giovedì 4 febbraio 2016

E' l'ora del trasformismo reattivo: è sempre l'ex sinistra che rigenera la destra

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Michel Onfray: «La civiltà europea è finita. Chi di noi sarebbe disposto a morire per i nostri valori?»
Il filosofo francese presenta in anteprima mondiale il libro «Pensare l’Islam»
di STEFANO MONTEFIORI, corrispondente a Parigi

Olivier Roy : Sono già tra noi,  pericolosi i nichilisti (senza causa) della Jihad 

intervista di Lorenzo Cremonesi Corriere 4.2.16
Fascinazione per la morte, collettiva ma soprattutto individuale, cercata, glorificata, idealizzata nell’autoimmolazione vista come supremo atto eroico. Oltre a ciò, ignoranza della storia, della tradizione islamica e del Paese di residenza, sradicamento dalle comunità in cui si vive, esistenze separate in piccole cellule quasi famigliari: sono le caratteristiche base di quelli che Olivier Roy definisce i «nuovi nichilisti della jihad». Un fenomeno che, secondo lo studioso francese, è tipico dell’Europa occidentale e ha invece poco a che fare con i combattenti di Isis in Medio Oriente. Osserva: «Il Califfato in Siria e Iraq avrà un suo decorso storico legato alle dinamiche regionali e presto potrebbe venire persino battuto. Ma i giovani nichilisti islamici europei sono a casa nostra, destinati a restare, casomai potrebbero trovare un’altra causa per cui combattere». 
Chi sono i nichilisti islamici? 
«Un fenomeno molto francese. Sono giovani, figli di immigrati di seconda o terza generazione. In genere prima si radicalizzano e solo in un secondo tempo aderiscono all’Islam salafita più estremo. Un’ideologia che non richiede grandi conoscenze storiche o teologiche. L’azione del singolo adepto viene esaltata in quanto tale, svetta dalla tabula rasa della conoscenza. I suoi nuovi seguaci non sono frutto dell’estremismo islamico, bensì artefici dell’islamizzazione dell’estremismo. Spesso sono vecchi compagni di scuola, vicini di casa sin da bambini. L’amico sposa la sorella dell’amico. Creano nuclei famigliari chiusi. Con loro gli imam moderati possono fare poco. Hanno linguaggi diversi da quelli delle moschee tradizionali. In realtà sono profondamente occidentali: di madrelingua francese, parlano molto meglio dei loro genitori, comunicano sulla Rete, hanno bevuto alcol, fumato spinelli, fatto il filo alle ragazze in discoteca». 
Ma perché nichilisti? 
«Sono affascinati dalla morte. La cercano, la predicano e coltivano intimamente, è parte della loro identità individuale e di piccolo gruppo che si considera eletto. Vogliono morire, per loro è un onore farlo combattendo, dà senso alle loro esistenze. In questo modo si differenziano dai gruppi terroristici classici, per i quali restare in vita è uno dei doveri fondamentali per poter garantire la continuità del proprio impegno nella lotta. In secondo luogo, non credono in un ideale utopico, non lavorano per una società migliore, non cercano di militare in partiti politici o associazioni. Anche quando arrivano in Siria, la loro interazione con la popolazione locale resta praticamente nulla. Non cercano di migliorare le condizioni economiche dei siriani, non aiutano i civili, non sono medici o infermieri, non si interessano ai problemi dell’amministrazione. Sono arrivati per la jihad, vogliono combattere e sono disposti a morire al più presto». 
Il nichilismo è parte integrante della tradizione occidentale. Pensiamo ai nichilisti russi dell’Ottocento, alla filosofia di Nietzsche, al movimento anarchico, alla violenza dei Freikorps tedeschi dopo la Prima guerra mondiale, all’eversione dopo il Sessantotto. Lei a chi paragonerebbe i nuovi jihadisti? 
«Alla Banda Baader-Meinhof. Come i jihadisti, che rifiutano i genitori assimilati in Europa, i terroristi tedeschi erano in rotta con la generazione dei padri, accusata di aver sostenuto il nazismo senza ribellarsi. Entrambi i gruppi lottano per difendere un idealizzato, ma vagamente definito Lumpenproletariat universale; i tedeschi criticavano i partiti della sinistra, così come i jihadisti rifiutano contatti con l’Islam istituzionale in Francia e altrove. Anche i tedeschi esaltavano il suicidio. Inoltre sono movimenti globalizzati. I tedeschi andavano nei campi palestinesi in Libano, in Libia, in Siria, nello Yemen. Isis predica la guerra santa ovunque. In più però i jihadisti hanno una fascinazione estrema per la violenza fine a se stessa, i cui precedenti sono più recenti». 
