sabato 6 febbraio 2016
L'incontro di Bergoglio e Kyril a Cuba
L’abbraccio di Cuba
Dopo secoli di
equivoci, slanci e fallimenti, tra sogni “unionisti” e spinte
“ecumeniche”, spunta anche la suggestione di un’ostensione della Sindone
a Mosca Dallo scisma del 1054 alle prove di dialogo quell’incontro porta le chiese nel futuro
di Alberto Melloni Repubblica 6.2.16
LE
IMPLICAZIONI e le conseguenze dell’incontro fra il vescovo di Roma,
papa Francesco, e Kyril, patriarca di Mosca e di tutte le Russie, sono
incalcolabili.
Primo frutto del concilio panortodosso convocato a
Creta per giugno, l’evento ingigantisce ulteriormente la figura politica
del Papa: ristabilendo l’armonia con la Cina e mostrando di avere una
sua visione della Russia, la Chiesa ha spostato il baricentro del mondo.
Guardato
con sufficienza dai dialogatori di mestiere, Bergoglio sta mostrando
come il papato, che è stato parte o causa di tutte le divisioni
cristiane, ha la “possibilità reale” (avrebbe detto il teologo Karl
Rahner) di svolgere un ministero di unità reale, non se impone o camuffa
il proprio potere, ma se è più “cristiano”: come i cristiani d’Oriente
con cui ha una comunione profonda, come i cristiani della riforma con
cui a novembre celebrerà Lutero come dono di Dio alle chiese. L’incontro
di Cuba, tuttavia, è anche il futuro di un lungo passato, in cui Roma e
Mosca si sono odiate, cercate, parlate. Una storia di cicatrici come
quella del 1438-1439, quando ricattando Costantinopoli sotto la minaccia
turca l’Occidente ottenne una sottomissione oltraggiosa ed effimera,
sempre rifiutata da Mosca.
Una storia di utopie come quella di
Soloviov, il teologo che a fine ’800 sperava in un’alleanza fra la
teocrazia perfetta del papa e il perfetto assolutismo dello zar contro
la modernità. Una storia di guerre come quelle combattute là dove
polacchi e ucraini si sono illusi di avere pace creando una cintura
cattolica attorno alla Russia.
Il Novecento moltiplica equivoci,
slanci e fallimenti. Dal concilio di Mosca (1917), che restaura il
patriarcato, alla decisione di Stalin (1945) di far eleggere un nuovo
patriarca, dopo 20 anni di sede vacante, i cattolici non capiscono quasi
nulla di Russia. Sulle prime s’illudono che il leninismo serva a domare
un’ortodossia indocile e restituirla al papa (il “segreto di Fatima”
sulla “conversione” della Russia nel 1917 viene letto così...). Poi
mandano Michel d’Herbigny (un gesuita che sarà poi sconfessato) a
consacrare vescovi clandestini, spazzati via dalle purghe staliniane.
Nel
dopoguerra il sogno “unionista” (il “ritorno” delle chiese sotto
l’autorità di Roma) non si spegne, mentre il soffio “ecumenico”
(costruire l’unità come comunione di diversità riconciliate) è ancora
condannata a Roma.
Così, mentre i poeti cantano un cristianesimo
che respira con i “due polmoni”, d’Oriente e d’Occidente, i due polmoni
diventano due “blocchi”: l’anticomunismo di Pio XII lo porta ad
accettare la sovrapposizione tra il confine confessionale che divide i
cristiani (con l’eccezione polacca) e il confine ideologico tra
capitalismo e socialismo. Così che un’ortodossia martire viene confusa
come una propaggine della propaganda sovietica. Sarà col concilio
Vaticano II che le cose mutano. Il nunzio ad Ankara, monsignor Lardone,
negozia con Kruscev la venuta di due delegati della chiesa russa al
concilio nel 1962, che assisteranno il 7 dicembre 1965 alla solenne
levata delle scomuniche che avevano aperto lo scisma tra cattolici ed
ortodossi nel 1054. Col concilio e il post- concilio appaiono sulla
scena uomini nuovi. A Roma il cardinale Willebrands, il negoziatore
dottrinale, e il cardinale Casaroli, il diplomatico paziente, che
lasciava che Wojtyla gli rimproverasse di credere all’immortalità del
comunismo.
