La costituente di Varoufakis sociale e non sovranista
Berlino. Presentato alla Volksbühne il movimento «Democracy in Europe Movement 2025» (DiEM)
Lo stile post-ideologico dell’economista greco: il suo appello rivolto ai radicali, democratici, verdi, alla sinistra
di Marco Bascetta, Sandro Mezzadra il manifesto 10.2.16
BERLINO
L’attenzione mediatica per l’avventura di Yanis Varoufakis a Berlino
non è certo mancata. Sala strapiena, giornalisti in coda, domande a
raffica: così la conferenza stampa che ha aperto il meeting organizzato
alla Volksbühne di Berlino per la presentazione del manifesto di DiEM
2025 («Democracy in Europe Movement 2025»). È un testo che ha
l’ambizione di aggregare intorno a un programma pluriennale di
democratizzazione dell’Unione Europea movimenti sociali, forze
politiche, circoli intellettuali, associazioni, lavoratori della
conoscenza, e artisti attivi sulla scena continentale.
Le risposte
di Varoufakis sono state di estrema chiarezza ed efficacia soprattutto
su un punto che figurava tra i più delicati: ovvero il rapporto tra la
sua iniziativa e le posizioni che in diversi Paesi europei di fronte
alla gestione neoliberale della crisi puntano a un recupero della
sovranità e della moneta nazionale. Si tratta di posizioni condivise
anche da diverse forze della sinistra, tradizionale e non. Per fare i
nomi più noti che sostengono simili punti di vista si possono ricordare
Oskar Lafontaine in Germania e Jean-Luc Mélenchon in Francia. La
posizione dell’ex ministro delle finanze greco su questo punto è stata
di inequivocabile rifiuto. Al centro della sua iniziativa c’è
l’obiettivo di una ripoliticizzazione dello spazio e delle istituzioni
europee, come antidoto alle tendenze alla frammentazione, alla chiusura e
alla competizione. In poche parole come antidoto alla deriva verso una
riedizione “post-moderna” degli scenari degli anni Trenta, un rischio su
cui ha spesso insistito. Del discorso nazionale non possono che
avvantaggiarsi le destre più o meno estreme, come del resto gli
orientamenti elettorali in Europa ci stanno ripetutamente dimostrando.
La
giornata di presentazione di DiEM alla Volksbühne si è articolata in
lunghe conversazioni tematiche, secondo il modello di una jam session a
cui hanno partecipato attivisti e intellettuali, operatori dei media,
sindacalisti ed esponenti di innovative esperienze municipali, a partire
da quella di Barcellona. Nessuno in rappresentanza di organizzazioni o
gruppi, ma tutti provenienti da una pluralità di esperienze collettive.
La discussione ha preso le mosse da una «mappatura cognitiva» della
crisi europea, per poi concentrarsi su un’analisi più specifica della
situazione economica e su quello che potrà essere nei prossimi mesi il
ruolo di DiEM. La giornata si è conclusa con l’effettivo lancio del
manifesto, in una sala affollata da centinaia di persone, con schermi
allestiti all’esterno per coloro che non hanno trovato posto. Ne
parleremo domani.
Durante la conferenza stampa, così come durante
«talk real» (il talk show organizzato da Europan Alternatives, a cui ha
partecipato lunedì sera), Varoufakis ha adottato uno stile marcatamente
«post-ideologico», quasi da liberal di oltre Oceano. Non ha certo
taciuto la sua militanza nella sinistra, ma si è rivolto a «tutti i
democratici, liberali, verdi o radicali che siano». Poiché la questione
al centro della governance europea, ha insistito Varoufakis, è un
plateale svuotamento della democrazia, con la totale esclusione dei
cittadini – del demos – dai processi decisionali. In quest’ottica
l’esperienza dell’anno 2015 in Europa è stata illuminante, tanto per lo
scontro tra il governo greco e la troika dei creditori quanto per la
cosiddetta «crisi dei migranti» e i suoi riflessi sui rapporti tra i
Paesi membri dell’Unione: l’acuirsi della frattura tra Est e Ovest, che
si aggiunge a quella tra Nord e Sud, le crepe sempre più vistose
all’interno dello spazio di Schengen. Quanto ai movimenti di profughi e
migranti verso l’Europa, Varoufakis ha espresso ancora una volta
posizioni molto chiare: di fronte a chi fugge dalla guerra e dalla
povertà «non si possono fare calcoli costi-benefici» e l’Europa non può
sottrarsi al dovere di fare i conti con la propria storia. Una storia
che attraverso il colonialismo ha cambiato irreversibilmente gli
equilibri mondiali.