Per esempio? 
«Penso al massacro di Columbine nel 1999, quando due studenti armati uccisero 12 compagni di liceo e ne ferirono altri 24. I due alla fine si uccisero. La polizia scoprì poi che avevano filmato tutti i preparativi dell’attentato. Se fosse avvenuto oggi, li avrebbero trasmessi sui social, più o meno come fanno gli uomini di Isis. A colpire è l’esaltazione dell’azione di uccidere e il bisogno di renderla pubblica come strumento di autoaffermazione. Una logica simile spinse nel 2011 il 32enne Anders Behring Breivik a massacrare 77 giovani norvegesi sull’isola di Utøya. C’è qui un legame profondo tra nichilismo e orgoglio. I jihadisti, che si sentivano al margine, uccidendo e uccidendosi si collocano finalmente al cuore dell’attenzione pubblica. Prima si radicalizzano e solo in un secondo tempo scelgono l’Islam nella sua versione più estrema. Ma tutto questo non c’entra più con la disperazione delle banlieue. Gli autori dell’attacco contro “Charlie Hebdo” il 7 gennaio 2015 e di quello a Parigi il 13 novembre avevano poco a che vedere con il mondo delle banlieue. Sono invece affascinati dalla violenza, vista in mille forme su internet. A Marsiglia le banlieue imperano, ma ci sono gruppi criminali che danno armi e sensazioni forti ai giovani. Di conseguenza, qui i jihadisti si contano sulle dita di una mano. A Nizza invece la comunità araba è più ricca e integrata, eppure i jihadisti arrivano più facilmente dai ranghi della sua classe media». 
Ma se la radicalizzazione si manifesta prima dell’Islam fondamentalista, perché scegliere quest’ultimo? 
«È l’ideologia che in questo momento domina il mercato della violenza terrorista. La sinistra, anche quella estrema, non li interessa: non è abbastanza radicale, non ha una dimensione globale e non coinvolge affatto questi giovani. Sono degli sradicati, non si riconoscono nei movimenti di protesta tradizionali europei, non condividono le battaglie per i diritti civili, per esempio per i matrimoni gay. Sono ribelli senza una causa, arrabbiati sicuramente, ma alla ricerca di un obiettivo per cui combattere». 
E la trovano nell’Islam? 
«Risponde ai loro bisogni. Inoltre, per chi viene da una famiglia musulmana, c’è la tradizione ormai ventennale dei volontari andati a combattere in Afghanistan, Cecenia, Bosnia, poi approdati ad Al Qaeda e ora nelle file di Isis». 
È caduto il tabù della guerra, così come ha dominato l’Europa uscita dalle ceneri del secondo conflitto mondiale? 
«I jihadisti europei vivono in un immaginario scenario di guerra permanente. Ma non ha alcun contesto storico, non sanno neppure che cosa sia stata la Seconda guerra mondiale. La loro guerra viene da quella virtuale dei videogame. Le Brigate rosse e i movimenti di quella stagione avevano come riferimenti la guerra partigiana contro il nazifascismo, i miti della Resistenza, la Rivoluzione russa. I jihadisti non hanno nulla di tutto questo, si muovono in un vuoto culturale e politico. Non a caso scelgono il filone salafita che rifiuta qualsiasi autorità, predica ai giovani che possono arrivare alla verità ed essere maestri di loro stessi semplicemente combattendo». 
Possono diffondersi in Italia? 
«Non lo credo. In Italia avete piccole comunità islamiche e poche di seconda o terza generazione. Inoltre da voi c’è l’associazione degli italiani convertiti all’Islam, molto attiva e presente per frenare i fenomeni di radicalizzazione. Ma senz’altro il terrorismo crea adepti e grande attenzione mediatica: la voglia di imitarlo può diventare un problema grave». 
Dobbiamo avere paura dell’Islam? 
«Non dell’Islam, ma del radicalismo. Il mio libro intende smentire proprio le teorie di chi identifica sempre e comunque il primo con i secondi».

