mercoledì 10 febbraio 2016

Divertentismo a palla tra Sinistra Carina, Sinistra Checco-Negriera e Sinistra del Vermont



La costituente di Varoufakis sociale e non sovranista
Berlino. Presentato alla Volksbühne il movimento «Democracy in Europe Movement 2025» (DiEM)
Lo stile post-ideologico dell’economista greco: il suo appello rivolto ai radicali, democratici, verdi, alla sinistra

di Marco Bascetta, Sandro Mezzadra il manifesto 10.2.16
BERLINO L’attenzione mediatica per l’avventura di Yanis Varoufakis a Berlino non è certo mancata. Sala strapiena, giornalisti in coda, domande a raffica: così la conferenza stampa che ha aperto il meeting organizzato alla Volksbühne di Berlino per la presentazione del manifesto di DiEM 2025 («Democracy in Europe Movement 2025»). È un testo che ha l’ambizione di aggregare intorno a un programma pluriennale di democratizzazione dell’Unione Europea movimenti sociali, forze politiche, circoli intellettuali, associazioni, lavoratori della conoscenza, e artisti attivi sulla scena continentale.
Le risposte di Varoufakis sono state di estrema chiarezza ed efficacia soprattutto su un punto che figurava tra i più delicati: ovvero il rapporto tra la sua iniziativa e le posizioni che in diversi Paesi europei di fronte alla gestione neoliberale della crisi puntano a un recupero della sovranità e della moneta nazionale. Si tratta di posizioni condivise anche da diverse forze della sinistra, tradizionale e non. Per fare i nomi più noti che sostengono simili punti di vista si possono ricordare Oskar Lafontaine in Germania e Jean-Luc Mélenchon in Francia. La posizione dell’ex ministro delle finanze greco su questo punto è stata di inequivocabile rifiuto. Al centro della sua iniziativa c’è l’obiettivo di una ripoliticizzazione dello spazio e delle istituzioni europee, come antidoto alle tendenze alla frammentazione, alla chiusura e alla competizione. In poche parole come antidoto alla deriva verso una riedizione “post-moderna” degli scenari degli anni Trenta, un rischio su cui ha spesso insistito. Del discorso nazionale non possono che avvantaggiarsi le destre più o meno estreme, come del resto gli orientamenti elettorali in Europa ci stanno ripetutamente dimostrando.
La giornata di presentazione di DiEM alla Volksbühne si è articolata in lunghe conversazioni tematiche, secondo il modello di una jam session a cui hanno partecipato attivisti e intellettuali, operatori dei media, sindacalisti ed esponenti di innovative esperienze municipali, a partire da quella di Barcellona. Nessuno in rappresentanza di organizzazioni o gruppi, ma tutti provenienti da una pluralità di esperienze collettive. La discussione ha preso le mosse da una «mappatura cognitiva» della crisi europea, per poi concentrarsi su un’analisi più specifica della situazione economica e su quello che potrà essere nei prossimi mesi il ruolo di DiEM. La giornata si è conclusa con l’effettivo lancio del manifesto, in una sala affollata da centinaia di persone, con schermi allestiti all’esterno per coloro che non hanno trovato posto. Ne parleremo domani.
Durante la conferenza stampa, così come durante «talk real» (il talk show organizzato da Europan Alternatives, a cui ha partecipato lunedì sera), Varoufakis ha adottato uno stile marcatamente «post-ideologico», quasi da liberal di oltre Oceano. Non ha certo taciuto la sua militanza nella sinistra, ma si è rivolto a «tutti i democratici, liberali, verdi o radicali che siano». Poiché la questione al centro della governance europea, ha insistito Varoufakis, è un plateale svuotamento della democrazia, con la totale esclusione dei cittadini – del demos – dai processi decisionali. In quest’ottica l’esperienza dell’anno 2015 in Europa è stata illuminante, tanto per lo scontro tra il governo greco e la troika dei creditori quanto per la cosiddetta «crisi dei migranti» e i suoi riflessi sui rapporti tra i Paesi membri dell’Unione: l’acuirsi della frattura tra Est e Ovest, che si aggiunge a quella tra Nord e Sud, le crepe sempre più vistose all’interno dello spazio di Schengen. Quanto ai movimenti di profughi e migranti verso l’Europa, Varoufakis ha espresso ancora una volta posizioni molto chiare: di fronte a chi fugge dalla guerra e dalla povertà «non si possono fare calcoli costi-benefici» e l’Europa non può sottrarsi al dovere di fare i conti con la propria storia. Una storia che attraverso il colonialismo ha cambiato irreversibilmente gli equilibri mondiali.
L’ambizione che caratterizza il progetto di DiEM non è affatto modesta. Non si tratta infatti di un semplice appello alla difesa delle forme e delle procedure democratiche. Al contrario, è il contenuto sociale del processo quello che sostanzia politicamente la democrazia europea di cui qui si parla. A questo scopo la sinistra, così come la conosciamo e a maggior ragione dopo le numerose sconfitte subite in questi anni, non ha forza sufficiente. Ciò di cui c’è bisogno è una radicale innovazione politica, capace di costruire materialmente una democrazia che non esiste su scala continentale e appare radicalmente svuotata di legittimità e contenuti su scala nazionale.
Da questo punto di vista, Varoufakis ha sottolineato la rilevanza essenziale – all’interno di un processo che si qualifica come «costituente» – dell’azione autonoma dei movimenti e delle lotte sociali. Non a caso, il suo soggiorno a Berlino è cominciato domenica, con un intervento all’assemblea di Blockupy, la coalizione che ha organizzato l’assedio dell’Eurotower a Francoforte lo scorso 18 marzo.
Un movimento per la democrazia in Europa continua ad avere numerosi ostacoli sulla sua strada sebbene se ne colga appieno l’urgenza. Ed è inevitabile che questo stato embrionale del movimento si rispecchi nel carattere ancora generico e indefinito della stessa rivendicazione di democrazia su scala europea. Di questo risente naturalmente allo stato attuale anche il progetto DiEM. E tuttavia la ricchezza della discussione che si è aperta a Berlino, l’eterogeneità dei partecipanti e dei linguaggi, la tensione e perfino l’entusiasmo che l’hanno caratterizzata indicano chiaramente l’apertura di una possibilità politica realmente nuova. Saranno i prossimi mesi a dirci quanto efficace. 