L’ambizione che caratterizza il progetto di
DiEM non è affatto modesta. Non si tratta infatti di un semplice appello
alla difesa delle forme e delle procedure democratiche. Al contrario, è
il contenuto sociale del processo quello che sostanzia politicamente la
democrazia europea di cui qui si parla. A questo scopo la sinistra,
così come la conosciamo e a maggior ragione dopo le numerose sconfitte
subite in questi anni, non ha forza sufficiente. Ciò di cui c’è bisogno è
una radicale innovazione politica, capace di costruire materialmente
una democrazia che non esiste su scala continentale e appare
radicalmente svuotata di legittimità e contenuti su scala nazionale.
Da
questo punto di vista, Varoufakis ha sottolineato la rilevanza
essenziale – all’interno di un processo che si qualifica come
«costituente» – dell’azione autonoma dei movimenti e delle lotte
sociali. Non a caso, il suo soggiorno a Berlino è cominciato domenica,
con un intervento all’assemblea di Blockupy, la coalizione che ha
organizzato l’assedio dell’Eurotower a Francoforte lo scorso 18 marzo.
Un
movimento per la democrazia in Europa continua ad avere numerosi
ostacoli sulla sua strada sebbene se ne colga appieno l’urgenza. Ed è
inevitabile che questo stato embrionale del movimento si rispecchi nel
carattere ancora generico e indefinito della stessa rivendicazione di
democrazia su scala europea. Di questo risente naturalmente allo stato
attuale anche il progetto DiEM. E tuttavia la ricchezza della
discussione che si è aperta a Berlino, l’eterogeneità dei partecipanti e
dei linguaggi, la tensione e perfino l’entusiasmo che l’hanno
caratterizzata indicano chiaramente l’apertura di una possibilità
politica realmente nuova. Saranno i prossimi mesi a dirci quanto
efficace.
«No al verticismo». Alla camera i dubbi sul nuovo partito
Sinistra
italiana. Sei deputati attaccano sull'evento Cosmopolica, il battesimo
del 'soggetto': poca condivisione, anzi nessuno ne sa nulla
di Daniela Preziosi il manifesto 10.2.16
Discussione
«franca e leale», come si dice a sinistra quando qualcosa non va, ieri
mattina nel gruppo dei deputati di Sinistra italiana. Si avvicina la
data del big bang del nuovo soggetto ma qualche parlamentare è ancora
scettico sull’appuntamento. In discussione non c’è la necessità o
l’opportunità di tenere a battesimo in tempi rapidi il nuovo partito: il
passo era stato annunciato già il 7 novembre scorso, quando i deputati
di Sinistra ecologia e libertà, accogliendo quattro ex Pd (D’Attorre,
Fassina, Folino, Gregori) ed altri di ritorno dal gruppo misto (Claudio
Fava) ha cambiato nome in Sinistra italiana annunciando «l’inizio di un
processo».
Ora il processo procede, e nelle tre giornate dal 19 al
21 febbraio al Palazzo dei congressi di Roma nascerà la nuova creatura.