A Leningrado e Mosca il metropolita Nikodim — di cui
l’attuale patriarca Kyril è stato collaboratore — non vedrà i frutti
della sua semina: muore d’infarto, dopo l’udienza con Giovanni Paolo I
(1978). Dopo il 1989 rinasce la “sintonia” tra Cremlino e Patriarcato,
entrambi riservati davanti a un papa “polacco” e guidati da esigenze
diverse: è questa divergenza che impedisce, per esempio, l’incontro tra
Benedetto XVI e Alessio I, che sei anni fa sembrava si potesse fare
all’abbazia di Pannonalma e che invece non si fece. Proseguì invece il
dialogo teologico fra le due chiese.
Da quel dialogo sono emersi i
volti e i ruoli che hanno reso possibile l’annuncio di ieri. Kyril,
allora capo del dipartimento della relazioni esterne, è ora patriarca.
Il metropolita Hilarion, i cui conflitti teologici con Costantinopoli
hanno pesato sul dialogo ortodosso- cattolico, lo ha rimpiazzato.
Accanto
a Francesco e al cardinale Parolin c’è il cardinale svizzero Kurt Koch e
un giovane teologo come Hyacinthe Destivelle, che conosce e ama la
Russia; e a Roma è venuto come ambasciatore presso la Santa Sede Avdeev,
autorevole ex ministro del governo russo. Al Cremlino è andato Romano
Prodi a spiegare chi è Francesco: ed è stato ascoltato. A Cuba si
raccoglie il lavoro loro e di altri. Quello della comunità di Bose di
Enzo Bianchi, che da anni insegna che l’oriente lo si capisce se lo si
ama, mai viceversa. Quello dell’arcidiocesi di Firenze del cardinal
Betori che nel 2012, mandò a Mosca una Madonna di Giotto della diocesi
e, grazie all’impegno di Giorgio Napolitano e Dmitri Medvedev e Matteo
Renzi, portò a Firenze, in Battistero, tre icone di cui una di Rublev,
esposte per la prima volta dal 1917 alla venerazione dei fedeli
cattolici e ortodossi. Era il segno che nel silenzio che serve
all’adorazione delle icone non c’è solo un’usanza rimasta comune alle
due chiese, ma la riprova di una comunione. Allora espressa da opere
d’arte di infinita intensità spirituale: ma che domani potrebbe
esprimersi in icone ancora più significative. Come la Sindone che
potrebbe andare a Mosca come gesto di amore ad una chiesa che non la
guarda come “reperto”, ma come madre di tutte le icone, segno della
visibilità della carne di Cristo, su cui si fonda l’unità della chiesa.
Che è il contenuto più semplice e più alto di quello che da venerdì
prossimo chiameremo “l’abbraccio di Cuba”.
di Cesare Martinetti La Stampa 6.2.16
È difficile non vedere la regia di Vladimir Putin dietro l’annunciato incontro tra Papa Francesco e il Patriarca Kirill.
Se
infatti il gesto del pontefice romano non è sospettabile di ingerenze
temporali esterne, al contrario è impensabile che il Patriarca di tutte
le Russie si sia deciso allo storico passo senza il consenso del
Cremlino.
E probabilmente molto di più. Che poi il tutto avvenga a Cuba, aggiunge altra valenza simbolica e politica non trascurabile.
Il
passo di riconciliazione tra le chiese di Roma e Mosca, atteso almeno
dalla caduta dell’Urss, avrebbe dovuto logicamente compiersi, se non
nella capitale russa, in qualche monastero dell’Est, a metà strada, dove
davvero si sarebbe potuta allestire anche scenograficamente la
riconciliazione di un doppio strappo storico: prima lo scisma, poi i
settant’anni di ateismo comunista. Questo avrebbe voluto dire
incontrarsi da qualche parte in terra d’Ucraina, dove pure avvenne -
secondo storia e mito, così coltivato da Putin - intorno all’anno Mille
il battesimo della «Santa» Russia. Ma l’evocazione stessa dell’Ucraina
fa capire che l’ipotesi era insostenibile. Dunque Cuba, attraverso la
mediazione - vera? posticcia? - di Raul Castro, luogo che da improbabile
diventa invece probabile perché il pontefice non è più un polacco
intagliato nel marmo dell’anticomunismo, ma un pastore venuto da quella
parte del mondo e che ad essa continuamente si rivolge.
