L’EGEMONIA HA BISOGNO DI UN’IDEA
Attesa Al di là della «rottamazione», il presidente del Consiglio non sembra riuscire ad essere protagonista di alcuna vera rottura. Il «renzismo» resterà al massimo una strategia di governo (e di sottogoverno) di successo per un Paese fermo
22 feb 2016 Corriere della Sera Di Ernesto Galli della Loggia
In molti suppongono che Matteo Renzi, ormai padrone assoluto della Rai, abbia in animo di usare i potenti mezzi di Viale Mazzini per elaborare e diffondere il «renzismo». Non a caso, e sempre per muoversi nella stessa direzione, osservano altri, già da qualche tempo egli ha deciso di fondare un think tank con sede a Bruxelles, di nome «Volta». E più d’uno — per esempio il direttore del Foglio Claudio Cerasa — aggiunge che tutto ciò farebbe pensare al desiderio da parte del premier di costruire una forte prospettiva ideologica considerata necessaria al consolidamento della sua leadership: con l’intento, addirittura, di trasformare il «renzismo» in un’egemonia culturale.
Magari, mi verrebbe da dire (naturalmente pensando a un’ accezione non prescrittivoautoritaria del termine egemonia). Magari oggi ci fosse in Italia chi si proponesse un disegno così ambizioso. Cioè di tentare di costruire un consenso di ampie dimensioni intorno a una visione per così dire alta e forte del futuro del Paese, essendo inoltre capace di mobilitare a tal fine le necessarie risorse culturali e intellettuali. Ripeto: magari! Una collettività, infatti, non può rinunciare per un tempo troppo lungo — come invece mi sembra stia facendo l’Italia — a guardare lontano, ad avere dei valori che la orientino nel suo cammino, ad avere un’idea di sé e del suo ruolo nel mondo. E la politica, dal canto suo, o è tutto questo, o è capace di essere il motore di tutto questo, o è routine, pura amministrazione. Il che forse potrà pure andare bene quando tutto va bene. No di certo, però, in tempi come quelli che viviamo. Non mi sembra tuttavia un’impresa affatto facile, per Renzi, consolidare ideologicamente la propria leadership o addirittura costruire un’egemonia culturale. Dirò di più: mi sembra un’impresa impossibile.
Avere dei buoni propositi non basta, infatti. Non basta — come è sua abitudine — profondersi in esortazioni a base di «L’Italia è un grande Paese», «Possiamo farcela», «Non prendiamo lezioni da nessuno». Non basta neppure avere delle idee, anche delle buone idee e magari arrivare perfino a realizzarne qualcuna. È necessario avere una idea: e mantenervisi fedele. Vale a dire avere un traguardo complessivo che faccia tutt’uno con un principio ispiratore di carattere generale. È necessario proporre al Paese non dirò un destino ma almeno una vocazione. Raffigurarsi per esso un percorso esemplare, e in funzione di questo essere capaci di animare le forze presenti ma nascoste, di indovinare quelle nuove da suscitare. Tutto questo dovrebbe oggi fare la politica in Italia per incarnare un progetto.
Ma le riesce impossibile, perche la Seconda Repubblica — e non è certo colpa di Renzi — ha alle spalle il nulla. Laddove invece per immaginarsi un’identità e un futuro, e per raccogliere le energie capaci di conseguirli, un corpo politico deve avere alle spalle qualcosa. Deve avere quella che oggi si dice una narrazione, cioè un racconto del passato che ne giustifichi in modo forte il presente e si apra verso l’avvenire. Così come per l’appunto furono, pur con i limiti e le contraddizioni che sappiamo, l’antifascismo e la Resistenza per la Prima Repubblica. La Seconda ha invece alle sue spalle che cosa? Mani Pulite. Vale a dire un’inchiesta giudiziaria necessaria ma costellata di ambiguità. Non le lotte ma gli avvisi di garanzia. Al posto di Ferruccio Parri, Antonio Di Pietro: è facile capire la differenza.
Il vuoto su cui galleggia la Seconda Repubblica spiega bene la scelta fatta dal presidente del Consiglio circa coloro che dovranno in vario modo gestire il «Volta». Amministratori delegati e dirigenti di grandi imprese (da Lazard ad Autostrade), scrittori, docenti di governance e di public affairs, direttori di musei, esperti di innovation, responsabili di organizzazioni umanitarie, economisti, un paio di professori di diritto e di scienza politica. Per una buona metà inglesi, americani, spagnoli, francesi, tedeschi: i quali si può presumere che sappiano dell’Italia quanto io so del Michigan. Insomma un think tank all’insegna dell’eterogeneità e del più provinciale internazionalismo, infarcito di «grossi nomi» (o presunti tali) messi lì, si direbbe, al solo, italianissimo scopo, di «far bella figura». E che quindi servirà a poco o nulla.
Resterà dunque il vuoto della Seconda Repubblica: vuoto di ideali politici, di futuro, e di una prospettiva per la compagine nazionale. E il presidente del Consiglio resterà privo di quel progetto culturale che viene attribuito alle sue intenzioni. Per il quale, lungi dal servire una cosa come il «Volta», servirebbero semmai dei veri gruppi dirigenti.
