mercoledì 24 febbraio 2016

"Aspetta, aspetta". "Non ho tempo, non ho tempo". Funerali pop per Umberto Eco


Il professore che amava la vita


Umberto Eco. Ieri a Milano i funerali. Grande folla al commiato laico. Le parole misurate ma commosse del nipote e degli amici

Laura Matteucci Manifesto 24.2.2016, 0:15 
«Ho fatto tesoro della tua intelligenza. Grazie per le storie che mi hai raccontato, le parole crociate fatte insieme, i libri che mi hai regalato, la musica che mi hai fatto ascoltare, i viaggi intrapresi, noi due da soli. Averti come nonno mi ha riempito d’orgoglio». Semplici, precise, toccanti, le parole del nipote quindicenne Emanuele, cui era indirizzata la lettera «Caro nipotino studia a memoria» apparsa un paio d’anni fa sull’Espresso, riempiono il Cortile della Rocchetta del Castello Sforzesco di Milano, strappano l’applauso più intenso, e dell’«uomo che sapeva tutto», semiologo, scrittore, filosofo, lasciano intravedere una ricca intimità. Arrivano quasi a fine cerimonia — laica, sobria, celere, proprio come la voleva — per salutare Umberto Eco nel Castello che fu dei Visconti e degli Sforza e che lui per buona parte della vita ha visto dalle finestre di casa. 
Un addio di popolo per il «professore», il «maestro», l’«amico», morto venerdì scorso, una coda lunghissima di migliaia di persone di tutte le età — molti giovani, e tanti commossi — in fila ordinata per entrare nel Cortile. Dentro, i parenti, gli amici più stretti, e qualche personalità seduti accanto alle corone di fiori del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, di Renzi (ieri assente, mentre sarà a Milano oggi per l’inaugurazione della settimana della moda) di Laura Boldrini e dell’Alma Mater, l’Universita di Bologna dove Eco ha insegnato per 41 anni. Sul feretro solo fiori di campo, e vicino la toga da professore. Alcuni minuti di musica barocca, pochi e concisi gli interventi, introdotti e chiusi dal suo amico e curatore editoriale Mario Andreose. 
Tra i primi ad entrare, l’amico Roberto Benigni: «Quando arrivava lui diventava tutto speciale, c’era un luccichio, era un vento che faceva bene al mondo: persone come lui servono più in terra che in cielo». Passa Elisabetta Sgarbi, che con Eco ha condiviso l’ultima avventura editoriale, la creazione de «La nave di Teseo», programmaticamente ideata per contrapporsi alla neonata Mondazzoli: «Voleva una casa editrice — racconta — fondata da lui, ma non su di lui. Avrebbe potuto pubblicare ovunque, ha scelto con grande coraggio ed entusiasmo di fondare una casa indipendente, e questo lo fa un uomo assoluto e completo». 
Molti gli amici presenti, da Inge Feltrinelli a Tullio Pericoli, da Gad Lerner a Gianni Vattimo, da Vittorio Gregotti al fisarmonicista Gianni Coscia all’ex allievo al Dams Stefano Bartezzaghi a Gino Strada, confuso nella folla. Il sindaco di Milano Giuliano Pisapia, che ammette sia «difficile trovare le parole di fronte ad un maestro della parola», ne ricorda «la capacità di unire più mondi, di parlare con tutti», e «la passione per la vita». 
Non è l’unico sindaco presente: poiché Eco «appartiene» a diverse città, ci sono anche i sindaci di Alessandria, dov’è nato, di Torino, di San Leo nel riminese e di Monte Cerignone, il suo buen retiro marchigiano. Da Bologna il rettore dell’Alma Mater Francesco Ubertini, e Ivano Dionigi, rettore prima di lui. 
In rappresentanza del governo, parlano i ministri Stefania Giannini, Istruzione, e Dario Franceschini, Beni culturali. Interviene anche l’ex parlamentare, giornalista e scrittore Furio Colombo, che Eco lo conobbe — entrambi ventenni — all’Università di Torino. E ne ricorda un viaggio compiuto insieme in Cina: «È all’Università di Pechino che ha avuto il più clamoroso dei suoi successi: il campus fuori dall’aula — racconta — era gremito di una folla giovane, ma nella sala in cui Eco tenne la sua conferenza erano tutte teste bianche. Non avevano permesso o rischiato che i giovani lo ascoltassero». Mentre parla, Colombo mostra la copia del «New York Times» che l’altro giorno ha dedicato una pagina ad Eco e alla sua scomparsa. «La bellezza di questo articolo è la sorpresa e la meraviglia per il grande professore che ha dedicato la sua vita all’università e allo stesso tempo ha venduto milioni di libri». Come dice Moni Ovadia, «era anche un grande raccontatore di storielle umoristiche, barzellette e aneddoti. Aveva questa enorme libertà di essere aperto ad ogni forma del comunicare». Per chiudere: «Non rivedremo, ne’ io ne’ le nuove generazioni, un altro Umberto Eco».

