venerdì 5 febbraio 2016

Un'intervista a Mick Jagger su rock e industria culturale


Mick Jagger racconta Vinyl, quando il rock divenne un’industria 

Intervista. Mick Jagger parla della nuova serie Hbo ambientata nella scena musicale newyorchese dei ’70, prodotta insieme a Martin Scorsese e in onda dal 15 febbraio. «Volevo raccontare il dietro le quinte delle etichette discografiche e i personaggi inquietanti che giravano intorno. L’ho immaginata nella Grande mela perché lì stava succedendo letteralmente di tutto»

Luca Celada Manifesto LOS ANGELES 5.2.2016, 0:30 
Vinyl è il titolo dall’inflessione retro-nostalgica che rimanda a una stagione transitoria del rock: i primi anni ‘70 quando la musica prodotta dalla controcultura sixties veniva definitivamente cooptata da un’industria discografica che l’avrebbe traghettata in un business multimiliardario. È il soggetto dell’ultima fiction HBO prodotta da Mick Jagger e Martin Scorsese e firmata da Terry Winter, già produttore esecutivo de I Soprano e Boardwalk Empire (oltreché sceneggiatore di Wolf of Wall Street). Pedigree da grandi occasioni quindi per una serie «tematica» che secondo l’uso corrente rivisita e romanza un momento «topico» della modernità recente e che vedremo a partire dal 15 febbraio anche in Italia in contemporanea con gli Stati uniti su Sky Atlantic HD.
Il protagonista interpretato da Bobby Cannavale è Richie Finestra, fondatore dell’ American Century, una label indipendente di New York che ha visto tempi migliori. In apertura del pilota (diretto da Scorsese), Finestra e i suoi associati stanno cercando di chiudere la vendita della società a un colosso tedesco (che potrebbe ricordare una BMG…). I compari discografici sono figli della scene newyorchese e hanno qualche problema a rapportarsi ai severi dirigenti teutonici – soprattutto nel reparto contabile. L’affare infatti dipende dal tentativo di mettere sotto contratto i Led Zeppelin che Finestra dà come cosa fatta. In realtà non è proprio così e gli impresari devono tornare precipitosamente a New York per cercare di chiudere la trattativa…Comincia così una trama a base di crisi di liquidità, criminalità organizzata, volubili rock star, groupies e dosi industriali di stupefacenti. Gli ingredienti della produzione con il tocco «rock» di Scorsese, rimanda in parte a Casino, ai Sopranos a Quei Bravi Ragazzi e allo stesso Wolf of Wall Street. Scorsese, assistente operatore e montatore di Woodstock, ha da sempre un rapporto intimo con il rock e qui la colonna sonora diventa protagonista anche attraverso la collaborazione con Jagger (sugli Stones il regista aveva già prodotto il concert-doc Shine a Light, nel 2008). Il rock, afferma Scorsese è stato, «l’avanguardia della cultura e del gusto popolare, compresa la moda, creato da persone capaci di produrre immagini indimenticabili. Capaci in qualche modo di aprire varchi culturali, visivi, sonori anche attraverso lo stesso stile di vita». In Vinyl a fianco di Cannavale ci sono Olivia Wilde (Devon Finestra compagna di Richie), Ray Romano (il braccio destro Zak Yankovich) e Juno Temple nei panni della giovane aspirante produttrice della American Century (Jamie Vine). Una delle band che scrittura sono i Nasty Bits guidati da Kip Stevens, un imprevedibile frontman interpretato da James Jagger, ventinovenne figlio di Mick e Jerry Hall. Abbiamo parlato via Skype con suo padre che di anni ne ha 72, e sta preparando una tournée sudamericana…. 

Come nasce l’idea di ambientare una serie nel mondo della musica e nello specifico nei ’70? 

L’idea mi girava per la testa da molto tempo. Ma quello che mi interessava era raccontare da dentro l’industria discografica, un mondo così pieno di personaggi idiosincratici, una collezione di uomini d’affari, truffatori e trafficoni. Mi è sembrato sfondo ideale per una fiction – anche se è solo uno sfondo. Poi servono una storia e dei personaggi altrettanto interessanti. L’abbiamo ambientata nel 1973 con molti flashback nei 60 per rivelare i retroscena del protagonista. E poi New York perché quello fu un periodo particolarmente fertile per la musica. È stato anche l’anno dell’uscita di Mean Streets, quindi era un momento che avevamo vissuto sia io che Marty (Scorsese, ndr) 

Quanto delle storie raccontate nella sceneggiatura è basato su vostre esperienze dirette? 

Richie, il personaggio interpretato da Bobby Cannavale è ovviamente inventato, ma certo nel suo carattere è facile ritrovare volti che abbiamo conosciuto, personaggi veri. Abbiamo anche fatto molta ricerca, intervistato gente dell’ambiente, studiato gergo e intonazioni. Come spesso avviene anche l’industria discografica ha il proprio «dialetto». E avendo un’idea precisa in base alle mie esperienze ho quindi dato il mio input. 