L’evento ha il nome immaginifico di «Cosmopolitica» (info su
www.cosmopolitica.org, presto sarà in linea una piattaforma digitale che
gli organizzatori descrivono con entusiasmo). Ma non tutto fila liscio
in sala travaglio. Già due senatori, il sardo Luciano Uras e il pugliese
Dario Stefàno, hanno pubblicamente espresso la loro resistenza a
entrare nella nuova casa. Ieri invece alla camera sono stati almeno sei i
deputati a avanzare altri dubbi su come viene organizzato l’evento. E
su dove va a parare. L’accusa, in soldoni, è di «gestione verticistica»
delle tre giornate, ed è rivolta a Nicola Fratoianni, coordinatore di
Sel e uno degli uomini-macchina dell’evento. Si lamenta la «mancanza di
condivisione», «di un processo partecipato», «di un progetto politico
chiaro». Come verrà scelto il comitato dirigente provvisorio che uscirà
dalle tre giornate? È vero che gli organizzatori giurano che tutto sarà
deciso in quelle tre giornate: ma sarà proprio così?
C’è chi giura
che non si tratta della rivendicazione del «partito delle istituzioni»;
ma della segnalazione preoccupata del rischio di involuzione della
«cultura politica» di Sel: da partito di governo a versione coeva anzi
vintage di un gruppo della sinistra extraparlamentare.
Gli ultras
di «Cosmopolitiche» considerano le obiezioni pretestuose. Dietro il
malumore ci sarebbe la difficoltà di fondo di accettare «la perdita
delle rendite di posizione». Tradotto: la preoccupazione per la
poltrona. Perché, spiegano, se la preoccupazione è invece «che il
processo sia partecipato, allora quella è di tutti, ma tutti davvero:
non solo i parlamentari e quelli che sono qui con noi ma soprattutto
quelli che verranno». La discussione è finita con il capogruppo Arturo
Scotto che ha tirato le fila e trovato bandolo unitario, dando a tutti
appuntamento a tutto il gruppo a stamattina per un volantinaggio a
Ostia.
Ma non basterà a tranquillizzare gli animi. Il piccolo
partito vira da forza di coalizione di centrosinistra a partito autonomo
che ormai fuori ovunque dalle alleanze. A Milano l’ultima discussione è
in corso. Resta il ’baluardo’ di Cagliari, ma dopo il voto un pezzo di
Sel sarda, coalizzata con i dem, potrebbe ’autonomizzarsi’ dalla casa
madre. Per non parlare della prospettiva delle elezioni politiche,
quando arriveranno: l’Italicum non premia le coalizioni ma la lista che
vince. Quindi non ci sarà nessuna alleanza con il Pd.
È qui la
scommessa anche istituzionale del nuovo soggetto. O, detto con le parole
dei perplessi, il salto nel buio: la pattuglia dei parlamentari e il
battaglione degli amministratori sarà ridotto di molto, nel migliore dei
casi. Nell’ultima assemblea nazionale perplessità sono state espresse
anche dai rappresentanti dei mitici «territori», dal Friuli all’Emilia
Romagna, alla Liguria, alla Calabria.
I turbamenti della giovane sinistra milanese
Post
primarie. La candidatura di Beppe Sala apre uno spazio politico inedito
per quell'area che non può riconoscersi nel sindaco del partito della
nazione. All'orizzonte si profila una lista unica con Prc, Possibile e
Lista Tsipras che si pone l'obiettivo di includere tutti coloro che il
prossimo giugno non voteranno l'ex manager dell'Expo. Resta il dilemma
del candidato, sempre che Pippo Civati non decida di metterci la faccia
per sostenere un progetto di cui non sono ancora stati definiti contorni
e obiettivi. Nel frattempo, i milanesi di Sel sono in conclave per
decidere cosa fare da grandi
di Luca Fazio il manifesto 10.2.15
MILANO
A Milano, il giorno dopo le primarie che hanno archiviato l’esperienza
arancione di Giuliano Pisapia, la sinistra-sinistra improvvisamente si
ritrova al centro della scena pur in assenza di contenuti chiari e di un
progetto di lunga durata. Ci stanno lavorando da mesi, dicono che entro
febbraio presenteranno una lista e un candidato. Lo sa anche Giuseppe
Sala che quello spazio politico ancora senza direzione è destinato ad
intercettare i voti di quei milanesi che a giugno non lo voterebbero
neanche sotto tortura (almeno al primo turno). Sembra che il quasi
sindaco manager abbia dedicato un pensiero carino ai “compagni di Sel” e
a tutti i delusi in libera uscita che potrebbero metterlo in difficoltà
in vista del ballottaggio: con il suo non esaltante 42% si è accorto
che per vincere a Milano forse non basta guardare al centro.
