venerdì 26 febbraio 2016
"Cultura liquida", identità e forme di coscienza consumeristico-desideranti nella società postmoderna
In Bauman, l'equilibrio tra critica e riconoscimento dei processi è sempre presente, a differenza delle posizioni reattive. Altri sono invece i problemi insiti nelle sue tesi: come la mancata consapevolezza che sotto la liquidità di superficie si è prodotto in realtà un irrigidimento [SGA].
Risvolto
Bisogna disfarsi di ogni rigido standard e di ogni pignoleria,
accettare tutti i gusti con imparzialità, la ‘flessibilità’ delle
preferenze, nonché il carattere temporaneo e non consequenziale della
scelta. Non si tratta tanto dello scontro tra un certo gusto (raffinato)
e un altro (volgare), quanto tra l’essere onnivori e l’essere univori,
tra la disponibilità a consumare tutto e la selettività schizzinosa.
La cultura oggi è assimilabile a un reparto di un grande magazzino di
cui fanno esperienza persone trasformate in consumatori. È fatta di
offerte, non di divieti; di proposte, non di norme. È impegnata ad
apparecchiare tentazioni e ad allestire attrazione, ad allettare e
sedurre, non a dare regolazioni normative. Si può dire che, nell’epoca
liquido-moderna, la cultura sia plasmata per adeguarsi alla libertà
individuale di scelta e alla responsabilità individuale nei confronti di
tale scelta. Inoltre si può dire che la sua funzione sia quella di
garantire che la scelta debba essere e sempre rimanga una necessità e un
dovere inderogabile di vita, mentre la responsabilità della scelta e le
sue conseguenze restano là dove la condizione umana liquido-moderna le
ha poste: ovvero sulle spalle dell’individuo, adesso chiamato al ruolo
di amministratore capo della ‘politica della vita’ e suo unico
funzionario.
I poveri di talento nel sacro mercato del particolare
SAGGI. L'ultimo libro di Zygmunt Bauman, teorico della «modernità liquida»
Riccardo Mazzeo Manifesto 26.2.2016, 0:05
Questo nuovo libro di Zygmunt Bauman evoca, involontariamente, il romanzo di Patricia Highsmith The Talented Mr Ripley, trasposto in film alla fine del secolo scorso da Anthony Minghella e interpretato da Matt Damon, in cui un giovane talentuoso ma povero, Tom Ripley, preferisce assumere regolarmente l’identità di qualcun altro piuttosto che indossare i panni della propria nullità. Scrive Bauman ne Per tutti i gusti (Laterza, pp. 148, euro 14): «Il modello personale nella ricerca dell’identità diviene quello del camaleonte. O del leggendario Prometeo, la cui mitica abilità di trasformarsi a piacimento in qualsiasi altro essere o di assumere forme a caso, le più diverse dall’originale, era così ammirata nel Rinascimento da Pico della Mirandola».
Ma perché la personalità prevalente nel mondo occidentale sta diventando quella dello Zelig, del trasformista, del pattinatore su ghiaccio in trasformazione e in fuga perenni? Bauman ha parlato in altra sede della trasformazione subita dall’utopia: prima dell’avvento della modernità liquida l’utopia era incarnata da un’aspirazione condivisa, da realizzarsi attraverso un progetto condiviso, di miglioramento del mondo. Dall’età dell’oro di Ovidio che rivolgeva lo sguardo a un glorioso tempo passato traboccante di armonia, all’Eden prefigurato dalla Bibbia e proiettato in un tempo futuro dopo la morte terrena, dall’isola che non c’è del Morus alla Rivoluzione americana, a quella francese, alle palingenesi mondana di poter realizzare giustizia e armonia già in questo mondo, una costante dell’utopia era stata quella di riguardare tutti, di trascendere i confini della propria individualità. Ma nel mondo liquido-moderno l’utopia si è privatizzata, si è ristretta fino a comprendere nulla di più che un posticino tranquillo per se stessi, vantaggi personali, la propria autocelebrazione, la propria fortuna e, se c’è spazio a sufficienza, per le persone più amate.
Costretti a convivere
Le sollecitazioni e le minacce del mondo contemporaneo tuttavia premono, piombano l’orizzonte, caricano sulle spalle di ciascuno di noi la responsabilità di problemi globali troppo smisurati per essere risolti, e allora ci si trincera in spazi pseudoidentitari come le nazioni più avverse all’apertura che circondano i confini di filo spinato o di muri eretti in tutta fretta, oppure si fugge, ci si sottrae continuamente come Tom Ripley, che sorride agli altri ma quando si addormenta è tormentato da incubi orribili. «Da un punto di vista semantico, la fuga è il contrario dell’utopia; ma dal punto di vista psicologico, si rivela essere di essa l’unico sostituto oggi disponibile: possiamo dire che è la nuova interpretazione dell’utopia, aggiornata e adattata alle esigenze della nostra società deregolata e personalizzata di consumatori».
