Arrivati a questo punto, malgrado tante illuminazioni parziali, ci
accorgiamo di non conoscere quasi nulla di Madame Merle e di Gilbert
Osmond. Abbiamo detto che entrambi appartengono al regno del Male. Ma
che fanno di così malvagio? Osmond sposa Isabel per la sua eredità:
Madame Merle prepara questo matrimonio, per assicurare alla figlia,
avuta da Osmond, una sorte sicura. Qualsiasi tribunale manderebbe
assolti sia Madame Merle sia Osmond. Le loro sono azioni mediocri, o
volgari, non malvagie. Solo che Henry James, grande teologo moderno,
aveva un’idea del Male diversa da quella di tutti i tribunali del mondo.
Il Male, per lui, non si esprime soltanto, o sopratutto, in azioni
malvagie: è un’essenza, un clima, un’atmosfera; qualcosa di indicibile,
che nessun atto umano può realizzare completamente. Se vogliamo
guardarlo in volto, dobbiamo contemplare i due complici, che
Arte o vita? I conflitti di Henry James
A cent’anni dalla scomparsa, la lezione ancora attuale del narratore che mette in guardia dalla ciarlataneria di successo L’autore pose al centro dei suoi racconti il rapporto (pericoloso) tra scrittura e affetti Vecchio stile La severità monacale della sua dottrina può sembrare antiquata, ma coglie un tema eterno
In un eterogeneo libro di satira letteraria, pubblicato nel 1915 col titolo Boon, The Mind of the Race, H.G. Wells fece una caricatura di Henry James, ritratto come un superbo ma penoso ippopotamo deciso a raccogliere a ogni costo, anche a costo della sua dignità, un pisello che ha sospinto in un angolo della sua tana.
L’immagine, aspramente grottesca quanto esilarante, illumina tuttavia il procedimento dell’arte di James, autore di grandi racconti non meno che di grandi romanzi, inadatti o preclusi per le loro descrizioni sottili, minute e tortuose al lettore grossolano o frettoloso. Benché riconosca l’artistica singolarità della mente di James, che alla fine arriva pur sempre a raccogliere quel pisello, Wells non lascia intendere abbastanza che l’elaborata costruzione narrativa del collega conduce sempre a una rivelazione o a un segreto finale che non deluderà il suo paziente lettore.
James — di cui ricorre tra pochi giorni il centenario della morte, avvenuta a Londra il 28 febbraio 1916 — non solo scrisse saggi sull’arte del romanzo, ma pose al centro di una certa parte della sua opera narrativa, e in particolare in una serie di racconti, la figura dell’artista, il problema del talento letterario, il rapporto fra la scrittura e la vita, la differenza fra il successo e il valore.
Sulla base di questo dato un illustre critico americano, Francis Otto Matthiessen, l’autore di Rinascimento americano e di Le responsabilità del critico, selezionò e pubblicò nel 1944 una raccolta di racconti di James, tradotta anche in italiano da Einaudi nel 2005, col titolo Racconti di artisti, in un elegante volume dei «Millenni».
Uno dei più celebri ed esemplari fra questi racconti, che si possono definire anche «ritratti», viene adesso ritradotto da Adelphi ( La lezione del Maestro, a cura di Maurizio Ascari, pp. 120, 12, in uscita a marzo). Scritto e pubblicato nel 1888, il racconto mette in questione il tema della perfezione artistica nella sua ambigua relazione da un lato con l’affermazione e con la fama, dall’altro con la vita privata e, più precisamente, con il matrimonio e le sue conseguenze.
Invitato nella residenza di campagna del generale Fancourt, nei pressi di Londra, un giovane scrittore di belle speranze, Paul Overt, incontra il suo idolo letterario, il famoso romanziere Henry St George. Nello stesso tempo conosce la giovane figlia del generale, Marian, ammiratrice sia dell’uno sia dell’altro. Overt si innamora della ragazza, che sembra corrispondere al suo interessamento, tanto che il giovane confida i propri sentimenti a St George.
Questi è sposato e accompagnato dalla moglie, che in passato gli ha fatto bruciare un libro autobiografico che non le piaceva. St George mette in guardia Overt dal conflitto fra le esigenze della vita matrimoniale e quella devozione assoluta che l’arte, dea gelosa e spietata, richiede. Non solo: sorprendentemente confessa il suo reale e completo fallimento come artista a dispetto della celebrità universale di cui gode. Egli è assolutamente consapevole di aver tradito la Musa, cedendo alle lusinghe di vantaggi materiali e mondani: casa, cavalli, ricchezza, popolarità. Ha avuto tutto — e mancato l’essenziale.
