sabato 6 febbraio 2016

Citati, Rigoni e altri sul centenario di Henry James


L’ARIA DEL MALE E LADY GIUNCO 

DALL’AMORE PER LA VITA ALL’ABISSO COSÌ HENRY JAMES UCCIDE I SOGNI DI ISABEL 

6 feb 2016  Corriere della Sera di Pietro Citati 
Ottocento Lo scrittore americano provava per la protagonista di «Ritratto di signora» quello che Tolstoj provava per la sua Anna Karenina. Su di lei costruì un romanzo che la lascia in balia di personaggi feroci. E ci mostra lo spegnersi d’ogni speranza 
Come scrive Graham Greene, Ritratto di signora di Henry James (1880) «è la più grande e ricca cattedrale che il moderno lettore di romanzi possa conoscere». Poche decine di pagine dopo l’inizio, giunge dagli Stati Uniti, da Albany, la protagonista, Isabel Archer: James la ama con una dedizione e venerazione pari soltanto a quella che Tolstoj nutre per Anna Karenina. Isabel è preceduta da una specie di aura mitica: i personaggi maschili la vorrebbero sposare: i personaggi femminili la invidiano; noi, lettori, la
commentiamo per tutto il resto del libro, come se dalla conoscenza di lei dipendesse la nostra vita. Ma la parola ultima su di lei non viene mai detta, né dai suoi adoratori né da Henry James. 
James non fa che ritrarla. Ecco quattro ritratti. Il ritratto col cagnolino: «Isabel si era seduta, ed aveva posato il cagnolino; le bianche mani, in grembo, si chiudevano sul nero della veste; il capo eretto, l’occhio luminoso; e la flessuosa figura si volgeva ora qua ora là, obbedendo al vivace stimolo delle sue impressioni ». Isabel-giunco: «Era ir raggiungi bilm ente snella, tangibilmente leggera, manifestamente altera; per distinguerla dalle altre due sorelle, tutti l’avevano sempre chiamata “il giunco”. I suoi capelli, scuri fino ad esser neri, erano stati oggetto d’invidia per molte donne; i suoi luminosi occhi grigi, forse un po’ troppo fissi nei momenti difficili, avevano un’intensa carica di affabilità». 
Isabel a Gardencourt: «Isabel si avviò verso l’altro capo
della galleria di Gardencourt, e si fermò là, mostrando a Ralph Touchett le spalle incantevoli, l’agile e snella figura, la lunghezza del collo bianco mentre chinava la testa, e la densità delle trecce scure. Sostò davanti a un quadretto, per esaminarlo; e c’era qualcosa di così giovane e libero nei suoi movimenti, che la sua flessibilità sembrò schernire Ralph». Ecco, finalmente, Isabel come lady: «Era vestita di velluto nero; appariva altera e splendida, e tuttavia come radiosamente soave! Aveva perduto qualcosa della sua pronta pazienza; aveva l’aria di saper attendere. Incorniciata dall’arco dorato della porta, fece al nostro giovane l’effetto di un ritratto di nobile dama». 
Tutti i personaggi sono incantati dall’ardore vitale di Isabel: dall’amore incontenibile che nutre per il mondo: dalla curiosità, dal desiderio, dalla brama di conoscenza e di esperienze: dal dono di imbeversi nelle anime e nelle cose; dalla mobile sinuosità di una mente, che sembra non conoscere limiti. Desidera essere libera: felice ogni istante,
abolendo la sofferenza. Nessuno ha l’immaginazione più pronta nell’inventare fantasie e teorie e sogni eroici, ai quali talvolta nulla di reale corrisponde. Se rifiuta la proposta di matrimonio di Lord Warburton, che pure le piace moltissimo, è perché le sembra di limitare la sua esplorazione della vita. Chiede sempre troppo: non può rinunciare a niente; o, per meglio dire, questo ardore appassionato la spinge a non accettare niente, a volere sempre di più di quello che gli uomini e il mondo le offrono. Come ogni eroina romantica, rifiuta tutti i calcoli, le recite, le previsioni: addirittura la forma, sebbene la sua grazia naturale la faccia diventare maestra di ogni eleganza. 