Inutile
nascondere che questo ritrovato protagonismo sta ringalluzzendo diversi
soggetti e aree politiche da tempo rimasti ai margini, anche troppi, ma
tutti sono consapevoli che l’operazione è molto complicata perché dopo
cinque anni di governo della città la vera sconfitta è proprio la
sinistra in tutte le sue articolazioni. Rimettere insieme i cocci è una
faccenda quasi disperata. Nessuno lo nasconde. L’area che comprende Prc,
Possibile e Lista Tsipras (più altri pezzi di comitati) sta cercando di
convincere Pippo Civati ad accettare la sfida. Lui dice e non dice, ma
mai come in questi giorni è tornato alla ribalta, prima spiega che non
ha intenzione di candidarsi e poi lascia intendere che, chissà, magari a
certe condizioni potrebbe anche farci un pensierino. Un buon metodo per
occupare la scena e per farsi pregare, anche da quei pezzi romani di
Sinistra Italiana che spingono per convincere (o costringere) i compagni
milanesi di Sel rimasti incastrati con Francesca Balzani ad abbandonare
l’ipotesi Sala mascherata in salsa arancione.
Pippo Civati ha
sempre detto che preferirebbe una candidatura civica, ma fino ad ora
nessuno è riuscito a pescare il jolly. Semplicemente perché non esiste
una candidatura civica di alto profilo disposta a prendersi la patata
bollente. A meno di clamorosi colpi di scena, rimane lui l’unica figura
che potrebbe unificare tutti quei pezzi, anche poco dialoganti tra loro,
che in questi giorni stanno sondando il terreno autonomamente. Ma non è
detto che Civati abbia intenzione di metterci la faccia per sostenere
un’operazione politica che senza un cambio di marcia rischia di
somigliare alla solita aggregazione di ceto politico residuale incapace
di inventare scenari e linguaggi nuovi. In assenza di un candidato forte
(o presunto tale) c’è anche il rischio che in alternativa a Beppe Sala
si formino più liste civiche variamente orientate a sinistra piene di
politici di vecchia data in cerca di una seconda (o terza, o quarta)
chance. Sarebbe comico.
In casa Prc (sono loro che insieme a
Possibile stanno cercando la sintesi politicamente più spendibile) sono
consapevoli della necessità e insieme della difficoltà di allargare il
recinto tenendo insieme tutti quelli che per diverse ragioni non votano
Sala: “Stiamo lavorando per qualcosa di più ampio della
sinistra-sinistra, pensiamo a una lista civica unitaria e di sinistra,
ambientalista e progressista capace di tenere insieme Prc, Possibile,
pezzi di Sel, comitati di quartiere, esperienze che già lavorano nei
territori, socialisti e comitati civici”. Renderla digeribile e
votabile, è il compito più difficile. I più ottimisti sostengono che
così facendo si potrebbe puntare al 10%, ma sarebbe meglio interpretare
la realtà a una cifra sola. In ogni caso, anche se la questione potrebbe
sembrare prematura, bisognerà poi capire come spendere quel capitale di
voti in caso di ballottaggio. Va bene ricostruire un barlume di
sinistra, ma per farne cosa?