Michel Onfray “Capire le ragioni di questo odio è l’unico modo per vivere insieme”
intervista di William Bourton Repubblica 4.4.16
«Di questi tempi è difficile pensare da atei», lamenta Michel Onfray, ma con questo spirito ha letto il Corano, sura dopo sura. Secondo il filosofo francese, «l’islam terrorista è stato creato in parte dall’Occidente bellicoso». Nel suo ultimo saggio, “Pensare l’islam”, appena pubblicato da Ponte alle Grazie, Onfray si propone di ragionare sul ritorno del religioso, «che in Occidente ha preso la forma dell’islam», nello spirito di Spinoza: «fuori da ogni passione, senza odio e senza venerazione», «solo per comprendere»…
Dopo aver letto il Corano ha constatato che alcune sure invitano alla guerra, al massacro degli infedeli e così via, mentre altre invitano all’amore e alla misericordia. Ci sono due modi per essere musulmani?
«Sono tanti quanti sono i lettori… È lo stesso per qualsiasi libro, in cui si può sempre estrapolare una frase per far dire al suo autore il contrario di quello che dice tutta l’opera. Penso a Nietzsche, che era stato strumentalizzato politicamente da certi nazisti. Il Nuovo Testamento consente di giustificare sia il pacifismo che il bellicismo. Lo stesso vale per il Corano».
Anche l’Antico Testamento trabocca di versetti che esortano a «colpire col filo della spada» o a «trafiggere di frecce», ma non si trova più in giro nessun cristiano che vi attinga una giustificazione per i suoi crimini… «Perché il cristianesimo è una religione in declino, e di conseguenza la civiltà giudeo- cristiana non ha più gli strumenti della violenza. La Chiesa del Concilio vaticano II prende atto di questa incapacità di potenza e finge di scegliere quello che le viene imposto. Ma per arrivare a questo c’è voluto un buon mezzo secolo di Ragione de-cristianizzatrice».
Alcuni sostengono la necessità di un “aggiornamento” del Corano, come il codice del diritto canonico fu “aggiornato” nella seconda metà del XX secolo, sotto la spinta di papa Giovanni XXIII… «Giovanni XXIII convoca il concilio Vaticano II perché la Chiesa è sfinita, e scarica la zavorra per salvare il cristianesimo. Il cristianesimo diventa un umanesimo insipido, spogliato del sacro e della trascendenza. Dio non è più al centro del dispositivo cristiano: lo ha sostituito l’uomo. Ma per arrivare a questo è stato necessario un impiego della ragione critica durato secoli. La totalità del mondo islamico, dall’Egira in poi, non ha ancora prodotto pensatori come Occam o Erasmo, Montaigne o Voltaire, Nietzsche o Freud».
Lei denuncia ”la politica islamofoba portata avanti dalla Francia”. L’islam terrorista risponde all’Occidente bellicoso?
«Difendo il diritto di pensare il terrorismo al di fuori dell’alloro e dell’anatema. Per farlo, inscrivo il terrorismo nel lungo termine. Da dove viene il terrorismo? Che cos’è? Quali sono le sue cause? Possiamo contrastarlo solo se sappiamo che cosa lo produce. Fra le cause – e sottolineo il plurale perché non è la sola – di quella che von Clausewitz chiamava la piccola guerra e che ha per nome terrorismo, c’è la risposta del debole al forte, che dal 1991 in poi si è impegnato a fianco di Bush per «bastonare» un certo numero di Paesi musulmani, con il pretesto che minacciavano la nostra sicurezza».
A novembre Lei aveva rinunciato provvisoriamente a pubblicare il suo libro. Perchè?
«La stampa francese della sinistra di governo ha preso a sparare su di me. Dicevano che facevo il gioco del Fronte nazionale. Una delle mie affermazioni era stata ripresa e distorta dai media dello Stato islamico. Ero islamofilo e islamofobo… Dal momento che “Pensare l’islam” sarebbe dovuto uscire nella settimana dell’anniversario degli attentati contro Charlie Hebdo, ho scelto di soprassedere alla pubblicazione. Volevo evitare di entrare nella trappola che mi tendono in questo periodo di commemorazione, che necessitava semmai di riflessione».
(Copyright Le Soir. Traduzione di Fabio Galimberti)