Addio Eco, ci hai riempiti di orgoglio 

Ieri al Castello Sforzesco di Milano il funerale laico dello scrittore, aperto e chiuso in musica Sobrietà, leggerezza e commozione, quando ha preso la parola il nipote quindicenne 

Alberto Mattioli Busiarda
Doveva essere un addio laico, sobrio, musicale, non troppo triste né troppo lungo. Missione compiuta. Umberto Eco si è congedato dal mondo, o forse è il mondo che si è congedato da Eco, con le modalità previste, alle 15 di ieri nel cortile della Rocchetta del Castello Sforzesco di Milano. Breve anche l’ultimo viaggio: abitava dall’altra parte della strada.
Funerale civile, senza alcun simbolo religioso. Corazzieri e corona dalla Presidenza della Repubblica, corone anche da Renzi, da Boldrini e da Hollande, gonfaloni a lutto e sindaci delle sue città, Alessandria, Torino, Milano, dei paesini delle vacanze e dell’Alma Mater, la sua università, quella di Bologna. La bara è semplicissima, di legno chiaro sommerso dai fiori; accanto, toga e tocco accademico. Sotto il portico, la vedova, i figli Stefano e Carlotta e gli amici illustri e non, Furio Colombo, Gianni Vattimo, Moni Ovadia, Lella Costa, Angelo Guglielmi, Carlo De Benedetti, i rettori e gli editori, gli autori e i professori. Nel cortile, la gente che è riuscita a entrare, a occhio mille o millecinquecento persone, e altrettante rimaste fuori. C’è un po’ di tutto: l’editoria italiana quasi al completo, studenti attuali e stagionati, ex fondatori del Dams, semiologi della prima ora adesso con i capelli bianchi, molta sinistra salottiera milanese, i vertici Rai, sia Maggioni sia Campo Dall’Orto, e i soliti presenzialisti da funerale mediatico che però non hanno capito che le ostensioni nazionalpopolari tipo Pavarotti o padre Pio sono un’altra cosa. Sulla testa di qualcuno spunta un cartello: «Grazie prof».
Clavicembalo e viola
Curioso: Bologna ha mandato due vice, la vicesindaca e la vicepresidentessa della Regione, e tre rettori, quello in carica e due ex. Roberto Benigni sbuca fotografatissimo dopo aver fatto la coda come tutti, non parla alla cerimonia e poco anche fuori: «Non aveva niente di speciale se non che quando arrivava lui era tutto speciale, c’era un luccichio, arrivava un vento che faceva bene al mondo. Peccato che non ci sia più. Nel cielo ce n’è tante di belle persone, qua ne rimangono sempre poche».
Si inizia e si finisce in musica, clavicembalo e viola da gamba: prima Diego Ortiz, poi Marin Marais, variazioni sul tema della Follia di Spagna che Eco amava e suonava sul suo flautino dolce. Il maestro di cerimonie è Mario Andreose, il suo editor da sempre, perfettamente echiano per ironia e understatement: «Ha scritto qualche libro». Il sindaco Giuliano Pisapia racconta della scelta di Eco di vivere a Milano e del perché questa scelta inorgoglisca la città. I due ministri presenti sono Dario Franceschini dei Beni culturali e Stefania Giannini dell’Istruzione, parlano entrambi restando sull’istituzionale, «aveva una biblioteca dentro di sé» (lui), «abbiamo perso un Maestro, non la sua lezione» (lei).
«Anche se non credi»
Furio Colombo ricorda le 41 lauree honoris causa, Gianni Cervetti il bibliofilo, Elisabetta Sgarbi il nocchiero della Nave di Teseo, «fondata da lui ma non su di lui, per i suoi figli e per i suoi nipoti. Una nuova casa editrice significa regalare un futuro». Nuova, ma creata per fedeltà all’amata Bompiani: «Aveva la speranza di ricongiungere il suo catalogo», chissà.
Sul podio mancano ancora la leggerezza e la commozione. Alla prima provvedono in tre. L’amico alessandrino di una vita, Gianni Coscia, legge le note di copertina che il de cuius gli scrisse per un suo disco di fisarmonica jazz, e sono quegli ossimori apparentemente impossibili nei quali la coltissima ironia del Professore faceva faville. L’ex rettore di Bologna, Ivano Dionigi, ricorda che Eco sosteneva che i classici allungano la vita, quindi «adesso che sei diventato un classico anche tu, allungherai le nostre». Ovadia racconta una storiella ebraica e poi dà all’amico una benedizione atea, «che Dio ti benedica e ti protegga anche se non ci credi», perché Egli «sopporta i credenti ma predilige gli atei». Applausi e risate.
La commozione arriva quando è il turno di Emanuele, il nipote di quindici anni che poco prima aveva attraversato la folla con una rosa in mano e gli occhi lucidi. «Caro nonno - comincia -, mi hanno spesso chiesto cosa si prova ad avere un nonno così, e non sapevo mai cosa rispondere». Ricorda i viaggi, le musiche e i libri condivisi e conclude: «Finalmente ho capito: averti come nonno mi ha riempito d’orgoglio».
Andreose può essere soddisfatto: un’ora e dieci in tutto. La bara parte fra gli applausi. In serata, all’Ansaldo c’è la vernice della mostra su Luca Ronconi. Forse ha ragione Benigni: il meglio dell’Italia comincia a non stare più su questa terra. 

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