Un esame di civiltà per il Parlamento
Il diritto deve abbandonare la pretesa autoritaria di impadronirsi della vita delle persone
di Stefano Rodotà Repubblica 10.2.16
LA
STRADA fin troppo lunga verso un primo significativo riconoscimento
delle unioni civili continua a incontrare ostacoli visibilmente
pretestuosi anche quando si fa appello a grandi principi. È accaduto con
la critica all’utero in affitto, con l’invocazione dei diritti dei
minori e, infine, con il richiamo della libertà di coscienza.
MA
la prova politica che comincia oggi in Parlamento deve liberarsi da
strumentali richiami che vogliono impedire ancora una volta un risultato
di civiltà della cui importanza e urgenza i cittadini sono ormai ben
consapevoli.
La parola “coscienza” incontra sempre più spesso, e
spesso ambiguamente, la politica. Per ragioni tra loro diverse. La
volontà di affermare una forte convinzione morale o religiosa,
l’intenzione di manifestare un dissenso politico, il fine di
differenziarsi e di tenere vivo il pluralismo. È la rivendicazione di
una libertà di scelta diversa dalla linea del partito o della
maggioranza del gruppo parlamentare al quale si appartiene.
Una
rivendicazione che non sempre viene accolta. Ce lo ricorda la vicenda di
alcuni senatori del Pd che, durante la discussione sulla riforma
costituzionale, chiesero di votare in maniera difforme dalla linea del
partito, e si trovarono sostituiti nella commissione dove le votazioni
si sarebbero svolte. Ma abbiamo appena assistito ad un apprezzamento
della libertà di coscienza nelle variegate indicazioni sulle unioni
civili, com’è accaduto, tra mille polemiche, per i senatori del
Movimento 5Stelle. Intanto, si dilata l’area dove la richiesta di
libertà di coscienza si manifesta, da quando le questioni “eticamente
sensibili” hanno cominciato ad occupare il proscenio della discussione
pubblica. Così questa libertà è stata invocata anzitutto per i
parlamentari chiamati a dare le regole nelle materie del nascere,
vivere, morire, dei limiti e delle responsabilità della ricerca
scientifica, alle quali si sono poi aggiunte le scelte in materia
costituzionale.
Il bisogno di richiamare esplicitamente questa
libertà nasce dalla crisi di una storica prerogativa del parlamentare,
quella di esercitare “le sue funzioni senza vincolo di mandato” (così
l’articolo 67 della Costituzione). Ma, liberati formalmente da
quell’obbligo, gli eletti hanno poi conosciuto il ben più stringente
vincolo rappresentato dall’appartenenza ad un partito che, in sede
parlamentare, si trasforma nell’accettazione della “disciplina di
partito”. Un vincolo che può essere sciolto solo dallo stesso partito, o
gruppo parlamentare, che di volta in volta, e in casi ritenuti
eccezionali, può lasciare liberi i suoi di votare come meglio credono.
Ma che cosa diviene una libertà di coscienza concessa dall’alto,
subordinata al permesso dei superiori? Quanti parlamentari sono disposti
a portare fino in fondo la loro richiesta, che diventa una sfida, costi
quel che costi?
Per rispondere a queste domande, bisogna
riferirsi al contesto, mutevole, nel quale si discute di libertà di
coscienza. Negli ultimi tempi si è manifestata una forte nostalgia per
il vincolo di mandato. Lo ha fatto esplicitamente, fin dalle sue
origini, proprio il Movimento 5Stelle. E si è proposto di riconoscere
anche in Italia il diritto degli elettori di revocare il mandato a
singoli parlamentari, com’è previsto in altri paesi (negli Stati Uniti,
ad esempio, sia pure con limiti e applicazioni del tutto rare). Sono
reazioni evidenti ad un trasformismo parlamentare scandaloso e davvero
senza precedenti, frenato in un passato neppure troppo lontano
dall’esistenza dei partiti di massa e dalle forti connotazioni ideali
che ne costituivano il cemento. Scomparsi quei partiti, sostituiti da
oligarchie con bassa legittimazione popolare, ecco riemergere un bisogno
di rapporto diretto tra elettori e eletti, per garantire un controllo
sull’azione dei parlamentari e per inserire così proprio un embrione di
democrazia diretta nel contesto in crisi di quella rappresentativa. Non a
caso i parlamentari 5Stelle sono definiti “portavoce”, e non
“rappresentanti” dei cittadini.
Il tema della libertà di coscienza
deve essere valutato in questo quadro di tensione tra difesa
dell’autonomia del parlamentare (non posso “portare il cervello
all’ammasso”, si diceva un tempo), coerenza dell’azione
politico-parlamentare e suo controllo diffuso. Dobbiamo concludere che,
in questa dimensione, la coscienza individuale ha le sue ragioni che la
ragion politica non conosce?