«No al verticismo». Alla camera i dubbi sul nuovo partito

Sinistra italiana. Sei deputati attaccano sull'evento Cosmopolica, il battesimo del 'soggetto': poca condivisione, anzi nessuno ne sa nulla

di Daniela Preziosi il manifesto 10.2.16
Discussione «franca e leale», come si dice a sinistra quando qualcosa non va, ieri mattina nel gruppo dei deputati di Sinistra italiana. Si avvicina la data del big bang del nuovo soggetto ma qualche parlamentare è ancora scettico sull’appuntamento. In discussione non c’è la necessità o l’opportunità di tenere a battesimo in tempi rapidi il nuovo partito: il passo era stato annunciato già il 7 novembre scorso, quando i deputati di Sinistra ecologia e libertà, accogliendo quattro ex Pd (D’Attorre, Fassina, Folino, Gregori) ed altri di ritorno dal gruppo misto (Claudio Fava) ha cambiato nome in Sinistra italiana annunciando «l’inizio di un processo».
Ora il processo procede, e nelle tre giornate dal 19 al 21 febbraio al Palazzo dei congressi di Roma nascerà la nuova creatura. L’evento ha il nome immaginifico di «Cosmopolitica» (info su www.cosmopolitica.org, presto sarà in linea una piattaforma digitale che gli organizzatori descrivono con entusiasmo). Ma non tutto fila liscio in sala travaglio. Già due senatori, il sardo Luciano Uras e il pugliese Dario Stefàno, hanno pubblicamente espresso la loro resistenza a entrare nella nuova casa. Ieri invece alla camera sono stati almeno sei i deputati a avanzare altri dubbi su come viene organizzato l’evento. E su dove va a parare. L’accusa, in soldoni, è di «gestione verticistica» delle tre giornate, ed è rivolta a Nicola Fratoianni, coordinatore di Sel e uno degli uomini-macchina dell’evento. Si lamenta la «mancanza di condivisione», «di un processo partecipato», «di un progetto politico chiaro». Come verrà scelto il comitato dirigente provvisorio che uscirà dalle tre giornate? È vero che gli organizzatori giurano che tutto sarà deciso in quelle tre giornate: ma sarà proprio così?
C’è chi giura che non si tratta della rivendicazione del «partito delle istituzioni»; ma della segnalazione preoccupata del rischio di involuzione della «cultura politica» di Sel: da partito di governo a versione coeva anzi vintage di un gruppo della sinistra extraparlamentare.
Gli ultras di «Cosmopolitiche» considerano le obiezioni pretestuose. Dietro il malumore ci sarebbe la difficoltà di fondo di accettare «la perdita delle rendite di posizione». Tradotto: la preoccupazione per la poltrona. Perché, spiegano, se la preoccupazione è invece «che il processo sia partecipato, allora quella è di tutti, ma tutti davvero: non solo i parlamentari e quelli che sono qui con noi ma soprattutto quelli che verranno». La discussione è finita con il capogruppo Arturo Scotto che ha tirato le fila e trovato bandolo unitario, dando a tutti appuntamento a tutto il gruppo a stamattina per un volantinaggio a Ostia.
Ma non basterà a tranquillizzare gli animi. Il piccolo partito vira da forza di coalizione di centrosinistra a partito autonomo che ormai fuori ovunque dalle alleanze. A Milano l’ultima discussione è in corso. Resta il ’baluardo’ di Cagliari, ma dopo il voto un pezzo di Sel sarda, coalizzata con i dem, potrebbe ’autonomizzarsi’ dalla casa madre. Per non parlare della prospettiva delle elezioni politiche, quando arriveranno: l’Italicum non premia le coalizioni ma la lista che vince. Quindi non ci sarà nessuna alleanza con il Pd.
È qui la scommessa anche istituzionale del nuovo soggetto. O, detto con le parole dei perplessi, il salto nel buio: la pattuglia dei parlamentari e il battaglione degli amministratori sarà ridotto di molto, nel migliore dei casi. Nell’ultima assemblea nazionale perplessità sono state espresse anche dai rappresentanti dei mitici «territori», dal Friuli all’Emilia Romagna, alla Liguria, alla Calabria. 