Uno dei protagonisti poi è tuo figlio James… 

Ha cominciato ad interessarsi al cinema quando abitava a Ny; ha lasciato gli studi e ha studiato in varie scuole, recitato in alcuni film, piccoli progetti indie. Poi si è interessato di musica e per un po’ ha avuto una band.ù 

Il suo ruolo nella serie sembra ispirato a te… 

Abbiamo parlato abbastanza in dettaglio del personaggio e dei suoi retroscena. Allo stesso tempo non volevo sommergerlo di consigli. Credo che alla fine abbia creato lui da solo Kip Stevens. Non credo che sia plasmato esattamente su di me – è una sua interpretazione basata su un mix di band proto-punk della scena newyorchese dei ’70. C’è un pò di Ziggy, un pò di Richard Lloyd (dei Television, ndr). Insomma c’è dentro un sacco di gente. 


A proposito di Ziggy, uscite poco sopo la sua scomparsa… 

Con David eravamo amici e la sua morte è stata un duro colpo. Insieme abbiamo passato un bel periodo, ci scambiavamo idee musicali e per gli spettacoli. Parlavamo dei nostri concerti e di cinema e molto di… abbigliamento (ride, ndr). Avevamo parecchio in comune. 

C’era anche della rivalità fra voi e in generale fra le diverse band del periodo? 

Credo che tutti all’inizio a Londra ascoltassero quello che facevano gli altri e con David ne parlavamo. Mi diceva ‘ho scritto questo pezzo, Jean Genie – e mi ricorda molto te’…e io rispondevo che a me non sembrava proprio. Scherzavamo, insomma. Ma sono sempre andato a vedere i concerti degli altri: i Led Zeppelin facevano performance strepitose al Madison Square Garden e io ero sempre in prima fila. Non credo ci fosse rivalità anche se la stampa chiaramente montava quella fra gli Stones e i Beatles, ma negli anni ‘70 era finita perché loro si erano sciolti. Sì certo, un po’ di competizione c’era, ma soprattutto ci interessava tenere d’occhio quello che gli altri artisti realizzavano, evoluzioni e tendenze. 

Gli anni in cui è ambientata la serie furono anche di grande transizione musicale. Vi siete mai sentiti spiazzati dall’evoluzione degli stili e delle mode? 

Era un momento interessante perché stavano nascendo tante cose. Soprattutto a New York cominciava la disco, poi la dance elettronica e il punk. Durò poco ma ebbe una grande influenza fra cui sputtanare tutto quell’ «art rock» che non mi è mai piaciuto e comunque non mi riusciva (ride), non ero abbastanza bravo. Erano tutte influenze che si intrecciavano in modo entusiasmante. Ricordo che in giro si ballava tanta musica latina, precorreva la disco music. Un pò come in Vinyl la band di James – i Nasty Bits – prepara il terreno ai Sex Pistols. Poi c’era il Glam Rock e tutto questo avveniva allo stesso momento. E come band fummo molto influenzati soprattutto nel nostro disco più newyorchese, Some Girls. Anche se lo abbiamo registrato a Parigi è stato frutto della scena newyorchese e ha delle canzoni ispirate al punk, almeno obliquamente. 

Un tema centrale di Vinyl è l’intenso sfruttamento degli artisti da parte delle case discografiche. Era realmente così? 

Assolutamente. Anch’io sono stato sfruttato all’inizio della carriera, come peraltro avviene sempre. Il nostro show non se ne occupa ma se andiamo indietro ai ‘60, ‘50, ‘40, nel dopoguerra era ancora peggio. Gli artisti venivano pagati poco o nulla, i neri in particolare, certo, ma in realtà tutti i musicisti erano sfruttati. Ti davano il 3% di royalties ma intanto, quando ti trattenevano le spese non ti restava nulla. Poi nei ‘70 con l’avvento delle mega band e le vendite vertiginose del rock, ci rendemmo conto del giro di denaro e cominciammo a pretendere di essere pagati. E le cose cominciarono a girare, ma poi è arrivata l’era della pirateria e dei file scaricati gratis dalla rete. La verità è che se guardi l’industria della musica c’è stato un periodo d’oro diciamo dal 1970 al 1995 in cui gli artisti sono stati ben pagati, poi basta. Quindi su cento anni ce ne sono stati giusto 20 realmente buoni…. 

A proposito di anni, il rock non doveva mai invecchiare, e invece? 

Quando ho compiuto 30 anni la gente ha cominciato a chiedermi «beh, che fai, ti ritiri?». Nessuno era arrivato a quell’età e sembrava impossibile continuare a suonare oltre. Certo, c’erano un sacco di cantanti più anziani. In realtà neanche io ci avevo mai riflettuto sul serio. Pensavo semplicemente di continuare fin quando ci sarebbe stato qualcuno disposto ad ascoltare. Non è mica una squadra di calcio, non c’è nessuno che ti prende a calci e se ti riguardi vai avanti… Naturalmente non avrei immaginato di arrivare a 70 anni ancora sul palco, ma il modello del business ormai è cambiato e quando c’è in ballo tanto denaro, soprattutto nei tour, tutti ti incoraggiano a continuare. E se ti diverti ancora, perché diavolo dovresti fermarti?

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