Diciamo piuttosto che siamo di fronte
alla necessità di ripensare lo stesso ruolo del parlamentare, per il
quale la libertà nel voto può essere un modo per arricchire la
discussione pubblica. Si tocca così il nodo aggrovigliato del voto
segreto, sempre più presentato come un ostacolo alla trasparenza e alla
moralità del parlamentare. Ricordiamo, però, che il parlamento italiano è
diventato, e rischia di rimanere, un parlamento di nominati da una
élite ristretta, sempre più incline a premiare la fedeltà e a
restringere ogni possibilità di dissenso. So bene che uno spazio
sottratto all’occhio dell’opinione pubblica è assai più luogo di
imboscate e di manovre inconfessabili che opportunità per l’agire
libero. Ma possiamo risolvere un problema reale negando che esista?
Vero
è che gli impegni assunti dai partiti nei confronti dei cittadini che
li hanno votati esigono poi comportamenti collettivi in grado di
rispettarli, sì che non tutto può essere rimesso alla variabile opinione
del singolo parlamentare. È comprensibile, quindi, che vi sia una
valutazione politica dei casi in cui le ragioni della coscienza
individuale possono prevalere sull’omogeneità dei comportamenti di
gruppo. Ma quando le decisioni parlamentari diventano norme che incidono
direttamente sull’autonomia delle persone nel governare la loro vita,
la questione della libertà di coscienza deve essere considerata anche, o
soprattutto, da un diverso punto di vista.
Qui la libertà da
tutelare è, in primo luogo, quella della persona che deve compiere le
scelte di vita. Il problema, allora, non riguarda la libertà di
coscienza di chi stabilisce le regole: investe la legittimità stessa
dell’intervento legislativo in forme tali da cancellare, o condizionare
in maniera determinante, quelle scelte. Altrimenti si determina una
asimmetria pericolosa: la libertà di scelta dei legislatori può divenire
massima, quella dei destinatari della norma minima.
Il diritto
deve abbandonare la pretesa autoritaria di impadronirsi della vita delle
persone, di espropriarle del diritto fondamentale
all’autodeterminazione. La politica, prima di preoccuparsi del dosaggio
della quantità di libertà di coscienza somministrabile ai parlamentari,
dovrebbe seriamente chiedersi se una materia affrontata rientri
pienamente nella sua competenza o se questa spetti in primo luogo ai
diretti interessati. E, in questo caso, fermarsi, senza doversi poi
porre aggrovigliati e impropri problemi di libertà di coscienza. La
discussione sulle unioni civili si sarebbe giovata assai di questa
consapevolezza.
Questa linea non è volta a confinare ciascuno
nella sua sfera privata, ma pone in modo corretto il rapporto tra sfera
privata e sfera pubblica che, per essere riconosciuta, non deve
affidarsi alla propria invadenza. Al contrario, la sua legittimità
deriva in primo luogo dal rispetto per la competenza delle persone.
Martha Nussbaum, concludendo la sua appassionata analisi della libertà
di coscienza americana, ci ricorda che «l’eguale libertà di coscienza è
difficile da creare, e ancor più difficile da realizzare ». Punto
cardine del modo laico d’intendere il rapporto del cittadino con
l’intero sistema istituzionale.
La missione laica di Paola Concia: “Così batteremo gli oscurantisti”
L’azione di lobbying in Senato: il premier? Bravissimo
di Amedeo La Mattina La Stampa 10.2.16
Pantalone
e giacca di velluto verde, scarpe di vernice a fiori, sciarpone
arcobaleno girato un paio di volte attorno al collo, Paola Concia
percorre come un grillo il salone di Palazzo Madama, attraversa
corridoi, invita senatori e senatrici alla buvette, li arpiona, si
informa, cerca di convincerli: sta facendo “lobbying” a favore delle
unioni civili, la sua battaglia di una vita, quella per i diritti degli
omosessuali. Paola è dovuta andare in Germania per vedere riconosciuto
il suo amore. Nel 2011 ha detto «sì» a Ricarda Trautmann, criminologa di
Colonia, che le ha risposto «ja» nel Comune di Francoforte. Alla
cerimonia c’erano gli amici, i fratelli e pure le sue ex fidanzate.
È
stata deputata del Pd fino al 2013, l’unica lesbica dichiarata in
Parlamento, fa parte della direzione nazionale e non ha smesso di
seguire da vicino i temi dell’omofobia e dei diritti civili dei gay
(riuscì a far cambiare idea a Mara Carfagna, allora ministro per le Pari
opportunità del governo Berlusconi).
Ora eccola qui al Senato in
azione. Chiede lumi ad Anna Finocchiaro su come stanno andando le cose
in aula, quali pericoli dentro i voti segreti che chiedono «i talebani
della destra e del centro». Si ferma a parlare con la vicepresidente
Valeria Fedeli, vede passare Anna Maria Bernini, vicecapogruppo di Fi.