Oggi viviamo una fase caratterizzata dalle diaspore, dalla migrazione e dalla fuga di persone che, nel modello imperante del multiculturalismo, si trovano obtorto collo a convivere scontrandosi mentre i detentori del potere globale gongolano. Il «divide et impera» funzionava già ai tempi degli antichi Romani, ma adesso suscita raccapriccio assistere alla velenosa maestria con cui la predisposizione di condizioni tali da accendere continui focolai di rivalità fra chi vive gomito a gomito e non si sopporta sia un rimedio potentissimo per distrarre l’attenzione della gente dai veri responsabili che risultano sempre meno identificabili, riparati come sono dallo spazio dei flussi in cui si muovono repentini, remoti, imprendibili. Gli intellettuali, un tempo connotati innanzitutto dal coraggio e dalla capacità di impegno che sapevano profondere nel tentativo di alimentare cambiamenti sociali positivi, si sono specializzati nel perseguimento del successo personale e «le classi colte del nostro tempo hanno poco o niente da dire riguardo alla forma preferibile per la condizione umana. Per questa ragione si rifugiano nel multiculturalismo, che è un’ideologia della fine dell’ideologia».
Il fatto è che il multiculturalismo non favorisce affatto l’interscambio quanto piuttosto il sospetto. Nella stessa via albergano etnie che si guardano con reciproca invidia e disprezzo, pronte a impugnare il coltello, circoscrivendo le responsabilità di condizioni di vita sempre più difficili all’orizzonte del proprio quartiere, e la stessa cosa avviene negli autoctoni rispetto agli stranieri ritenuti responsabili della penuria di lavoro oltreché vissuti come barbari sporchi, «strani», sicuramente pericolosi e malvagi.
Bauman guarda all’Europa come a un promettente laboratorio e cita George Steiner: «il genio dell’Europa sta in ciò che William Blake avrebbe definito la sacralità del minimo particolare. È quello della diversità linguistica, culturale e sociale, di un ricco mosaico che rende una minuscola distanza, una ventina di chilometri, una divisione tra mondi (…) In effetti l’Europa perirà se non si batte per le sue lingue, le sue tradizioni locali e le sue autonomie. Se dimentica che Dio sta nei dettagli». Bauman lamenta però quello spreco di saperi e di stimoli che imporrebbe, data la compresenza di almeno ventitré lingue ufficiali europee, l’uso dei lauti fondi dell’Unione europea per tradurre gli scritti più significativi prodotti nei Paesi meno privilegiati, offrendo così a tutti una «Biblioteca della Cultura Europea». Perché al di là delle false credenze sul «prossimo» e alla demonizzazione insensata dei propri vicini, abbiamo in comune numerosissimi aspetti, le stesse ansie, gli stessi amori, lo stesso nemico vampiresco, e se riuscissimo a coltivare, se non a realizzare, la «fusione degli orizzonti» preconizzata da Gadamer, smetteremmo di essere orde di Tom Ripley che si considerano altrettante nullità e che per sentirsi vivi e degni di considerazione devono succhiare il sangue di qualcun altro e continuare a fuggire, ciascuno prigioniero del proprio incubo.
La seduzione errante dello sciame
ZYGMUNT BAUMAN. La cultura non illumina più nessuna caverna. Deve però soddisfare i sogni di fuga di pubblici eterogenei di consumatori. «Per tutti i gusti», il nuovo saggio dello studioso polacco (Laterza)
Benedetto Vecchi Manifesto 26.2.2016, 0:10
La cultura non coltiva più le anime nella prospettiva di un miglioramento continuo della loro vita, vendendo così meno al «carattere missionario» che l’illuminismo gli assegnava nella costruzione della nazione e nel superamento delle convenzioni sociali del passato; ma non serve neppure a riprodurre le disuguaglianze di classe che innervano le società capitaliste, come attestava la funzione «omeostatica» svolta, nella tarda modernità, dall’industria culturale, dalla scuola e dall’università. Nell’epoca attuale la cultura deve soddisfare tutti i gusti possibili, le differenze negli stili di vita, nelle identità. Deve quindi sedurre la moltitudine di cittadini-consumatori che, come uno sciame, si muove secondo geometrie non lineari nel mutevole palcoscenico della «modernità liquida». A Zygmunt Bauman non manca la capacità di catturare l’attenzione nel suo ormai trentennale attraversamento delle società contemporanee. E questo suo nuovo saggio – Per tutti i gusti — non fa che confermare tale capacità, riuscendo al tempo stesso a ribadire alcune coordinate della sua erranza. In primo luogo, la centralità del consumo nelle forme di vita attuali, anche quando si tratta di parlare di cultura, che può essere spiegata a partire dalle dinamiche che riguardano la moda, che cambia di stagione in stagione in un perpetuo e seduttivo ritorno del sempre uguale.