Sollecitato da St George a coltivare esclusivamente il suo genio di scrittore, Overt si dedica per due anni al lavoro ritirandosi dapprima in una località sul bordo del lago di Ginevra e poi in Italia. Al ritorno in Inghilterra apprende che St. George, rimasto nel frattempo vedovo, sta per sposare Marian. Sentendosi vittima di una tremenda beffa, Overt rinfaccia a St George il suo comportamento, ma St George si difende ribadendo che egli non è un vero scrittore e che, con i suoi ammonimenti, ha solo salvato il destino artistico di Overt. Anzi, St George dichiara di aver smesso di scrivere e di volersi limitare, per il futuro, a leggere e ammirare le opere del giovane talento.
Overt teme in realtà che St George possa pubblicare un altro libro, nel qual caso egli si sentirebbe doppiamente burlato da quel demone irridente. Non succede. Invece, quando uscirà il nuovo libro di Overt, i St George lo troveranno splendido...
La severità monacale della dottrina artistica di James può sembrare oggi un tantino oldfashioned e, da un punto di vista della psicologia e della sociologia della letteratura, forse anche lo è. Ma ciò non toglie minimamente che egli abbia còlto un interno ed eterno conflitto dell’artista e, insieme, prospettato una situazione che, oggi più che mai in passato, rischia di divorare quel tanto di arte di cui siamo ancora capaci: la paccottiglia acclamata, la grandezza simulata, la ciarlataneria di successo.
Henry James, innocenza americana e astuzie del Vecchio Mondo
Moriva cento anni fa a Londra: maestro del romanzo “aperto”, problematico, volutamente ambiguo e sospeso
Paolo Bertinetti Stampa 25 2 2016
Il 3 marzo, nella Old Church di Chelsea, si svolgerà un raffinato incontro letterario per celebrare il centenario del funerale di Henry James, che si svolse in quella chiesa il 3 marzo 1916, pochi giorni dopo la morte, avvenuta il 28 febbraio. Nell’ultimo periodo della sua vita James aveva preso casa lì vicino, in Cheyne Walk, al numero 21 di quelle Carlyle Mansions tanto amate dagli scrittori (al 19 abitò T. S. Eliot, al 27 Somerset Maugham, al 24 Ian Fleming). E nel 1915, lui, americano, indignato per il non intervento in guerra degli Stati Uniti, aveva preso la cittadinanza britannica.
James era nato a New York nel 1843; ma in seguito la famiglia si era trasferita a Boston, a due passi da Harvard, dove lui si era iscritto a Giurisprudenza. Lasciò però presto gli studi giuridici per dedicarsi a quelli letterari e alla scrittura: i suoi primi racconti e saggi furono pubblicati nel 1868. L’anno dopo partì per l’Inghilterra, ma tornò subito a Boston alla notizia della morte della cugina Minny, di cui era innamorato, e che diventò la Milly di Le ali della colomba. Fu il grande amore della sua vita. L’unico.
Due anni dopo di nuovo lasciò l’America per l’Europa; e poi si stabilì, definitivamente, in Inghilterra, il luogo ideale dove realizzare la sua missione letteraria. Il romanzo inglese, pensava, era affetto da un presuntuoso provincialismo, ingabbiato in schemi paralizzanti e stantii, consegnato a una scrittura realistica piatta e superficiale. Aveva bisogno di un Flaubert che lo scuotesse dalla sua stanca ripetitività. Il Flaubert di lingua inglese sarebbe stato lui.
La scelta dell’Europa
Per quanto riguarda la forma, il contributo di James fu decisivo. E il suo romanzo «aperto», problematico, volutamente ambiguo e sospeso, fu affidato a una scrittura fluviale, come d’altronde era la sua conversazione, che lo aveva reso famoso nei circoli letterari di Londra. Questo aspetto verbale di una prosa così complessamente «scritta» fu poi accentuato dal fatto che negli ultimi anni James dettava a un’ammiratrice che gli si era proposta come segretaria le pagine dei suoi romanzi (il memoir della «dattilografa» Theodora Bosanquet, Henry James al lavoro, è stato appena pubblicato da Castelvecchi, pp. 62, € 9,50).
Il capolavoro di James, Ritratto di signora, uscì nel 1881 sull’Atlantic Monthly, con cadenza mensile dunque, come era avvenuto per molti di quei romanzi inglesi che così poco apprezzava. E di fatto anche lui utilizzò quindi il «trucco» dei romanzieri vittoriani per agganciare il lettore, lasciandolo di mese in mese in attesa delle risposte alle domande poste dagli sviluppi della vicenda. Nella prima parte del romanzo la domanda decisiva è «Chi conquisterà Isabel, la deliziosa protagonista»? E dopo il suo disastroso matrimonio, nel finale la domanda cruciale sarà invece «Isabel lascerà suo marito?». A questa domanda, però, il libro non risponde. Deciderà il lettore.