A latere, ma nemmeno troppo, ci sono
poi i tormenti di Sel che – probabilmente – non può permettersi di
convergere con un triplo salto mortale su questo tentativo di
ricostruzione di una sinistra informe che ancora non ha un orizzonte
condiviso. C’è chi vorrebbe aggregarsi a una lista arancione con a capo
Francesca Balzani per rendere meno disonorevole l’appoggio al manager di
Expo, e chi invece sta pensando di abbandonare la partita. Il dibattito
è aperto, anche se il film è ancora tutto da inventare.
Grande partecipazione di politici, economisti e movimenti alla Costituente di Varoufakis
Il partito transnazionale dell’Europa in movimento Una dimensione transnazionale per reinventare la democrazia.
di Marco Bascetta, Sandro Mezzadra il manifesto 11.2.16
La
forma in cui si è svolta la presentazione di DiEM 25 (Democracy in
Europe Movement 2025) si è rivelata senz’altro di forte impatto. Entrata
in scena da grande attore dell’anfitrione Yanis Varoufakis, solo sul
palco della Volksbühne per circa una mezz’ora, pubblico foltissimo,
attento per più di tre ore e molto partecipe. Al microfono si alternano
esponenti politici, di partito e indipendenti, amministratori locali,
attivisti dei movimenti, sindacalisti e nomi di grande risonanza come
Brian Eno e, in video, Julien Assange, Ada Colau, la ex ministra della
giustizia francese Christiane Toubira, Slavoj Zizek e l’economista
americano James Galbraith. Molto significativa la presenza tedesca, con
la segretaria della Linke Katja Kipping, il dirigente del sindacato
metalmeccanico IG Metall Hans-Jürgen Urban e un’attivista della rete di
movimento “Blockupy”. Ma non sono mancati interventi dall’Inghilterra,
dalla Spagna, dal Portogallo, dall’Irlanda e da altri Paesi europei, con
un forte protagonismo femminile che è stato uno dei segni più visibili
ed efficaci del meeting. Colpiva però l’assenza di voci provenienti
dall’Italia, rimasta ai margini dei nuovi processi politici europei.
L’impostazione
comunicativa scelta si presta certo a numerose obiezioni e critiche.
Nel complesso la serata è stata dominata dalla personalità di
Varoufakis, attorno a cui ruota per il momento l’intero progetto di DiEM
25. Può destare perplessità anche la prevalenza di esponenti politici,
sia pure spesso indipendenti, rispetto all’insieme eterogeneo dei
soggetti a cui l’iniziativa dichiara di volersi rivolgere. Ne è derivata
una certa ridondanza degli interventi, spesso rimasti all’interno di
quella dimensione politica istituzionale che il progetto pan-europeista
di Varoufakis si propone di eccedere. Nel suo impatto mediatico e
spettacolare, poi, l’evento non può essere facilmente riprodotto. E
rimane inoltre indefinito il modo in cui l’iniziativa possa articolarsi e
consolidarsi nel tempo. Nondimeno, valutando la giornata del 9 febbraio
nel suo insieme e nelle sue potenzialità, l’elemento dell’apertura e
della proiezione in avanti ci sembra prevalere.
Si tratterà in
ogni caso di sviluppare positivamente questa apertura dando consistenza
agli obiettivi che l’iniziativa si propone e cominciando ad affrontare
alcuni problemi che lo stesso testo del Manifesto ci consegna come
irrisolti.
Questo vale in primo luogo per l’insistito riferimento
alla democrazia, alla sua crisi e alla sua necessaria reinvenzione. Di
tanto in tanto sembra emergere la tentazione di dare una soluzione
semplice a queste difficoltà, immaginando una restaurazione delle forme
classiche della democrazia rappresentativa e una loro semplice
proiezione sul livello europeo. Anche se lo stesso Varoufakis ha
sottolineato a più riprese che la democrazia «non è uno stato ma un
processo» e che il deficit democratico delle istituzioni europee ha la
sua origine nel progressivo svuotamento della rappresentanza negli Stati
che continuano a essere gli attori principali nell’architettura
dell’Unione: tanto più dopo l’impatto combinato della crisi dei debiti
sovrani e di quella che viene definita dei migranti.