I turbamenti della giovane sinistra milanese

Post primarie. La candidatura di Beppe Sala apre uno spazio politico inedito per quell'area che non può riconoscersi nel sindaco del partito della nazione. All'orizzonte si profila una lista unica con Prc, Possibile e Lista Tsipras che si pone l'obiettivo di includere tutti coloro che il prossimo giugno non voteranno l'ex manager dell'Expo. Resta il dilemma del candidato, sempre che Pippo Civati non decida di metterci la faccia per sostenere un progetto di cui non sono ancora stati definiti contorni e obiettivi. Nel frattempo, i milanesi di Sel sono in conclave per decidere cosa fare da grandi

di Luca Fazio  il manifesto 10.2.15
MILANO A Milano, il giorno dopo le primarie che hanno archiviato l’esperienza arancione di Giuliano Pisapia, la sinistra-sinistra improvvisamente si ritrova al centro della scena pur in assenza di contenuti chiari e di un progetto di lunga durata. Ci stanno lavorando da mesi, dicono che entro febbraio presenteranno una lista e un candidato. Lo sa anche Giuseppe Sala che quello spazio politico ancora senza direzione è destinato ad intercettare i voti di quei milanesi che a giugno non lo voterebbero neanche sotto tortura (almeno al primo turno). Sembra che il quasi sindaco manager abbia dedicato un pensiero carino ai “compagni di Sel” e a tutti i delusi in libera uscita che potrebbero metterlo in difficoltà in vista del ballottaggio: con il suo non esaltante 42% si è accorto che per vincere a Milano forse non basta guardare al centro.
Inutile nascondere che questo ritrovato protagonismo sta ringalluzzendo diversi soggetti e aree politiche da tempo rimasti ai margini, anche troppi, ma tutti sono consapevoli che l’operazione è molto complicata perché dopo cinque anni di governo della città la vera sconfitta è proprio la sinistra in tutte le sue articolazioni. Rimettere insieme i cocci è una faccenda quasi disperata. Nessuno lo nasconde. L’area che comprende Prc, Possibile e Lista Tsipras (più altri pezzi di comitati) sta cercando di convincere Pippo Civati ad accettare la sfida. Lui dice e non dice, ma mai come in questi giorni è tornato alla ribalta, prima spiega che non ha intenzione di candidarsi e poi lascia intendere che, chissà, magari a certe condizioni potrebbe anche farci un pensierino. Un buon metodo per occupare la scena e per farsi pregare, anche da quei pezzi romani di Sinistra Italiana che spingono per convincere (o costringere) i compagni milanesi di Sel rimasti incastrati con Francesca Balzani ad abbandonare l’ipotesi Sala mascherata in salsa arancione.
Pippo Civati ha sempre detto che preferirebbe una candidatura civica, ma fino ad ora nessuno è riuscito a pescare il jolly. Semplicemente perché non esiste una candidatura civica di alto profilo disposta a prendersi la patata bollente. A meno di clamorosi colpi di scena, rimane lui l’unica figura che potrebbe unificare tutti quei pezzi, anche poco dialoganti tra loro, che in questi giorni stanno sondando il terreno autonomamente. Ma non è detto che Civati abbia intenzione di metterci la faccia per sostenere un’operazione politica che senza un cambio di marcia rischia di somigliare alla solita aggregazione di ceto politico residuale incapace di inventare scenari e linguaggi nuovi. In assenza di un candidato forte (o presunto tale) c’è anche il rischio che in alternativa a Beppe Sala si formino più liste civiche variamente orientate a sinistra piene di politici di vecchia data in cerca di una seconda (o terza, o quarta) chance. Sarebbe comico.
In casa Prc (sono loro che insieme a Possibile stanno cercando la sintesi politicamente più spendibile) sono consapevoli della necessità e insieme della difficoltà di allargare il recinto tenendo insieme tutti quelli che per diverse ragioni non votano Sala: “Stiamo lavorando per qualcosa di più ampio della sinistra-sinistra, pensiamo a una lista civica unitaria e di sinistra, ambientalista e progressista capace di tenere insieme Prc, Possibile, pezzi di Sel, comitati di quartiere, esperienze che già lavorano nei territori, socialisti e comitati civici”. Renderla digeribile e votabile, è il compito più difficile. I più ottimisti sostengono che così facendo si potrebbe puntare al 10%, ma sarebbe meglio interpretare la realtà a una cifra sola. In ogni caso, anche se la questione potrebbe sembrare prematura, bisognerà poi capire come spendere quel capitale di voti in caso di ballottaggio. Va bene ricostruire un barlume di sinistra, ma per farne cosa?
A latere, ma nemmeno troppo, ci sono poi i tormenti di Sel che – probabilmente – non può permettersi di convergere con un triplo salto mortale su questo tentativo di ricostruzione di una sinistra informe che ancora non ha un orizzonte condiviso. C’è chi vorrebbe aggregarsi a una lista arancione con a capo Francesca Balzani per rendere meno disonorevole l’appoggio al manager di Expo, e chi invece sta pensando di abbandonare la partita. Il dibattito è aperto, anche se il film è ancora tutto da inventare.

