mercoledì 10 febbraio 2016

"Eliminare gli italiani in quanto italiani": l'invasione dei beduini come le foibe comuniste, nelle paranoie del ventre d'Italia

foto di Stefano G. Azzarà.
I benefattori italiani diffondono la civiltà latina e dissolvono la barbarie slava, concedendo generosamente alla popolazione civile di Lubiana di scavarsi la fossa da sé prima di venire fucilata. Ma solo dopo averne incendiato le case e violentato le donne, quasi come farebbero le miserabili sottorazze dei beduini, impegnati oggi - IPhone e 35 euri in pugno - in una sostituzione dei popoli europei pianificata dalla finanza internazionale per averci tutti froci e consumatori.
Bisogna sempre distinguere tra combattenti e civili quando ci si riprende con la forza la propria terra, anche se il nemico occupante non si è curato di farlo e anche se il contesto oggettivo di una guerra di liberazione che segue una guerra totale non è amico dell'umanità.
Era tuttavia difficile che gli dicessero pure grazie [SGA].



Un sobrio reportage fotografico

NON SIAMO MINORANZA STARE IN PIEDI 
Ricordiamo. Per non finire nelle nuove foibe 
Ai nostri connazionali hanno tolto la vita per il solo fatto di essere italiani. Ora rischiamo di precipitare in altre buche con la sottomissione culturale ed economica. L’unico modo di rendere omaggio ai caduti è combattere, come loro 

10 feb 2016  Libero FRANCESCO BORGONOVO 
(...) di storici il cui unico tentativo è quello di ridimensionare le proporzioni della carneficina e, in fondo, dimostrare che gli italiani un po’ se lo meritavano, in quanto fascisti. Anche nelle scuole, e più in generale nella dimensione pubblica, si incontrano ancora difficoltà a far passare una lettura della storia diversa da quella che per decenni ha fornito il Pci. Per questo è importante che oggi si celebri il Giorno del ricordo: per far conoscere al maggior numero di persone possibile una realtà fatta di sangue e di sofferenza, che ha falciato famiglie, ucciso figli e genitori, devastato interi territori.  
Il problema, però, è che questa giornata celebrativa rischia di essere una fra le tante. Si perde nel martirologio laico di questi tempi, in cui ogni giorno c’è qualcosa da «non dimenticare» e da compiangere. Col risultato che poi si dimentica qualunque cosa, e le ricorrenze finiscono a coprirsi di polvere e fiori secchi. Viviamo nell’era in cui la vittima è elevata al rango di eroe, in cui i popoli misurano la propria grandezza contando i morti ed elencando le sofferenze patite. Sofferenze a cui si pretende una soddisfazione normativa: tanto dolore deve corrispondere ad altrettanti diritti. Anche quando questi diritti sono tutt’altro che dovuti e meritati. 

Le donne sono state recluse in casa per anni? Bisogna che siano inserite ai posti di comando attraverso apposite quote. I neri sono stati ridotti in schiavitù negli Stati Uniti? Allora bisogna che tra i nominati agli Oscar ci sia un'adeguata rappresentanza di attori e registi black. I latinos hanno rischiato la vita passando illegalmente il confine con gli Usa? Dunque hanno diritto a serie tivù che parlino di loro. E i nativi americani? Se lo meritavano pure un Balla coi lupi di risarcimento, no? 
Ogni minoranza, per far sentire la sua voce e ottenere onori (a cui di solito non corrispondono adeguati oneri) esibisce le sue stimmate. I musulmani invocano decenni di islamofobia. Gli omosessuali si impegnano in campagne contro l'omofobia, superano gli afroamericani agli Oscar grazie a storie di disgrazia e persecuzione. 
Il risultato è che ciascuno si porta dietro il suo carico di ferite e rimane fermo lì, nella contemplazione del passato, fiero della giornata a lui dedicata con annesso messaggio commosso delle autorità. C’è 
Una deportata dalla Venezia Giulia. In tutto sono stati deportati da Tito 250mila istriano-giuliano-dalmati la giornata mondiale del profugo, quella del malato, quella delle vittime della strada, quella delle vittime dell'amianto. Il calendario è un susseguirsi di genocidi. Di ricordi e memorie che durano ventiquattr’ore e poi svaniscono all’alba del giorno dopo. Tanti piccoli ghetti di pianto da cui diventa sempre più difficile uscire. Come dalle foibe. 
Perché la Giornata del ricordo di quello sterminio non rimanga giusto un segno sull’agenda dei politici in campagna elettorale, bisogna allora poggiare i piedi sul passato e concentrarsi sul domani e sul presente. 