Isabel possiede un dono che né Emma Bovary, con i suoi occhi neri e azzurri, né Anna Karenina, con i suoi occhi grigi, conoscono. È pura: la purezza radiosa della vergine Diana e di Don Chisciotte: da questa purezza discende la ricerca di perfezione, l’orgoglio puritano, che a tratti la fanno diventare dura, adamantina e crudele, sebbene non smarrisca mai la sua musica giovanile; e discende anche una qualità, che parrebbe contraddittoria. Proprio lei, che sembra così ansiosa di ogni esperienza, protesta che non vuole bere dalla «coppa dell’esperienza»: come Henry James, che conosceva tutta la vita, eppure non si lasciava toccare e avvelenare dall’esperienza, conservando la sua mente eterea. Isabel non vuole conoscere i misteri, l’ombra e le tenebre. Mentre gli altri personaggi sono persone limitate e reali, non appartiene al regno della realtà. Isabel è l’anima. Come l’anima, è vasta, illimitata, senza confini. Come l’anima, non sceglie, non agisce. Come l’anima, irradia luce; e non c’è personaggio del Ritratto che non s’imbeva, o non cerchi di imbeversi, della sua luce. Quello che fa, non importa: Isabel è, sovranamente; e Ralph, il più perspicace dei suoi ammiratori, la vede «librata in alto, nell’azzurro, ... a navigare nella viva luce, sopra la testa degli uomini». 
Tutto quello che circonda Isabel, specie nella prima parte del libro, è indicibilmente soave, come forse in nessun altro romanzo di James. Che dolcezza e profondità nell’amore di Lord Warburton per Isabel. «“Non mi slancio facilmente, ma se sono toccato, è per la vita”, disse Lord Warburton con la voce più gentile, tenera e simpatica che Isabel avesse mai udito, e guardandola con occhi carichi della luce di una passione che si era purificata dai lati più bassi dell’emozione: calore, violenza, irragionevolezza, e che ardeva tranquilla come un lume in un lago senza vento». E che tenerezza nell’amore di Ralph Touchett: quest’uomo intelligentissimo e spiritosissimo, che rinuncia alla vita, e «sa gustare la dolcezza soltanto guardandola»; dono unico che Henry James condivideva più di ogni altro uomo. 
Qualche volta, Isabel ha paura: sopratutto ha paura di sé stessa; e ricordiamo quello che Lord Warburton dice, quasi di sfuggita: «Isabel è terribile». Perché terribile? In lei c’è una zona d’ombra: un territorio oscuro, di cui lei stessa, a momenti, si accorge. In questa zona d’ombra si insinua il Male, con i volti insidiosi e malvagi di Madame Merle e di Gilbert Osmond. 
Quando Isabel parte per l’Italia, Ritratto di signora si trasforma. Se era stato una narrazione orizzontale, condotta da una mano senza nervi, diventa un complicato romanzo a intreccio, che affonda nel mistero e nel segreto. James non amava la parola: intreccio. E certo non c’è ricordo, qui, delle grandi macchine dickensiane, condotte per mezzo di inverosimili colpi di scena, capovolgimenti della trama, agnizioni prodigiose, irrorate da un sangue allegro, alcolico e coloratissimo. L’intreccio romanzesco di James è più sfumato. Ma anche lui ha bisogno di queste belle macchine narrative. Esse permettono all’analisi psicologica di intervenire con più intensità; e al Male di avanzarsi sulla scena del libro, di dominarlo, di tingerlo interamente con i colori più oscuri. Se Madame Merle e Gilbert Osmond usano i loro metodi da ragno, anche James tesse la ragnatela dell’intreccio per rivelare la presenza del Male nel mondo. 