Grande partecipazione di politici, economisti e movimenti alla Costituente di Varoufakis
Il partito transnazionale dell’Europa in movimento Una dimensione transnazionale per reinventare la democrazia. di Marco Bascetta, Sandro Mezzadra il manifesto 11.2.16
La forma in cui si è svolta la presentazione di DiEM 25 (Democracy in Europe Movement 2025) si è rivelata senz’altro di forte impatto. Entrata in scena da grande attore dell’anfitrione Yanis Varoufakis, solo sul palco della Volksbühne per circa una mezz’ora, pubblico foltissimo, attento per più di tre ore e molto partecipe. Al microfono si alternano esponenti politici, di partito e indipendenti, amministratori locali, attivisti dei movimenti, sindacalisti e nomi di grande risonanza come Brian Eno e, in video, Julien Assange, Ada Colau, la ex ministra della giustizia francese Christiane Toubira, Slavoj Zizek e l’economista americano James Galbraith. Molto significativa la presenza tedesca, con la segretaria della Linke Katja Kipping, il dirigente del sindacato metalmeccanico IG Metall Hans-Jürgen Urban e un’attivista della rete di movimento “Blockupy”. Ma non sono mancati interventi dall’Inghilterra, dalla Spagna, dal Portogallo, dall’Irlanda e da altri Paesi europei, con un forte protagonismo femminile che è stato uno dei segni più visibili ed efficaci del meeting. Colpiva però l’assenza di voci provenienti dall’Italia, rimasta ai margini dei nuovi processi politici europei.
L’impostazione comunicativa scelta si presta certo a numerose obiezioni e critiche. Nel complesso la serata è stata dominata dalla personalità di Varoufakis, attorno a cui ruota per il momento l’intero progetto di DiEM 25. Può destare perplessità anche la prevalenza di esponenti politici, sia pure spesso indipendenti, rispetto all’insieme eterogeneo dei soggetti a cui l’iniziativa dichiara di volersi rivolgere. Ne è derivata una certa ridondanza degli interventi, spesso rimasti all’interno di quella dimensione politica istituzionale che il progetto pan-europeista di Varoufakis si propone di eccedere. Nel suo impatto mediatico e spettacolare, poi, l’evento non può essere facilmente riprodotto. E rimane inoltre indefinito il modo in cui l’iniziativa possa articolarsi e consolidarsi nel tempo. Nondimeno, valutando la giornata del 9 febbraio nel suo insieme e nelle sue potenzialità, l’elemento dell’apertura e della proiezione in avanti ci sembra prevalere.
Si tratterà in ogni caso di sviluppare positivamente questa apertura dando consistenza agli obiettivi che l’iniziativa si propone e cominciando ad affrontare alcuni problemi che lo stesso testo del Manifesto ci consegna come irrisolti.
Questo vale in primo luogo per l’insistito riferimento alla democrazia, alla sua crisi e alla sua necessaria reinvenzione. Di tanto in tanto sembra emergere la tentazione di dare una soluzione semplice a queste difficoltà, immaginando una restaurazione delle forme classiche della democrazia rappresentativa e una loro semplice proiezione sul livello europeo. Anche se lo stesso Varoufakis ha sottolineato a più riprese che la democrazia «non è uno stato ma un processo» e che il deficit democratico delle istituzioni europee ha la sua origine nel progressivo svuotamento della rappresentanza negli Stati che continuano a essere gli attori principali nell’architettura dell’Unione: tanto più dopo l’impatto combinato della crisi dei debiti sovrani e di quella che viene definita dei migranti.
