzionali della società statunitense: la religione, il lavoro e la razza. Merito del volume è quello di seguire con uguale precisione due opposte eccedenze: quella della vicenda individuale di un presidente e quella delle vicende storiche rispetto alla biografia di un uomo che ha un ruolo tutt’altro che secondario nel forgiarle.
Lincoln vive nel passaggio dall’America dei pionieri a quella del lavoro industriale, della politica dei partiti e del nazionalismo. Egli incarna questa transizione anche dal punto di vista personale. Lincoln vive in primo luogo nel mutamento di una frontiera che oltre a essere un persistente mito fondativo, coltivato e costantemente riaffermato, assume una dimensione finanziaria, diviene uno spazio di guerra e luogo di incubazione di una guerra civile. Essa, infatti, diviene un capitolo importante del bilancio pubblico per il denaro garantito dall’assegnazione delle nuove terre. La frontiera meridionale è all’origine del nazionalismo statunitense che grazie alla guerra con il Messico che perde il 40% del suo territorio. La frontiera non è più solo lo spazio aperto dove possono scaricarsi tutte le tensioni sociali e politiche, ma è essa stessa un luogo di tensione che deve essere governato. Non è un caso che tra le cause scatenanti della guerra civile vi sia la pretesa di espandere la schiavitù anche nei nuovi Stati di frontiera, limitando il lavoro libero e modificando i rapporti di potere tra gli Stati settentrionali e quelli meridionali dell’Unione. Le proporzioni mitologiche assunte in seguito da Lincoln sono in gran parte legate alla sua capacità di confermare l’unità dello Stato all’interno di questi movimenti potenzialmente centripeti. Egli ci riesce nonostante abbia un rapporto eccentrico con la religione che Bonazzi individua come il più importante fattore costituzionale della vita individuale e collettiva.
Come aveva dimostrato in un volume precedente, negli Stati Uniti la religione è il nocciolo indiscutibile della costituzione sociale e politica. Essa stabilisce l’orizzonte di senso anche per un individuo come Lincoln che più incline a credere alla dottrina della necessità che è una prima forma di sociologia dell’azione sociale, perché afferma la priorità di catene di cause sottratte al potere degli individui. La sua freddezza nei confronti della religione lo obbliga a una sorta di confessione pubblica di fede per impedire che l’accusa di ateismo nuoccia alla sua campagna elettorale. Vi è dunque anche un’eccedenza della biografia rispetto alla storia collettiva che se è funzionale alla creazione del mito, porta anche alla neutralizzazione di Lincoln grazie alla sua canonizzazione. Subito dopo il suo assassinio viene definito il presidente redentore, riconoscendo in questo modo tanto la grandezza del suo ufficio quanto la necessità del suo sacrificio in omaggio alla drammaturgia cristiana della storia, che lui in qualche modo finisce per condividere. Cercando di darsi ragione del macello della guerra civile gli pare plausibile non solo che Dio non si sia schierato, ma che egli possa volere che essa «continui finché affondino tutte le ricchezze accumulate in duecentocinquant’anni di costrizione al lavoro e finché ogni goccia di sangue sparsa con la frusta sia pagata da un’altra pagata con la spada». Durante la guerra civile Lincoln dimostra di essere un politico capace tanto di assumersi il rischio della decisione quanto di cambiare le sue convinzioni.
Abolisce l’habeas corpus, decreta lo stato di emergenza nei territori disputati e li governa tramite governatori da lui nominati, introduce la tassazione progressiva. Allo stesso tempo modifica le sue convinzioni sui neri al punto da abolire quella «componente strutturale della «storia atlantica» e, con essa, della nostra modernità» che è la schiavitù. Essa non è dunque un prezzo occasionale pagato sulla via della libertà, ma il modo stesso in cui questa libertà è stata materialmente praticata. Come molti suoi contemporanei Lincoln vive all’interno di una sorta di schizofrenia antropologica che separa l’istituzione della schiavitù dagli schiavi che materialmente la subiscono. «Lincoln era certo dell’inferiorità dei neri» e solo la guerra civile modifica almeno in parte questa convinzione. Non è estranea a questo cambiamento di prospettiva l’adesione di Lincoln all’ideologia del free labor che aveva cominciato a diffondersi negli anni Trenta. Denunciare la «schiavitù del salariato», come fanno gli operai nelle prime vertenze sindacali, rivela la vicinanza tra la condizione degli schiavi e quella dei lavoratori. Rischia di rivelare che anche condizione degli operai bianchi è una costrizione. Vi è la profonda convinzione che il lavoro libero sia l’origine della ricchezza, perché nella libertà del lavoro c’è la possibilità che esso possa costantemente trasformarsi in capitale. L’indipedenza individuale diviene così il presupposto per la continua ricostruzione delle condizioni per l’accumulazione del capitale. Con la morte di Lincoln sia il free labour sia l’emancipazione del lavoro il pelle nera. Nell’elaborazione del mito emerge chiaramente che il Redentore assunto come riferimento è «il Lincoln del 1860, non quello del 1863, il Redeemer della patria bianca, non il Redeemer dei neri». L’abolizione della schiavitù scivola sullo sfondo delle cause della guerra di secessione, fino a quando nel 1896 la Corte suprema dichiara la costituzionalità della segregazione razziale.

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