A prima vista, sembra difficile supporre che la bionda, liscia e rotonda Madame Merle, della quale Isabel si innamora con candore giovanile, appartenga al regno del Male. È una grande dama: suona perfettamente il piano: ha amici ricchi ed aristocratici in ogni paese; possiede il dono del tatto, la prima delle virtù mondane. Essendo una dama, ha le qualità che Isabel, l’anima, non possiede: la discrezione, l’esperienza, la freddezza di carattere, il rispetto della società, la saggezza, l’esercizio quotidiano della volontà. Isabel la trova squisita: sovranamente squisita. Noi, che siamo messi sull’avviso da James, la troviamo meno deliziosa: certe piccole malignità, invidie, falsità, errori di recitazione, ambizioni fallite non appartengono a una figura del Cortegiano moderno. Finché Madame Merle si rivela. La sua vera passione è quella per i misteri: il suo regno è l’ombra; la sua arte quella di tessere i destini umani, guidando l’intreccio del romanzo, come se fosse lei, non James, il vero narratore. Ama talmente i misteri, da affondare completamente nell’ombra. Alla fine scompare per sempre, negli Stati Uniti. 
Più prossimo al Male ci sembra Gilbert Osmond, l’antico amante di Madame Merle, che Isabel avrà la sventura di sposare. Appena lo vediamo, ci attrae e ci ripugna. Come sono fini e sottili i suoi lineamenti — simili ai ritratti dei fiorentini del Rinascimento, che gli esiliati americani contemplano agli Uffizi. Fine è il suo viso: fine la voce, che vibra come il vetro: fini i polsi, le mani, le caviglie: sottile l’organismo; e supremamente sottile (e quasi crudele) ci appare quando copia, con acquerelli e pennelli sottilissimi, l’incisione di una moneta antica. Dietro le spalle quest’uomo troppo fine ha immense ambizioni: «Ha sempre avuto l’aria di discendere dagli dèi». Le ambizioni sono fallite, e si sono nascoste in una rassegnazione più amara che felice. Così egli si è adattato al minimo, diventando un uomo di gusto, uno dei tanti esteti che tra il 1870 e il 1880 percorrono l’Italia. Scopre pitture antiche: obbedisce alla pura divinità del gusto; detesta la volgarità; senonché, come tanti esteti, invece di fuggire il mondo, vive esclusivamente per il mondo, dal quale aspetta una patente di nobiltà. Si nutre di premeditazione e di calcolo, anche quando recita la sua parte di uomo brillante, lieto e pieno Parabola La donna venuta dall’America all’inizio contempla il mondo dall’alto della sua felicità Poi, nella tetra residenza romana, giace a terra con le ali spezzate. Un’ultima fiammata, quindi la fine di fascino. Freddo, arido, cinico, altero, pieno di disprezzo, controlla e domina sé stesso; e sopratutto, come uno spietato tiranno, vuole possedere e dominare completamente gli altri — specie le donne innamorate di lui.
Arrivati a questo punto, malgrado tante illuminazioni parziali, ci accorgiamo di non conoscere quasi nulla di Madame Merle e di Gilbert Osmond. Abbiamo detto che entrambi appartengono al regno del Male. Ma che fanno di così malvagio? Osmond sposa Isabel per la sua eredità: Madame Merle prepara questo matrimonio, per assicurare alla figlia, avuta da Osmond, una sorte sicura. Qualsiasi tribunale manderebbe assolti sia Madame Merle sia Osmond. Le loro sono azioni mediocri, o volgari, non malvagie. Solo che Henry James, grande teologo moderno, aveva un’idea del Male diversa da quella di tutti i tribunali del mondo. Il Male, per lui, non si esprime soltanto, o sopratutto, in azioni malvagie: è un’essenza, un clima, un’atmosfera; qualcosa di indicibile, che nessun atto umano può realizzare completamente. Se vogliamo guardarlo in volto, dobbiamo contemplare i due complici, che