«Non ho avuto bisogno di convincerla, era già convinta: lei è
un’illuminata», sorride Paola. Infatti di lì a poco la Bernini dirà in
aula che voterà a favore della legge Cirinnà, adozioni comprese. Concia
arpiona la senatrice del Pd Emma Fattorini, studiosa di storia della
Chiesa contemporanea, della religiosità nelle società post-moderne e del
culto mariano. La docente alla Sapienza di Roma fa parte del gruppo
cosiddetto Cattodem che, in dissenso dal partito, sta presentando alcuni
emendamenti per affossare la stepchild adoption. «La conosco da anni.
Emma sostiene che l’adozione si tira dietro l’utero in affitto. Le ho
spiegato che non è vero: è un errore enorme sovrapporre le unioni civili
alla maternità surrogata. È una trappola culturale e politica
organizzata da coloro che non voglio riconoscere nessun diritto alle
coppie omosessuali. Purtroppo questo tarlo si è diffuso tra gli
italiani». Emma Fattorini riconosce che non c’è automatismo, ma comunque
la possibilità ci sarebbe: «E voglio evitarla in maniera assoluta, la
maternità surrogata, e lo dico da femminista».
Paola sbuffa,
allarga le braccia. «Ma come fa una come te a cadere in questa trappola
culturale. Emma, dai, non puoi accodarti agli oscurantisti che
avvelenano i pozzi. E poi perché lo stesso discorso non lo fate per le
coppie eterosessuali sterili che ricorrono alla maternità surrogata dal
1983. Sì, perché una legge del 1983 riconosce l’adozione anche di figli
procreati all’estero da altre donne». Emma ascolta, scuota la testa,
abbraccia Paola, le dice: «Mi dispiace ma non mi hai convinta». Concia
se ne va un po’ sconsolata: «Per fortuna che Renzi sta tenendo botta:
nessun segretario del Pd e dei partiti di sinistra in cui ho militato, a
partire dal Pci, è stato così determinato. Nonostante sia cattolico.
Bravo».
Un dibattito fuori dalla Storia
di Massimo Gramellini La Stampa 10.2.16
Da
oggi il Senato si esprime sulle unioni civili e si divide sull’adozione
del figliastro, che gli ossessionati dall’inglese chiamano stepchild
adoption. Renzi, qui in versione di sinistra, ha deciso di non
stralciarla dal disegno di legge Cirinnà, affidando la responsabilità di
una eventuale bocciatura ai cattolici intransigenti del suo partito e a
quelli del movimento Cinquestelle, cui Grillo ha lasciato libertà di
coscienza.
Il rispetto per la buona fede di chi avversa
l’adozione del figliastro è fuori discussione. Accanto agli
opportunisti, ai moralisti incoerenti e ai talebani, la piazza del
Family Day ospitava tante persone che sono sinceramente e profondamente
convinte che i figli possano crescere solo con genitori di sesso
diverso. Riconoscono che le famiglie cosiddette naturali non siano
esenti da disfunzioni in grado di dare lavoro a psicanalisti e cronisti
di nera, ma difendono il principio della loro unicità.
E in nome
di quel principio ritengono giusto vietare l’estensione di certi
diritti, cioè di certe possibilità, ad altri esseri umani.
I
fautori della conservazione parlano, però, come se il disegno di legge
in votazione al Senato plasmasse dal nulla una nuova realtà. Non è così.
La «Cirinnà», con grave ritardo rispetto al resto d’Europa, si limita a
regolare una situazione già esistente. In Italia ci sono centinaia di
creature con un solo genitore biologico che ha un compagno o una
compagna del suo stesso sesso. Cosa succederebbe se il genitore morisse e
l’adozione del figliastro da parte del partner non entrasse in vigore?
Che quei bambini e adolescenti verrebbero strappati alla famiglia che li
ha cresciuti e ributtati sulla giostra degli orfanotrofi.
Prima
di dare qualsiasi risposta è sempre utile capire quale sia la domanda. E
qui la domanda è: quei bambini vanno tutelati, sì o no? Se uno ha la
forza di dire no, ha una posizione diversa dalla mia - il che può essere
un titolo di merito - ma anche da quella della stragrande maggioranza
delle nazioni occidentali, dove l’adozione del figliastro è da tempo
un’ovvietà che non ha affatto disintegrato la famiglia tradizionale,
tanto è vero che in quei Paesi nascono molti più figli che nel nostro. E
forse nascono perché l’attenzione verso la famiglia tradizionale si
esprime in politiche fiscali e servizi sociali adeguati. Non limitandosi
a impedire ad altre famiglie di esistere.
La contrapposizione
tra guelfi e ghibellini del sesso è fuori dalla Storia e ormai anche
dalla cronaca. In una democrazia i diritti non si elidono, si
aggiungono. Concederne alle coppie gay non significa sottrarne a quelle
etero. Significa prendere atto della vita vera e delle sue diversità.
Avendo coscienza che certi processi sono ineluttabili e vanno solo
armonizzati e regolati. La macchina dei diritti civili prevede il freno,
ma non la retromarcia.
Nessun commento:
Posta un commento