Un libro, un film sono pensati per affascinare una molteplicità di pubblici dai confini porosi. Il consumatore può amare, contemporaneamente, la musica classica e il punk; il noir e la teologia medievale; il trash e le miniature rinascimentali, la filosofia strutturalista e i fenomeni virali della televisione, in una successione indistinta di generi che funzionano come lo specchio dove si riflettono le identità patchwork individuali e collettive. I manufatti culturali devono cioè mutare di stagione in stagione al pari dei vestiti più o meno griffati.
Questa trasformazione della cultura in strumento seduttivo ha sì un fine manipolatorio, ma non in funzione di un progetto di società, bensì solo per vendere le merci che soddisfano un desiderio di libertà radicale, che ha tratti in comune con l’utopia, e tuttavia assume la forma stabile della fuga dal principio di reciprocità e relazione sociale, all’interno cioè di uno dispositivo dominante incardinato sulla figura dell’individuo proprietario. La cultura non indica dunque più la rotta verso il regno della ragione (o della libertà dalla necessità), né svolge il ruolo di guardiana dell’ordine costituito, ma neppure è il barometro che segnala bellezza e volgarità, buono o cattivo gusto, come postulavano i custodi di una primitiva concezione estetica dei manufatti culturali. Non è dunque un’arma nelle mani delle élite, bensì è una merce per un pubblico di massa. Tutto va bene, infatti, se incontra al mercato una domanda da soddisfare. Di questa acquisita mercificazione della cultura Bauman non fa mistero, anche se nelle pagine di questo saggio non ci sono tracce di come viene organizzata la sua produzione. Dunque nessuna immagine potente al pari di quella usata da Max Horkheimer e Theodor W. Adorno ne La dialettica dell’illuminismo che, per parlare di Hollywood, descrivono la successione di schiene ricurve sulle macchine da scrivere di scrittori, filosofi, scienziati alle prese con le sceneggiature da consegnare per il media che metteva e mette sullo schermo il desiderio di evasione dalla miseria del presente. E se quella immagine avrebbe dovuto attestare la riduzione dell’intellettuale a produttore salariato dell’industria culturale, nulla viene detto da Bauman su come quel produttore di segni, persa l’aura del depositario della verità, sia ormai un precario preposto a soddisfare i gusti del pubblico.
Politiche del riconoscimento
C’è però un passaggio sulla «modernità liquida» che serve a Bauman per introdurre il tema dello «stato culturale», cioè di come lo Stato nazionale attivi la produzione culturale al fine di sviluppare forme di governance della realtà sociale mutevole nel tempo e nello spazio. La modernità liquida non significa assenza di norme e istituzioni, bensì è una realtà che vede, in tendenza, la presenza di istituzioni e norme definite just in time. Allo stesso modo lo «stato culturale» è un’espressione per indicare quell’esaltazione delle differenze che caratterizzano le società capitalistiche contemporanee. Le identità, e la cultura, prodotte e elaborate da gruppi sociali o da singoli marcano la differenza rispetto ad altri gruppi sociali e singoli. Lo «stato culturale» favorisce una politica del riconoscimento che prende congedo dalle aporie del multiculturalismo – la differenza inscritta tuttavia dentro l’orizzonte universalista dei diritti – e apre la strada a un multicomunitarismo dove la differenza è foriera appunto di deriva identitaria sempre sul punto di trasformarsi, viene da aggiungere, in una situazione di guerra civile molecolare. La cultura della differenza è, chiosando il filosofo americano Fredric Jameson , la logica culturale del capitalismo che ha nei richiami ai diritti umani l’antidoto a un distruttivo multicomunitarismo basato su una velenosa e feroce politica del riconoscimento. I tanti festival culturali, secondo una tassonomia disciplinare e di generi, servono così a creare lo spazio affinché la differenza non alzi mura e definisca confini la cui violazione è da respingere con le armi.
Lo Stato culturale è quindi da considerarsi come il sostituto di quella tendenza missionaria che il secolo dei Lumi assegnava alla cultura. Soltanto che è un missionario bizzarro. Poco rigore, austerità, riservatezza, bensì una miscellanea di glamour, seduzione, leggerezza e trasgressione. Perché il suo compito è soddisfare tutti i gusti, senza che questo metta in pericolo l’ordine costituito.
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