“Basta porte aperte solo chi rispetta i valori dell’Europa potrà restare fra noi”
La scrittrice di origine somala Ayaan Hirsi Ali e il filosofo francese Michel Onfray a confronto sulla crisi dei migranti e il terrorismo Due prospettive diverse su temi che riguardano anche sicurezza e libertà di Ayaan Hirsi Ali Repubblica 4.4.16
Libertà o sicurezza? Due attacchi a Parigi nel 2015 hanno costretto la Francia a proclamare uno stato di emergenza che è ormai giunto al suo quinto mese. In pratica, questo significa che lo Stato può impedire la libertà di movimento, la libertà di associazione, la libertà di stampa e di parola, arrestare, fermare e interrogare persone sospettate senza la presenza di un avvocato e molto altro. Dovendo trovare un compromesso tra libertà e sicurezza, oggi i francesi hanno chiaramente optato per meno libertà e più sicurezza.
Gli attacchi terroristici di Bruxelles possono portare i belgi e forse altri paesi europei a rivedere quel delicato equilibrio tra libertà e sicurezza. Qualunque sia l’esito di questa scelta, una cosa è certa: ci saranno altri attacchi di questo genere e dopo ognuno di essi i governi eroderanno ulteriormente le libertà dei cittadini europei, senza per questo farli sentire minimamente più sicuri.
Non sono proprio queste libertà ad avere reso l’Europa e il resto dell’Occidente così unici? Lo stato di diritto, i controlli e gli equilibri costituzionali, un sistema giudiziario imparziale e istituzioni educative che instillavano nei cittadini il valore di tutte queste cose: non erano queste le caratteristiche dell’Occidente che ho trovato più impressionanti quando arrivai qui come immigrata?
Gli immigrati musulmani in Europa sono diversi per età, paese di provenienza, sesso, lingua e per il reddito di cui godevano prima di intraprendere il viaggio verso l’Europa. Tuttavia, essi hanno un certo numero di cose in comune. Tutti provengono da società che non sono libere. Hanno atteggiamenti nei confronti della religione, della violenza, del sesso, del denaro e del tempo che sono radicalmente diversi da quelli degli europei.
Sulla base dei dati degli ultimi cinque decenni o giù di lì, possiamo vedere che le nazioni europee che hanno accolto questi immigrati lottano per integrarli. Non hanno totalmente fallito. Molti immigrati musulmani (ero una di loro) si sono adattati: utilizzando le libertà che hanno trovato in Europa per imparare, educare se stessi e i loro figli, trovare un lavoro retribuito, avviare imprese, votare e prendere parte alla politica e prosperare in molti modi. Il problema è che queste persone adattate non sono necessariamente la norma: esse coesistono piuttosto a disagio accanto ad altri membri delle loro comunità che vedono l’”adattamento” alle norme occidentali con notevole sospetto.
Allora, che cosa si deve fare?Abbiamo un bisogno urgente di rivedere e correggere vari trattati, leggi e misure politiche che si stanno dimostrando tristemente incapaci di proteggere le libertà fondamentali e i valori che hanno reso uniche le società occidentali.
In primo luogo, abbiamo bisogno di limitare e gestire in modo più intelligente il flusso di immigrazione. Abbiamo bisogno, poi, di creare un’infrastruttura concepita per accelerare il processo di adattamento. L’obbligo è quello di fare in modo che l’immigrato prenda familiarità con quei valori.
In terzo luogo, è fondamentale che i governi europei stabiliscano un modo efficace di rimpatriare coloro che non sono in grado o non vogliono adattarsi. In quarto luogo, abbiamo bisogno di una revisione dei sistemi di giustizia penale in Europa.
In quinto luogo, il sistema di residenza permanente e di cittadinanza dovrebbe essere aggiornato per riflettere la realtà sul terreno. Chi ha dimostrato nel corso degli anni di accettare i valori della società a cui cerca di unirsi merita di acquisire la cittadinanza.
In sesto luogo, l’Europa deve smettere di fingere che la stabilizzazione del mondo musulmano sia un problema di qualcun altro.
Infine, riconosciamo che siamo in guerra. Questa guerra è profondamente asimmetrica, senza dubbio, ma quello che abbiamo visto a Parigi e Bruxelles non può più essere semplicemente liquidato come terrorismo.
(Copyright Ayyan Hirsi Ali 2016. All rights reserved Traduzione di Luis E. Moriones) 

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