A noi pare
che la crisi della rappresentanza abbia radici strutturali tanto nei
contesti nazionali quando in quello europeo. La sfida di fronte a cui si
trova un’iniziativa come quella di DiEM 25 è precisamente quella di
reagire a questa situazione con uno sforzo di immaginazione e
innovazione politica. L’Europa può essere lo spazio in cui sperimentare
l’azione combinata di movimenti sociali, articolazioni istituzionali,
veri e propri contropoteri capaci di contrastare le politiche di
sfruttamento (dumping salariale, limitazioni dell’accesso al Welfare,
politiche di gestione dei confini e delle migrazioni, per fare qualche
esempio) che si avvalgono della frammentazione sociale della forza
lavoro e della stessa competizione fra i Paesi membri dell’Unione.
Questa azione combinata, non meramente resistenziale, deve essere
sperimentata su una molteplicità di livelli: la reinvenzione della
democrazia in Europa, in altri termini, non può essere confinata in
un’astratta dimensione istituzionale o simbolica (pensata secondo il
modello di uno Stato nazione allargato su scala continentale), ma prende
corpo nelle esperienze conflittuali che crescono in specifiche vertenze
e in specifici luoghi – ad esempio nelle “città ribelli” rappresentate
sul palco della Volksbühne dalle esperienze di Barcellona e La Coruña.
Queste
esperienze situate devono però trovare la loro espressione in una forza
politica transnazionale. Di quest’ultima abbiamo tuttavia pochi esempi,
e tutti scarsamente utilizzabili, per quanto le molte esperienze di
costruzione di reti a livello europeo rappresentino comunque una base di
riferimento essenziale. Registrando l’insufficienza dell’articolazione
nazionale della forma partito, ma anche del sindacato e dei movimenti,
l’iniziativa di DiEM 25 pone quantomeno l’urgenza di superare questa
impasse. E invita a tenere insieme proprio le dimensioni
tradizionalmente separate della politica, dell’azione sindacale e dei
movimenti sociali. Si tratta insomma di mettere a tema i limiti di un
internazionalismo fondato su basi di mera solidarietà o affinità
ideologica, e contemporaneamente di lavorare al superamento di quella
“divisione del lavoro” che affida la trasformazione sociale
all’intervento separato di diversi soggetti, ciascuno con una specifica
competenza. Un “partito” transnazionale, a cui pure qualcuno accenna,
non può semplicemente riprodurre su scala allargata la forma partito
così come ci è stata tramandata ma deve essere appunto espressione della
convergenza (e anche degli attriti) tra questi diversi soggetti. Il
punto non è, evidentemente, pensare a un lineare superamento della
distinzione tra partiti, sindacati e movimenti, ma dare positiva
espressione al moltiplicarsi dei punti di intersezione tra la loro
azione.
La questione della reinvenzione della democrazia si
incrocia qui necessariamente con quella delle trasformazioni del
capitalismo, del lavoro e delle stesse forme di vita in Europa. È un
tema di cui non si è parlato molto durante l’evento berlinese, se non
per denunciare l’immiserimento materiale e politico di settori sempre
più ampi di popolazione. Considerare i soggetti sociali semplicemente
come vittime dell’austerity (o delle politiche di controllo dei confini
nel caso dei migranti) finisce per riproporre la delega a una forza
politica incaricata di riscattare questi soggetti dalla miseria e dalla
subordinazione. Altra ci sembra che dovrebbe e potrebbe essere
l’ambizione di un progetto come quello di DiEM 25: legare cioè in modo
diretto la questione della democrazia al ruolo che una nuova
costellazione di forze materiali svolge nella produzione della ricchezza
sociale. Tutt’altro che marginali o sprovvedute, queste figure
produttive – per le quali la libertà di movimento è un esercizio
imprescindibile – costituiscono con le loro pratiche e con le loro lotte
la base fondamentale su cui può essere oggi impiantata una democrazia
non racchiusa nei confini nazionali.
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