Arte o vita? I conflitti di Henry James 
A cent’anni dalla scomparsa, la lezione ancora attuale del narratore che mette in guardia dalla ciarlataneria di successo L’autore pose al centro dei suoi racconti il rapporto (pericoloso) tra scrittura e affetti Vecchio stile La severità monacale della sua dottrina può sembrare antiquata, ma coglie un tema eterno 
18 feb 2016  Corriere della Sera di Mario Andrea Rigoni
In un eterogeneo libro di satira letteraria, pubblicato nel 1915 col titolo Boon, The Mind of the Race, H.G. Wells fece una caricatura di Henry James, ritratto come un superbo ma penoso ippopotamo deciso a raccogliere a ogni costo, anche a costo della sua dignità, un pisello che ha sospinto in un angolo della sua tana.
L’immagine, aspramente grottesca quanto esilarante, illumina tuttavia il procedimento dell’arte di James, autore di grandi racconti non meno che di grandi romanzi, inadatti o preclusi per le loro descrizioni sottili, minute e tortuose al lettore grossolano o frettoloso. Benché riconosca l’artistica singolarità della mente di James, che alla fine arriva pur sempre a raccogliere quel pisello, Wells non lascia intendere abbastanza che l’elaborata costruzione narrativa del collega conduce sempre a una rivelazione o a un segreto finale che non deluderà il suo paziente lettore.
James — di cui ricorre tra pochi giorni il centenario della morte, avvenuta a Londra il 28 febbraio 1916 — non solo scrisse saggi sull’arte del romanzo, ma pose al centro di una certa parte della sua opera narrativa, e in particolare in una serie di racconti, la figura dell’artista, il problema del talento letterario, il rapporto fra la scrittura e la vita, la differenza fra il successo e il valore.
Sulla base di questo dato un illustre critico americano, Francis Otto Matthiessen, l’autore di Rinascimento americano e di Le responsabilità del critico, selezionò e pubblicò nel 1944 una raccolta di racconti di James, tradotta anche in italiano da Einaudi nel 2005, col titolo Racconti di artisti, in un elegante volume dei «Millenni».
Uno dei più celebri ed esemplari fra questi racconti, che si possono definire anche «ritratti», viene adesso ritradotto da Adelphi ( La lezione del Maestro, a cura di Maurizio Ascari, pp. 120, 12, in uscita a marzo). Scritto e pubblicato nel 1888, il racconto mette in questione il tema della perfezione artistica nella sua ambigua relazione da un lato con l’affermazione e con la fama, dall’altro con la vita privata e, più precisamente, con il matrimonio e le sue conseguenze.
Invitato nella residenza di campagna del generale Fancourt, nei pressi di Londra, un giovane scrittore di belle speranze, Paul Overt, incontra il suo idolo letterario, il famoso romanziere Henry St George. Nello stesso tempo conosce la giovane figlia del generale, Marian, ammiratrice sia dell’uno sia dell’altro. Overt si innamora della ragazza, che sembra corrispondere al suo interessamento, tanto che il giovane confida i propri sentimenti a St George.
Questi è sposato e accompagnato dalla moglie, che in passato gli ha fatto bruciare un libro autobiografico che non le piaceva. St George mette in guardia Overt dal conflitto fra le esigenze della vita matrimoniale e quella devozione assoluta che l’arte, dea gelosa e spietata, richiede. Non solo: sorprendentemente confessa il suo reale e completo fallimento come artista a dispetto della celebrità universale di cui gode. Egli è assolutamente consapevole di aver tradito la Musa, cedendo alle lusinghe di vantaggi materiali e mondani: casa, cavalli, ricchezza, popolarità. Ha avuto tutto — e mancato l’essenziale.
Sollecitato da St George a coltivare esclusivamente il suo genio di scrittore, Overt si dedica per due anni al lavoro ritirandosi dapprima in una località sul bordo del lago di Ginevra e poi in Italia. Al ritorno in Inghilterra apprende che St. George, rimasto nel frattempo vedovo, sta per sposare Marian. Sentendosi vittima di una tremenda beffa, Overt rinfaccia a St George il suo comportamento, ma St George si difende ribadendo che egli non è un vero scrittore e che, con i suoi ammonimenti, ha solo salvato il destino artistico di Overt. Anzi, St George dichiara di aver smesso di scrivere e di volersi limitare, per il futuro, a leggere e ammirare le opere del giovane talento.
Overt teme in realtà che St George possa pubblicare un altro libro, nel qual caso egli si sentirebbe doppiamente burlato da quel demone irridente. Non succede. Invece, quando uscirà il nuovo libro di Overt, i St George lo troveranno splendido...
La severità monacale della dottrina artistica di James può sembrare oggi un tantino oldfashioned e, da un punto di vista della psicologia e della sociologia della letteratura, forse anche lo è. Ma ciò non toglie minimamente che egli abbia còlto un interno ed eterno conflitto dell’artista e, insieme, prospettato una situazione che, oggi più che mai in passato, rischia di divorare quel tanto di arte di cui siamo ancora capaci: la paccottiglia acclamata, la grandezza simulata, la ciarlataneria di successo.