Cioè quegli insiemi coesi di personalità, di competenze e di intelligenze, con il gusto per gli affari pubblici, che per solito o nascono in un Paese in seguito a una frattura storica (una rivoluzione, un drammatico cambio di regime), e dunque con una prospettiva fortemente innovativa, o, all’opposto, si formano intorno a una tradizione. Intorno cioè al rapporto con un retaggio culturale, incarnato da un ambiente familiare, da un’appartenenza sociale, da un’istituzione, spesso collocato in un luogo specifico, in un paesaggio, e generalmente tenuto vivo da un sistema d’istruzione adeguato.
Ma Matteo Renzi non rappresenta certo alcuna tradizione né, al di là della «rottamazione», sembra riuscire ad essere protagonista di alcuna vera rottura. Il «renzismo» dunque resterà al massimo una strategia di governo (e di sottogoverno) di successo per un Paese fermo, in attesa timorosa di ciò che gli potrà capitare domani.
Le due facce di Matteo Il premier è un outsider ma anche aspirante leader della sinistra in Europa
di Marc Lazar Repubblica 22.2.16
ALL’ASSEMBLEA
del Pd Renzi ha annunciato, tra l’altro, di voler mobilitare il Partito
Socialista Europeo per cambiare la politica economica dell’Ue. E in
vista di quest’obiettivo, aspira alla leadership di tutta la sinistra
europea. Un’ambizione immensa, ma con quali prospettive di riuscita?
NON
si nasce leader, lo si diventa. Ora, la figura di Matteo Renzi si
presenta, fin dal suo debutto in politica, con due volti diversi: da un
lato quello dell’outsider, un uomo che non appartiene alla “casta”
politica, culturale, economica e finanziaria, italiana o europea. E non
perde occasione per ricordarlo, spesso in modo provocatorio, come di
recente con Mario Monti. D’altro lato, intende essere un leader politico
a pieno titolo, ben deciso a riformare e a portare avanti un disegno
storico per il suo partito, il suo Paese e l’Europa.
Anche per la
sinistra socialdemocratica europea, Renzi ha due facce. Agli occhi dei
socialisti tradizionalisti appare un po’ sospetto, dato che non proviene
dai ranghi del socialismo, bensì dal mondo democristiano, del quale
peraltro non ha le caratteristiche. Oltre tutto il Pd — nato dalla
fusione di correnti della sinistra Dc, del Pci e in misura assai minore
dal socialismo — è estraneo alla lunga storia dei partiti
socialdemocratici e socialisti, risalente al XIX secolo. D’altra parte,
Matteo Renzi, che nel 2014 ha fatto rientrare il suo partito nel Pse,
sta realizzando da due anni un’esperienza seguita da vicino dalla
sinistra europea.
Quest’ultima si divide in tre grandi tendenze.
La prima postula un ritorno all’età dell’oro delle socialdemocrazie, con
le ricette abituali, sostenute però dalle moderne tecniche di
partecipazione e comunicazione, secondo il modello di Jeremy Corbyn in
Gran Bretagna. La seconda concorda sulla necessità di modernizzare la
sinistra, restando però fedele alla tradizione socialdemocratica: è il
caso di tanti socialisti francesi, o dei membri del Pd ostili al
presidente del consiglio. La terza sostiene la necessità di uscire dagli
schemi del socialismo, che ormai non significherebbero più granché, per
portare avanti un riformismo di tipo nuovo. Renzi appartiene a
quest’ultimo gruppo, e i suoi supporter lo sostengono spesso con
entusiasmo. Di fatto, a questo punto il suo progetto di legge sulle
unioni civili, sempreché lo porti fino alla fine senza alterarne il
significato, le sue critiche all’Unione Europea e il suo impegno per
ottenere un allentamento del rigore economico potrebbero valergli il
sostegno di tutta la sinistra riformista, e anche quello dei gruppi più a
sinistra, sia in Italia che in Spagna, in Francia o in Grecia. Matteo
Renzi potrebbe allora diventare la figura di riferimento della sinistra
in Europa — anche a fronte dell’impopolarità di François Hollande, delle
difficoltà incontrate da Pedro Sanchez per costituire un governo a
Madrid e degli insuccessi di Alexis Tsipras in Grecia? O addirittura
approfittare della fase perigliosa attraversata, per ragioni diverse, da
Germania, Francia e Spagna, i principali Paesi dell’Europa
continentale, nonché dall’esito imprevedibile del referendum sulla
permanenza della Gran Bretagna in Europa, per assurgere al rango di
grande leader europeo?
Numerosi sono gli ostacoli, molte le
debolezze. L’autorità di Renzi è contestata da un Pd diviso, che dovrà
affrontare scadenze elettorali dall’esito incerto. Le riforme che ha
varato non hanno ancora prodotto tutti i loro effetti, e la loro
efficacia è tuttora da valutare. Le previsione economiche non sono
esaltanti. Infine, l’Italia è lontana dall’aver risolto gli innumerevoli
problemi strutturali che minano la sua credibilità. E tuttavia… Se le
dichiarazioni di Renzi sull’Europa possono piacere, o al contrario
destare inquietudine, hanno però il merito di porre ancora una volta due
questioni fondamentali: quale politica deve adottare l’Ue? E cosa può
fare la sinistra per l’Europa?
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