A noi pare che la crisi della rappresentanza abbia radici strutturali tanto nei contesti nazionali quando in quello europeo. La sfida di fronte a cui si trova un’iniziativa come quella di DiEM 25 è precisamente quella di reagire a questa situazione con uno sforzo di immaginazione e innovazione politica. L’Europa può essere lo spazio in cui sperimentare l’azione combinata di movimenti sociali, articolazioni istituzionali, veri e propri contropoteri capaci di contrastare le politiche di sfruttamento (dumping salariale, limitazioni dell’accesso al Welfare, politiche di gestione dei confini e delle migrazioni, per fare qualche esempio) che si avvalgono della frammentazione sociale della forza lavoro e della stessa competizione fra i Paesi membri dell’Unione. Questa azione combinata, non meramente resistenziale, deve essere sperimentata su una molteplicità di livelli: la reinvenzione della democrazia in Europa, in altri termini, non può essere confinata in un’astratta dimensione istituzionale o simbolica (pensata secondo il modello di uno Stato nazione allargato su scala continentale), ma prende corpo nelle esperienze conflittuali che crescono in specifiche vertenze e in specifici luoghi – ad esempio nelle “città ribelli” rappresentate sul palco della Volksbühne dalle esperienze di Barcellona e La Coruña.
Queste esperienze situate devono però trovare la loro espressione in una forza politica transnazionale. Di quest’ultima abbiamo tuttavia pochi esempi, e tutti scarsamente utilizzabili, per quanto le molte esperienze di costruzione di reti a livello europeo rappresentino comunque una base di riferimento essenziale. Registrando l’insufficienza dell’articolazione nazionale della forma partito, ma anche del sindacato e dei movimenti, l’iniziativa di DiEM 25 pone quantomeno l’urgenza di superare questa impasse. E invita a tenere insieme proprio le dimensioni tradizionalmente separate della politica, dell’azione sindacale e dei movimenti sociali. Si tratta insomma di mettere a tema i limiti di un internazionalismo fondato su basi di mera solidarietà o affinità ideologica, e contemporaneamente di lavorare al superamento di quella “divisione del lavoro” che affida la trasformazione sociale all’intervento separato di diversi soggetti, ciascuno con una specifica competenza. Un “partito” transnazionale, a cui pure qualcuno accenna, non può semplicemente riprodurre su scala allargata la forma partito così come ci è stata tramandata ma deve essere appunto espressione della convergenza (e anche degli attriti) tra questi diversi soggetti. Il punto non è, evidentemente, pensare a un lineare superamento della distinzione tra partiti, sindacati e movimenti, ma dare positiva espressione al moltiplicarsi dei punti di intersezione tra la loro azione.
La questione della reinvenzione della democrazia si incrocia qui necessariamente con quella delle trasformazioni del capitalismo, del lavoro e delle stesse forme di vita in Europa. È un tema di cui non si è parlato molto durante l’evento berlinese, se non per denunciare l’immiserimento materiale e politico di settori sempre più ampi di popolazione. Considerare i soggetti sociali semplicemente come vittime dell’austerity (o delle politiche di controllo dei confini nel caso dei migranti) finisce per riproporre la delega a una forza politica incaricata di riscattare questi soggetti dalla miseria e dalla subordinazione. Altra ci sembra che dovrebbe e potrebbe essere l’ambizione di un progetto come quello di DiEM 25: legare cioè in modo diretto la questione della democrazia al ruolo che una nuova costellazione di forze materiali svolge nella produzione della ricchezza sociale. Tutt’altro che marginali o sprovvedute, queste figure produttive – per le quali la libertà di movimento è un esercizio imprescindibile – costituiscono con le loro pratiche e con le loro lotte la base fondamentale su cui può essere oggi impiantata una democrazia non racchiusa nei confini nazionali. 

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