Henry James, innocenza americana e astuzie del Vecchio Mondo 

Moriva cento anni fa a Londra: maestro del romanzo “aperto”, problematico, volutamente ambiguo e sospeso 

Paolo Bertinetti Stampa 25 2 2016
Il 3 marzo, nella Old Church di Chelsea, si svolgerà un raffinato incontro letterario per celebrare il centenario del funerale di Henry James, che si svolse in quella chiesa il 3 marzo 1916, pochi giorni dopo la morte, avvenuta il 28 febbraio. Nell’ultimo periodo della sua vita James aveva preso casa lì vicino, in Cheyne Walk, al numero 21 di quelle Carlyle Mansions tanto amate dagli scrittori (al 19 abitò T. S. Eliot, al 27 Somerset Maugham, al 24 Ian Fleming). E nel 1915, lui, americano, indignato per il non intervento in guerra degli Stati Uniti, aveva preso la cittadinanza britannica. 
James era nato a New York nel 1843; ma in seguito la famiglia si era trasferita a Boston, a due passi da Harvard, dove lui si era iscritto a Giurisprudenza. Lasciò però presto gli studi giuridici per dedicarsi a quelli letterari e alla scrittura: i suoi primi racconti e saggi furono pubblicati nel 1868. L’anno dopo partì per l’Inghilterra, ma tornò subito a Boston alla notizia della morte della cugina Minny, di cui era innamorato, e che diventò la Milly di Le ali della colomba. Fu il grande amore della sua vita. L’unico.
Due anni dopo di nuovo lasciò l’America per l’Europa; e poi si stabilì, definitivamente, in Inghilterra, il luogo ideale dove realizzare la sua missione letteraria. Il romanzo inglese, pensava, era affetto da un presuntuoso provincialismo, ingabbiato in schemi paralizzanti e stantii, consegnato a una scrittura realistica piatta e superficiale. Aveva bisogno di un Flaubert che lo scuotesse dalla sua stanca ripetitività. Il Flaubert di lingua inglese sarebbe stato lui.
La scelta dell’Europa
Per quanto riguarda la forma, il contributo di James fu decisivo. E il suo romanzo «aperto», problematico, volutamente ambiguo e sospeso, fu affidato a una scrittura fluviale, come d’altronde era la sua conversazione, che lo aveva reso famoso nei circoli letterari di Londra. Questo aspetto verbale di una prosa così complessamente «scritta» fu poi accentuato dal fatto che negli ultimi anni James dettava a un’ammiratrice che gli si era proposta come segretaria le pagine dei suoi romanzi (il memoir della «dattilografa» Theodora Bosanquet, Henry James al lavoro, è stato appena pubblicato da Castelvecchi, pp. 62, € 9,50).
Il capolavoro di James, Ritratto di signora, uscì nel 1881 sull’Atlantic Monthly, con cadenza mensile dunque, come era avvenuto per molti di quei romanzi inglesi che così poco apprezzava. E di fatto anche lui utilizzò quindi il «trucco» dei romanzieri vittoriani per agganciare il lettore, lasciandolo di mese in mese in attesa delle risposte alle domande poste dagli sviluppi della vicenda. Nella prima parte del romanzo la domanda decisiva è «Chi conquisterà Isabel, la deliziosa protagonista»? E dopo il suo disastroso matrimonio, nel finale la domanda cruciale sarà invece «Isabel lascerà suo marito?». A questa domanda, però, il libro non risponde. Deciderà il lettore.
Sempre attuale
Isabel è l’incarnazione di quella che un po’ forzatamente è stata definita la chiave della narrativa di James: la contrapposizione tra l’innocenza americana e l’esperienza europea. I giovani del Nuovo Mondo, genuini, solari, «innocenti», devono fare i conti con le astuzie, la spregiudicatezza, il cinismo, e cioè con l’esperienza, del Vecchio Mondo. Non soltanto i giovani, anche i meno giovani, come il protagonista di Gli ambasciatori, altro capolavoro di James, pubblicato in questi giorni nella nuova traduzione di Marcella Bonsanti (Elliot, pp. 568, € 22). Una lettura piuttosto impegnativa per le dimensioni, 568 pagine, ma che non deluderà il lettore paziente. 
E se la lunghezza è un deterrente, per apprezzare il genio di James basterà allora rivolgersi ai due capolavori «brevi». Uno è Il giro di vite, splendido racconto di fantasmi. L’altro è Il carteggio Aspern: ovvero, i maneggi di uno studioso che si crede disposto a tutto per recuperare preziosi documenti. Ma poiché «tutto» significa il matrimonio con la detentrice del carteggio, lo studioso rinuncia (non era disposto a tutto). 
Il cerimoniere dell’incontro nella Old Church sarà Philip Horne, il general editor dei trenta volumi dell’opera completa di James in pubblicazione presso la Cambridge University Press. Sostiene Horne che James, il Maestro, è un autore tuttora attualissimo, uno scrittore per i nostri giorni. Ha ragione. Forse di lui, come per Shakespeare, si può addirittura dire che è «nostro contemporaneo».