Lo sfondo
occasionale di questo incontro, come ieri è stato detto a Roma e Mosca
dai due portavoce, è la difesa dei cristiani nella crisi mediorientale,
in Siria e Iraq, oggi il primo punto dell’agenda internazionale. In
Siria la Russia è un attore pienamente in campo: papa Francesco trova
dunque un alleato non neutrale. È pur vero che la missione della Chiesa è
universale e come tale in grado di purificare anche il supporto più
interessato. Ma la Russia è la Russia e a distanza di due anni dalla
crisi ucraina che ha segnato l’isolamento del Cremlino e il ritorno a un
clima di guerra fredda con sanzioni e contro-sanzioni e una effettiva
guerra calda mai davvero conclusa nel Donbass, l’annuncio dell’incontro
tra Francesco e Kirill è oggettivamente una clamorosa riapertura a
Putin. Ed è ora lecito immaginare che ne seguiranno altre perché il
fronte delle sanzioni si è largamente indebolito e le pressioni del
mondo economico sui governi occidentali per la riapertura del mercato
russo sono fortissime.
Ma il disegno di Putin è ancora più
ambizioso, ed è quello di diventare un punto di riferimento per la
cristianità, addirittura il difensore della cristianità per il mondo
occidentale laddove questa è in crisi. Gli ambienti ultraconservatori
francesi già lo considerano tale, una specie di araldo dell’onda
antimodernista che si è espressa nelle «manif pour tous», le
manifestazioni contro il matrimonio omosessuale. Un personaggio come
Philippe de Villiers, ex sottosegretario di un governo Chirac dell’86,
lui stesso candidato alle presidenziali, ma a lungo emblema di un
«souveranisme» nostalgico e marginale ma vivo e oggi sostanzialmente
collaterale al movimento della Le Pen, in un libro di memorie («Le
moment est venu de dire ce que j’ai vu», ed. Albin Michel) uscito a fine
anno ha raccontato il suo incontro in Crimea con Putin. Gli accenti
sono colorati («Lo zar è tornato») ma la sostanza politica è
impressionante. Scrive de Villiers: «Ormai la Russia liberata da tutte
le ideologie rivoluzionarie assiste ai tentativi della Nato di asservire
il mondo al modello americano… E se oggi le nazioni europee vogliono
uscire dall’Europa che nega i valori cristiani devono rivolgersi al
mondo ortodosso che resiste alla decadenza occidentale…». Non
dimentichiamo che Putin è un cospicuo finanziatore di Marine Le Pen e di
altri movimenti «populisti». Una strategia che non si sottrae a
interventi anche mirati, com’è accaduto a dicembre quando il governo
russo ha donato il grande abete natalizio che tradizionalmente viene
allestito sul sagrato di Notre Dame: il rettore della cattedrale di
Parigi aveva fatto sapere che la chiesa non aveva ricevuto abbastanza
offerte per sostenere gli 80 mila euro necessari e in poche ore
l’ambasciatore russo Alkeksandr Orlov ha provveduto. Un aneddoto non
banale.
D’altra parte nella complessa ideologia putiniana la
chiesa ortodossa ha un ruolo fondamentale per la ricostruzione del
«mondo russo» disperso dalla scomparsa dell’Urss. Nel 2007, all’atto di
riconciliazione tra il patriarcato di Mosca e la chiesa ortodossa russa
fuori dalla Russia, Putin ha detto: «La rinascita dell’unità ecclesiale è
una condizione essenziale per restaurare l’unità perduta di tutto il
mondo russo». Nei riguardi dell’Europa gli accenti sono sempre
irridenti: «declino economico e decadenza morale», bisogna aiutare
l’Europa a restare fedele alle sue radici cristiane e ai suoi valori
tradizionali. Altre ironie in un incontro con le agenzie di stampa a San
Pietroburgo nel maggio 2014: «Ho più volte detto ai miei amici europei
che se non prendono in conto l’umore delle loro popolazioni, il
nazionalismo crescerà».
Kirill è a suo modo un personaggio
speculare a Putin. Alla caduta dell’Urss era praticamente il vice di
Aleksij II, un patriarca anziano ed immobile, un’iconostasi vivente.
Pragmatico, poco diplomatico, uno dei primi ad usare il telefonino.
Quando Wojtyla nel 1993 andò in Lituania, fece allestire l’altare della
messa in direzione di Mosca e alla fine della celebrazione fece ad alta
voce in russo un’invocazione dai toni mistici: «Rossìa-Rossìa»,
Russia-Russia fu il suo grido. Ma non ci fu risposta. Allora, in
un’intervista a La Stampa, proprio Kirill escluse qualunque
riavvicinamento con Roma: «Il risveglio dell’attività ecumenica è
oggettivamente ostacolato dall’attività dei predicatori cattolici,
soprattutto da quelli polacchi».
Tutto questo per dire che si
tratta di una chiesa che nelle gerarchie vive all’ombra e in parallelo
con il Cremlino, dove i piani di Putin non sono tanto per la
riconciliazione ecclesiale, ma per una partita globale. Come quella di
Francesco. E non sono la stessa partita.
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