domenica 21 febbraio 2016

Franz Kafka conteso tra lo Stato coloniale di Israele e il resto dell'umanità. Judith Butler


Una letteratura a peso d’oro 

FRANZ KAFKA. Novant’anni di traversie per stabilire la «proprietà» delle opere dello scrittore praghese. Max Brod rispettò solo in parte la volontà dell’amico di distruggerle: un compromesso denso di conseguenze. Un’anticipazione dall’ebook di Judith Butler «Di chi è Kafka?», da lunedì sulla rivista lavoroculturale.org 

Judith Butler Manifesto 20.2.2016, 0:10 
A Tel Aviv è in corso un processo per determinare chi amministrerà alcune scatole contenenti gli scritti originali di Kafka, incluse le bozze delle opere postume, conservate tra Zurigo e Tel Aviv. Com’è risaputo, Kafka lasciò a Max Brod i suoi scritti, sia quelli pubblicati che gli inediti, dandogli esplicite istruzioni di distruggerli dopo la propria morte. 
Sembra che lo stesso Kafka avesse già bruciato parte dei suoi lavori prima di morire. Brod rifiutò di rispettare questa richiesta, anche se poi non pubblicò tutto ciò che gli fu lasciato. Pubblicò Il processo, Il castello e America tra il 1925 e il 1927. Nel 1935 fece uscire un’antologia, per poi riporre la maggior parte dei restanti lavori all’interno di bauli. Dunque Brod rispettò, in parte, il desiderio di Kafka di non pubblicare quelle opere, ma non la sua volontà di distruggerle. Questo compromesso ha avuto delle conseguenze, che si manifestano oggi in modo evidente. 
Appropriazioni indebite 
Nel 1939 Brod fuggì dall’Europa alla volta della Palestina, e anche se molti dei manoscritti che custodì poi finirono alla Bodleian Library di Oxford, ne tenne con sé un numero cospicuo sino alla morte, avvenuta nel 1968. Brod lasciò in eredità gli scritti a Esther Hoffe, la sua segretaria, con cui sembra abbia avuto una relazione amorosa. 
Hoffe li conservò fino a che non morì, nel 2007, all’età di centouno anni. Esther fece inizialmente con gli scritti la stessa cosa di Max: li custodì in vari bauli, dentro a una cassaforte. Nel 1988, tuttavia, vendette il manoscritto de Il processo per due milioni di dollari. Era ormai chiaro che fosse possibile ricavare profitti da Kafka. Nessuno, però, avrebbe potuto prevedere che dopo la morte di Esther si sarebbe tenuto un processo in cui le figlie, Eva e Ruth, avrebbero sostenuto che non ci sarebbe stato alcun bisogno di fare un inventario dei materiali conservati dalla madre e che il valore dei manoscritti si sarebbe dovuto stabilire in base al loro peso – letteralmente: in base a quanto pesavano. 
Come ha poi spiegato uno degli avvocati incaricati di rappresentare la proprietà di Esther Hoffe: «Se raggiungeremo un accordo, il materiale sarà messo in vendita come un’entità singola, in un solo pacchetto. Sarà venduto a peso… Si dirà: «C’è un chilo di carta qui, il migliore offerente potrà avvicinarsi e vederne il contenuto». Anche la Biblioteca nazionale (d’Israele, ndt) può mettersi in fila e fare un’offerta». 
Un bene pubblico 
Come è possibile che Kafka sia stato trasformato in una merce e in un nuovo «peso d’oro»? È una questione importante su cui ritornerò. Sappiamo bene che il valore del lavoro letterario e accademico è sempre più condizionato da parametri quantitativi, ma non sono sicura che ci sia qualcuno che, ad oggi, abbia proposto di pesare il nostro lavoro su una bilancia. 
A ogni modo, per iniziare, proviamo a capire quali sono le parti coinvolte nel processo e quali sono le loro posizioni. In primo luogo vi è la Biblioteca nazionale di Israele, la quale sostiene che la volontà di Esther Hoffe andrebbe ignorata, poiché Kafka non appartiene a queste donne ma è un bene pubblico e del popolo ebraico – pare che le due cose talvolta coincidano. David Blumberg, direttore del consiglio d’amministrazione della Biblioteca nazionale, descrive il caso in questi termini: «La Biblioteca non intende privarsi dei beni culturali del popolo ebraico… Dal momento che non si tratta di un’istituzione commerciale e che gli oggetti che conserva sono accessibili a tutti, e gratuitamente, la Biblioteca continuerà nei suoi sforzi di ottenere i manoscritti rinvenuti». È interessante questa posizione secondo cui gli scritti di Kafka possano costituire un bene del popolo ebraico e allo stesso tempo non avere nulla a che fare con attività commerciali. 
Oren Weinberg, l’amministratore delegato della Biblioteca nazionale, ha recentemente affermato che: «La Biblioteca è preoccupata per la nuova posizione espressa dalle esecutrici testamentarie, le quali vogliono mescolare considerazioni di ordine economico con la decisione su chi riceverà la proprietà. Avere rivelato l’esistenza di un tesoro tenuto nascosto in una cassaforte per decenni gioverà all’interesse pubblico, ma la posizione delle esecutrici testamentarie rischia di vanificare questa rivelazione e di nuocere a Israele e al mondo intero». 
Posizioni controverse 
Sembra dunque di capire che gli scritti di Kafka costituiscano un bene del popolo ebraico, ma non un bene esclusivamente di tipo economico. Inoltre, dal momento che Kafka è uno scrittore ebreo, ciò significa che egli fa parte del popolo ebraico, e che i suoi scritti fanno automaticamente parte del suo patrimonio culturale. 