Sempre attuale
Isabel è l’incarnazione di quella che un po’ forzatamente è stata definita la chiave della narrativa di James: la contrapposizione tra l’innocenza americana e l’esperienza europea. I giovani del Nuovo Mondo, genuini, solari, «innocenti», devono fare i conti con le astuzie, la spregiudicatezza, il cinismo, e cioè con l’esperienza, del Vecchio Mondo. Non soltanto i giovani, anche i meno giovani, come il protagonista di Gli ambasciatori, altro capolavoro di James, pubblicato in questi giorni nella nuova traduzione di Marcella Bonsanti (Elliot, pp. 568, € 22). Una lettura piuttosto impegnativa per le dimensioni, 568 pagine, ma che non deluderà il lettore paziente.
E se la lunghezza è un deterrente, per apprezzare il genio di James basterà allora rivolgersi ai due capolavori «brevi». Uno è Il giro di vite, splendido racconto di fantasmi. L’altro è Il carteggio Aspern: ovvero, i maneggi di uno studioso che si crede disposto a tutto per recuperare preziosi documenti. Ma poiché «tutto» significa il matrimonio con la detentrice del carteggio, lo studioso rinuncia (non era disposto a tutto).
Il cerimoniere dell’incontro nella Old Church sarà Philip Horne, il general editor dei trenta volumi dell’opera completa di James in pubblicazione presso la Cambridge University Press. Sostiene Horne che James, il Maestro, è un autore tuttora attualissimo, uno scrittore per i nostri giorni. Ha ragione. Forse di lui, come per Shakespeare, si può addirittura dire che è «nostro contemporaneo».
Cent’anni di James, cantore dei duemondi I suoi scritti riproposti comemetafora sociale, gli inediti, i convegni ad Harvard e in Cina Il mondo festeggia il centenario dello scrittore dell’anima, tra denaro Usa e lignaggio europeo 27 feb 2016 Libero BARBARATOMASINO
«Odio la semplicità americana», confidò un giorno Henry James all'amata nipote Peggy. Il «virus» europeo, come lo definiva lui, l’aveva contagiato sin dal suo primo viaggionelVecchioContinente: la storia, l’eleganza, la complessità europea, le ardite bellezze di Parigi, Venezia, Firenze, l’impalcatura composita della società vittoriana; e dall’altro lato il pragmatismo borghese e la rigidità formale priva di radici profonde della sua America. Ma nonostante l’amore incondizionato per la vecchia Europa - che lo porterà a trascorrereparecchianniprima aParigi e poi a Londra, alle CarlyleMansions tanto amate dagli scrittori, fino al giorno della sua morte - James è stato senza dubbio il narratore «dei due mondi», capace di raffigurare con lamedesima intensità sia l'aristocrazia del denaro di Washington Square che lanobiltà di lignaggio e di intelletto della cara Inghilterra.
Proprio quest'ultima è al centro del racconto La lezione del Maestro, riproposto dopo anni di oblio da Adelphi ( pp. 120, euro 12) inoccasione del centenario della morte (15 aprile 1843 - 28 febbraio 1916). Paul Overt è un giovane scrittore di talento che si sta facendo strada nel mondodoratodegli intellettualid'Oltremanica e l’incontro con il Maestro, il famoso romanziere Henry St. George, segnerà un punto di svolta nella sua vita e nella sua carriera. Al centro dell'intreccio c’è - come spesso accade in James - una figura di donna volitiva, bella, indipendente, di un'intelligenza superiore, che qui risponde al nome di Marian Fancourt. Entrambi si invaghiscono di lei, ma St. George è sposato edilaniato dal compromesso (impossibile) tra arte e vita, sospeso tra l'ispirazione della sua più grande e definitiva opera e la seduzione del benessere, della ricchezza, della mondanità. Overt è affascinato da quella figura titanica e meschina al contempo, il grandemaître à penser che ha gettato la spugna, incapace di assecondare il fuoco sacro dell'arte e dedito solo a tenere alto il proprio prestigio pubblicando opereminori che allettano il grande pubblico. L'unicomodo che ha il giovane scrittore perpreservare la propria arte è rinunciare alle gioie terrenedelmatrimonio, dei soldi, dei figli, e dedicarsi esclusivamentealla suamusa. CosìPaulaccetta il consiglio e si rifugia in Italia, lontano dall'oggetto del suo desiderio, l'incantevole e appassionataMarian. Alsuoritorno però scopre che ilMaestro, ormai vedovo, sta per sposare la giovane e si sente tradito; ma St. George si difende dichiarandosi finito, la sua arte è morta e non gli resta altro piacere che leggere gli scritti altrui, soprattutto quelli partoriti dalla mente «incontaminata» diOvert.
Il dissidio tra arte e vita è un tema caro allo scrittore americano, fermamente convinto che sia preciso compito del romanziere quello di «interpretare» ilmondo, di fornirgli sostanza attraverso il processo creativo che analizza e definisce la realtà circostante.
Nessun commento:
Posta un commento