Portare il ricordo di sé e vivificarlo ogni giorno. Come? Comprendendo che cosa sono state le foibe: un massacro di italiani in quanto italiani. Imparando questo, si ricava una lezione da riportare nella quotidianità. E cioè che bisogna battersi contro chiunque voglia sottomettere e cancellare gli italiani in quanto italiani. Bisogna combattere contro tutte le - metaforiche - foibe in cui vogliono gettarci oggi. 
Individuarle non è poi così difficile. C’è chi vuole sottometterci con la violenza e l'assassinio, cioè l'islam radicale. C'è chi vuole farci sprofondare negli abissi della povertà imponendoci lacrime e sangue da un ufficio a Bruxelles. C’è chi arriva da straniero nelle nostre città e pensa di farla da padrone, pure stuprando e ammazzando. Ci sono poteri - altri Stati ma anche grandi gruppi di interesse - che intendono trasformarci in schiavi del debito e del sistema finanziario. Ci sono persino minoranze che sfruttano la loro condizione di vittime - vere o presunte - per imporsi e sradicare la nostra identità: nazionale, alimentare, religiosa, sessuale. A che cosa mirano tutte queste forze? Ad eliminare gli italiani in quanto italiani. A ficcarci in una gola fonda da cui non possiamo riemergere. Sono le foibe da cui dobbiamo guardarci. 
Attenzione: fare questo non significa togliere importanza al dolore del passato, o mettere sullo stesso piano sofferenze più e meno gravi. Vuol dire anzi trasformare il groppo di pianto e rabbia in una materia viva, utile ad affrontare l'attualità. Vuol dire guardare avanti muovendosi nel solco di chi è venuto prima. Vuol dire restare italiani quando qualcuno vuole impedircelo. Il ricordo, in questo modo, non è più una prigione: si trasforma in azione, in eredità culturale e spirituale. 
È stando in piedi che si rende omaggio ai caduti nel modo migliore.