Questa affermazione, già controversa di per sé – dal momento che elide altre forme di appartenenza, o di non-appartenenza –, lo diventa ancora di più se consideriamo che il caso giudiziario si fonda sulla premessa implicita che il popolo ebraico sia rappresentato dallo Stato di Israele. Potrebbe sembrare un’affermazione meramente descrittiva. In realtà, questa affermazione prevede conseguenze straordinarie e contraddittorie. Innanzitutto, non tiene conto della distinzione tra ebrei che sono sionisti ed ebrei che non lo sono – per esempio quegli ebrei della diaspora per cui la madrepatria non è inevitabilmente un luogo dove tornare o una meta finale. In secondo luogo, si tratta di un’affermazione che ha conseguenze anche all’interno dei confini dello stesso Stato di Israele. 
Infatti, il problema di Israele su come raggiungere e mantenere una maggioranza demografica nei confronti della sua popolazione non ebraica – che costituisce oltre il 20 per cento della popolazione che vive all’interno dei suoi attuali confini – è dato dal fatto che esso non è uno stato esclusivamente ebraico e che, se volesse davvero rappresentare la propria popolazione in maniera giusta e uguale, dovrebbe rappresentare sia i cittadini ebrei che i non ebrei. 
Passato culturale? 
Quindi, affermare che Israele rappresenta il popolo ebraico significa negare l’esistenza non solo di un cospicuo numero di ebrei che vivono fuori da Israele e che Israele non rappresenta né legalmente né politicamente, ma significa anche negare l’esistenza dei palestinesi e degli altri cittadini non ebrei che vivono all’interno dello Stato. 
La posizione della Biblioteca nazionale si fonda su una concezione della nazione di Israele secondo cui la popolazione ebrea che si trova al di fuori del territorio nazionale vive in una condizione di galut – in uno stato di esilio e di perdizione da rovesciare attraverso il ritorno in Israele. L’idea implicita è che tutti gli ebrei e tutti i beni culturali ebraici – indipendentemente da ciò che questa espressione voglia dire – che si trovano fuori da Israele in fondo appartengono a Israele, poiché lo Stato rappresenta tutti gli ebrei e tutte le loro forme di produzione culturale. 
Va fatto notare che su questo problema della galut il dibattito è aperto. C’è ad esempio uno straordinario libro su esilio e sovranità di Amnon Raz-Krakotzkin, nel quale si sostiene che l’esilio sia intrinseco all’ebraismo e all’ebraicità, e che il sionismo sbagli a sostenere che andrebbe superato attraverso l’invocazione della Legge del Ritorno [in Israele, ndt] o attraverso la nozione popolare di diritto di nascita. Infatti, l’esilio potrebbe costituire un punto di partenza per il ripensamento della coabitazione e per riportare i valori diasporici all’interno della regione.
Questo era senza ombra di dubbio anche il punto di vista di Edward Saïd, quando in Freud e il non-europeo identificava nell’esperienza comune di esilio di ebrei e palestinesi la base per una nuova comunità politica in Palestina. 
La galut dunque non è una condizione di perdizione che ha bisogno di redenzione, anche se è proprio la condizione che Israele e il sionismo cercano di superare estendendo il diritto al ritorno a tutti i nati da madre ebrea – e ora rivendicando come capitale culturale ebraico di proprietà dello Stato di Israele i lavori di chi è ebreo per caso. Se l’argomento della Biblioteca nazionale avesse successo, la capacità di rappresentanza dello Stato di Israele si espanderebbe notevolmente. 
Implicazioni globali 
Come ha scritto Antony Lerman sul The Guardian, se «la Biblioteca nazionale rivendicasse per conto dello Stato ebraico l’eredità di Kafka, essa, o istituzioni israeliane simili, potrebbero rivendicare la proprietà di ogni sinagoga, opera d’arte, manoscritto o oggetto rituale di valore che datano prima dell’Olocausto e si trovano in Europa. Ma né Israele in quanto Stato né nessun’altra istituzione pubblica o statale ha questo diritto. (E anche se è vero che Kafka è una figura chiave del passato culturale ebraico, nonché uno degli autori più importanti al mondo, i cui temi trovano eco in molti Paesi e culture, il modo di fare da padrone da parte di Israele è senza dubbio fuori luogo)». 
Nonostante Lerman lamenti l’«intrinseca sottomissione delle comunità ebraiche europee a Israele», il problema ha implicazioni globali più ampie. Se la diaspora fosse concepita come una condizione irredenta di perdizione, allora tutta la produzione culturale di chi difficilmente potrebbe essere considerato ebreo secondo le leggi rabbiniche del ritorno, potrà essere soggetta a un’appropriazione postuma, nel caso in cui il lavoro in questione sia considerabile un bene. E questo mi conduce al terzo punto, cioè che dove vi sono beni vi sono anche responsabilità giuridiche. 
Dunque per una persona o un bene essere ebrei non è abbastanza; essi devono essere ebrei in una maniera tale da poter essere capitalizzati dallo Stato ebraico nella sua lotta contro varie forme di delegittimazione culturale in cui è impegnato. 
Viene da pensare che un bene sia qualcosa che rafforza la reputazione di Israele – una reputazione attualmente in crisi: la scommessa è che la reputazione mondiale di Kafka diventerà la reputazione mondiale di Israele. 