Cent’anni di James, cantore dei duemondi I suoi scritti riproposti comemetafora sociale, gli inediti, i convegni ad Harvard e in Cina Il mondo festeggia il centenario dello scrittore dell’anima, tra denaro Usa e lignaggio europeo 27 feb 2016  Libero BARBARATOMASINO
«Odio la semplicità americana», confidò un giorno Henry James all'amata nipote Peggy.  Il «virus» europeo, come lo definiva lui, l’aveva contagiato sin dal suo primo viaggionelVecchioContinente: la storia, l’eleganza, la complessità europea, le ardite bellezze di Parigi, Venezia, Firenze, l’impalcatura composita della società vittoriana; e dall’altro lato il pragmatismo borghese e la rigidità formale priva di radici profonde della sua America. Ma nonostante l’amore incondizionato per la vecchia Europa - che lo porterà a trascorrereparecchianniprima aParigi e poi a Londra, alle CarlyleMansions tanto amate dagli scrittori, fino al giorno della sua morte - James è stato senza dubbio il narratore «dei due mondi», capace di raffigurare con lamedesima intensità sia l'aristocrazia del denaro di Washington Square che lanobiltà di lignaggio e di intelletto della cara Inghilterra.
Proprio quest'ultima è al centro del racconto La lezione del Maestro, riproposto dopo anni di oblio da Adelphi ( pp. 120, euro 12) inoccasione del centenario della morte (15 aprile 1843 - 28 febbraio 1916). Paul Overt è un giovane scrittore di talento che si sta facendo strada nel mondodoratodegli intellettualid'Oltremanica e l’incontro con il Maestro, il famoso romanziere Henry St. George, segnerà un punto di svolta nella sua vita e nella sua carriera. Al centro dell'intreccio c’è - come spesso accade in James - una figura di donna volitiva, bella, indipendente, di un'intelligenza superiore, che qui risponde al nome di Marian Fancourt. Entrambi si invaghiscono di lei, ma St. George è sposato edilaniato dal compromesso (impossibile) tra arte e vita, sospeso tra l'ispirazione della sua più grande e definitiva opera e la seduzione del benessere, della ricchezza, della mondanità. Overt è affascinato da quella figura titanica e meschina al contempo, il grandemaître à penser che ha gettato la spugna, incapace di assecondare il fuoco sacro dell'arte e dedito solo a tenere alto il proprio prestigio pubblicando opereminori che allettano il grande pubblico. L'unicomodo che ha il giovane scrittore perpreservare la propria arte è rinunciare alle gioie terrenedelmatrimonio, dei soldi, dei figli, e dedicarsi esclusivamentealla suamusa. CosìPaulaccetta il consiglio e si rifugia in Italia, lontano dall'oggetto del suo desiderio, l'incantevole e appassionataMarian. Alsuoritorno però scopre che ilMaestro, ormai vedovo, sta per sposare la giovane e si sente tradito; ma St. George si difende dichiarandosi finito, la sua arte è morta e non gli resta altro piacere che leggere gli scritti altrui, soprattutto quelli partoriti dalla mente «incontaminata» diOvert.
Il dissidio tra arte e vita è un tema caro allo scrittore americano, fermamente convinto che sia preciso compito del romanziere quello di «interpretare» ilmondo, di fornirgli sostanza attraverso il processo creativo che analizza e definisce la realtà circostante.

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