Memoria sanzionabile
Storia. Anche quest’anno durante il «giorno del ricordo» non sono mancate grottesche manipolazioni della celebre foto di Dane e delle vicende legate al confine orientale. Vespa, Storace e gli altri: ideologia della «narrazione altra» di Davide Conti il manifesto 16.2.16
La foto è molto conosciuta o dovrebbe esserlo. Siamo nel villaggio sloveno di Dane (Loska Dolina) è il 31 luglio 1942 e cinque militari del regio esercito italiano fucilano alla schiena cinque civili jugoslavi.
L’occupazione fascista della Slovenia dura da oltre un anno (dal 6 aprile 1941) ed è da tempo in atto da parte del governo di Mussolini la cosiddetta politica di «snazionalizzazione» consistente nella sostituzione, tramite la deportazione in campi d’internamento o la soppressione in loco, della popolazione civile «allogena» (cioè jugoslava) con quella italiana.
Nonostante la notorietà dell’immagine, conservata presso l’archivio dell’Istituto storico della capitale slovena Lubiana, anche nella celebrazione di quest’anno del «giorno del ricordo» non sono mancate grottesche manipolazioni di una fotografia che già nella trasmissione di Raiuno Porta a Porta venne presentata a parti invertite, con gli italiani vittime della fucilazione e gli jugoslavi carnefici.
Da ultimo lo ha fatto Francesco Storace, candidato sindaco di Roma, che ha riprodotto la strage di Dane avendo cura di disegnare il tricolore italiano dietro la schiena dei fucilati ed una falce e martello rosso sangue dietro quella del plotone di esecuzione, ammonendo, con significativa ironia involontaria, che «la sinistra dimentica» ma loro, La Destra, no.
Tuttavia il significato dell’episodio, in un paese come l’Italia, non è certamente circoscritto e circoscrivibile alla sola area politica della destra ex missina. Dopo dodici anni di celebrazioni ufficiali del «giorno del ricordo» e dopo un profluvio di fiction, talk show e spettacoli teatrali le vicende del confine orientale più che un «patrimonio costitutivo della nostra identità» — come affermato dal ministro degli Esteri Gentiloni — sembrano rappresentare una «narrazione» della storia piuttosto che la sua ricostruzione «svincolata da ideologie».
Così se da un lato l’etnicizzazione del conflitto (evocata dalla rappresentazione semantica di una violenza «slava» contro gli italiani «solo perché italiani») diviene strumento utile a svincolare storicamente il nostro paese dall’eredità criminale del fascismo, dall’altro l’associazione tra l’Esercito Popolare di Liberazione (Eplj) e l’ideologia comunista ripristina nell’immaginario collettivo il vecchio uso propagandistico che il fascismo degli anni venti fece dello «slavocomunista».
Chiunque abbia anche solo sfogliato un libro di storia sa che la Guerra di Liberazione portò l’Eplj a risalire e riunificare il territorio jugoslavo occupato combattendo e sconfiggendo il nazifascismo nella sua dimensione politica e non etnica, tanto che nemici di Tito furono anche altri jugoslavi collaborazionisti come gli ustascia croati, i cetnici serbi ed i domobranci sloveni oltre che i nazisti tedeschi e i fascisti.
Il «narrato italiano» poggia poi le sue basi su un solido pilastro della rappresentazione della storia nazionale: quel paradigma vittimario che sintetizza insieme aporie della memoria; uso politico della storia e ricomposizione selettiva del vissuto individuale e collettivo.
In questo modo l’aggressione fascista alla Jugoslavia; i crimini di guerra del regio esercito nei Balcani; l’impunità garantita istituzionalmente ai responsabili politici e militari nonché il loro riutilizzo in seno agli apparati di forza dello Stato nel dopoguerra, vengono espunti dal «patrimonio costitutivo della nostra identità» armonizzato, di contro, intorno al falso mito autoassolutorio del «bravo italiano» e ad un’immagine «patria» che ci presenta come inconsapevoli vittime ora del regime mussoliniano ora della cieca violenza slavo-comunista.
Quella del 10 febbraio (ricorrenza della firma del Trattato di Pace di Parigi e non delle violenze sul confine orientale del settembre 1943-maggio 1945 definite tutte in modo generico e non veritiero «infoibamenti») si inserisce in una scelta di giornate della «memoria di Stato» che lungi dall’essere un «calendario civile» codifica legislativamente una «narrazione altra» da quella definitasi storicamente in termini fattuali.
Così a date fondative come il 25 aprile 1945 (Insurrezione nazionale e Liberazione d’Italia) o il 2 giugno 1946 (nascita della Repubblica) si sovrappongono nelle cerimonie ufficiali ricostruzioni che, deboli sul piano storico-scientifico, necessitano della «protezione» non solo della propaganda politica bipartisan ma anche di progetti di legge ad hoc, fortunatamente per ora accantonati, che con la motivazione di combattere il negazionismo vorrebbero sancire limiti di legge alla ricerca.
In ultimo, dunque, ci domandiamo: Francesco Storace, Bruno Vespa e tutti coloro che hanno rovesciato la realtà impressa dalla foto di Dane dovrebbero forse essere perseguiti penalmente per negazionismo?
Certamente no. Sarà sufficiente la sanzione della Storia. 

1 commento:

roberto ha detto...

Il problema delle memorie che vengono usate come clave verso una parte o l'altra dimostra solo una cosa,la pochezza della scienza storica.E in generale di tutte le scienze. A mio parere solo la rinascita di una riflessione filosofica può creare una cultura condivisa.