SCHEDA: Tradire o tradurre un’eredità 
Il processo sulla proprietà del fondo lasciato da Kafka all’amico Brod, si è concluso dopo otto anni nel 2015 decretando la proprietà dell’intero fondo da parte della Biblioteca nazionale di Israele. Nel marzo del 2011, Judith Butler pubblica Who owns Kafka? per la «London Review of Books» intervenendo su varie questioni care allo scrittore, attraverso un’analisi di alcuni stralci e sue parabole, racconti, diari e lettere, quindi Il processo, La condanna, Un medico di campagna. Omicidio rituale in Ungheria, Sciacalli e arabi, Un messaggio dell’imperatore, La partenza, La venuta del Messia.
Il testo, in prima traduzione italiana, è curato da Antonio Iannello, Nicola Perugini e Federico Zappino. Scaricabile gratuitamente dal sito della rivista «il lavoro culturale», che ha collaborato alla curatela di A chi spetta una buona vita? (Nottetempo 2013) e pubblicato Sulla crudeltà (2014). Per l’editore Nottetempo, Federico Zappino ha in preparazione la traduzione di Notes Toward a Performative Theory of Assembly (Harvard 2015).

1 commento:

Anonimo ha detto...

Nicola Perugini, distorter, typical inciter
Aug, 2020
http://www.danielpipes.org/comments/259883

In 2013: Nicola Perugini invented a "session" that the UN never had..
//unwatch.org/al-jazeera-reports-on-un-session-that-never-happened/

His colleague is Neve Gordon who in 2007 intimated student protesting his incitement (not "anti-Zionist," but) anti-Jewish wrongfully portraying the facts, and his articles used to appear on neo Nazi sites.
Nicola Perugini and Neve Gordon are so extreme... that they even criticized [Apr.2015] the anti-Israel-biased Amnesty-Intl. for its criticism of Palestinian-Arab Hamas use of human shields...