venerdì 26 febbraio 2016
Il mito repubblichino dei "moderati" sterminatori di popoli e consumatori di schiavi
Il populismo d’Occidente che cancella i moderati
In Europa come in Usa un vento radicale piega la destra moderna
di Ezio Mauro Repubblica 26.2.16
DUE
parole faticano oggi a farsi largo in Occidente: moderato e
conservatore. Nella semplificazione politica e giornalistica, esprimono
ormai lo stesso concetto, una destra moderna, non reazionaria, con il
senso delle istituzioni e il sentimento della tradizione. In un Paese
sfortunato come il nostro, questa destra manca da sempre e il suo vuoto è
stato riempito parzialmente per decenni dal post-fascismo, dal
doroteismo democristiano, dal populismo berlusconiano, così com’è
mancata simmetricamente per decenni una forte sinistra di governo,
occidentale e riformista, che ha poi faticosamente preso corpo (ma non
ancora anima) con il Pd. Nelle altre democrazie europee, e negli Stati
Uniti, quella tradizione politica moderata esiste e quella forma-partito
conservatrice anche. Soltanto che ovunque, in Europa come in America,
una spinta radicale di destra oggi piega i moderati come canne al vento:
o li sfida direttamente con candidati estremi o impone l’agenda
politica con i suoi temi e le sue ossessioni, o si costituisce in fronda
interna autorizzata e organizzata, facendo saltare la cornice comune
che per un secolo ha tenuto insieme i vecchi partiti. E in ogni caso,
ovunque esercita un’egemonia negli stili e nei linguaggi, rendendo i
moderati gregari riluttanti degli estremisti.
E creando una nuova
creatura ideologica imperniata sull’alleanza tra Dio e il capitale,
nazione e reazione, suolo, sangue e frontiera, in un Paese immaginario
che parla la neolingua del politicamente scorretto. Una neolingua per
una neodestra, appena nata nella culla dell’antipolitica e della crisi
economica più lunga del secolo. Proprio la fine delle paure del primo
Novecento, con i tabù del totalitarismo spiega questa emersione
improvvisa. Ritenendo la democrazia una conquista ormai consolidata al
punto da essere usurata, oggi ci si prende la libertà di forzarne il
confine, la forma e la sostanza, a patto di mantenerne intatta e lucida
la superficie, sempre più sottile. Si disprezzano le istituzioni
puntando a comandarle più che a guidarle, riducendole così a puro
strumento dell’ideologia. Viene meno infatti anche il sentimento
costituzionale, il rispetto naturale delle regole fondamentali e dei
principi di legittimità democratica a cui si ispiravano, come se fossero
fenomeni transitori, legati al ciclo di una o due generazioni, quelle
appunto novecentesche. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, con una
rincorsa estrema a scavalcare il limite che ogni volta si sposta più
avanti, perché c’è sempre qualcuno pronto a non riconoscerlo. Non avere
un limite, è infatti il primo comandamento scorretto.
Così
l’Europa si sta spezzando ovunque, con Bruxelles che patteggia e
rattoppa nelle varie capitali, dove ognuno ha capito che può alzare il
prezzo dell’Unione a suo piacimento. Con Cameron che contratta fino
all’ultimo il suo no al Brexit mentre indice il referendum, e deve però
fronteggiare in casa la ribellione di un terzo dei suoi ministri e del
sindaco della città più cosmopolita del continente, Londra, schierato
contro l’Europa in un radicalismo conservatore che è già una piattaforma
della nuova destra. E se l’Unione deve fronteggiare la ribellione di
Vienna, che vuole limitare l’ingresso dei rifugiati nel Paese, alla
seconda destra austriaca questo non basta: l’area xenofoba di
Heinz-Christian Strache continua infatti a crescere nei sondaggi e
chiede un no deciso all’Europa, amicizia con Putin, tolleranza zero
contro i migranti. In Polonia la Chiesa appoggia i nazionalisti
euroscettici e clericali di “Diritto e Giustizia” guidati da Jaroslaw
Kaczynski in una politica che ha paralizzato la Corte costituzionale, ha
epurato radio e tv, controlla e censura internet. L’ideologo e stratega
di questa radicalizzazione a destra è naturalmente Viktor Orbàn, il
premier ungherese al potere dal 2010 col suo partito nazional-
conservatore
che dopo aver normalizzato le magistrature e i media ha costruito il
suo Muro e ora vuole estenderlo al confine romeno: ma intanto a destra
di questa destra sta già prosperando il partito estremo Jòbbik,
apertamente antisemita e nostalgico. Crescono i populisti in tutti e
cinque i Paesi della Comunità nordica, con un partito anti-immigrati e
anti-Ue che vola in Svezia nonostante un’economia che segna un + 3,5 per
cento, gli ultra-conservatori che sono partner di governo in Norvegia e
in Finlandia, gli xenofobi danesi all’opposizione, ma forti del 21 per
cento.
Resta la Germania, dove la crisi dell’immigrazione e la
polemica contro la Merkel ha ridato fiato al partito Afd, che
opponendosi agli stranieri e a ogni trasferimento di sovranità sfiora
nei sondaggi il 12 per cento. E infine c’è l’aperta rivendicazione di
Marine Le Pen per guidare la Francia dall’Eliseo col suo partito di
eredità post-fascista e di pratica antieuropea, che costringe i
repubblicani di Sarkozy sulla difensiva. Se si aggiunge il fenomeno
Trump, ormai apertamente in grado di terremotare non solo le primarie ma
il sistema politico americano, il quadro è completo. C’è poi, ad
aggravare la situazione, quel fenomeno particolare e non ancora indagato
che potremmo chiamare la “sinistra mimetica”. Movimenti nati a
sinistra, o con base sociale in gran parte a sinistra, che mutuano modi e
linguaggi dalla destra più radicale per rimanere sulla cresta dell’onda
securitaria e islamofoba, sperando di lucrare una quota del dividendo
elettorale della neodestra. È il caso del presidente xenofobo e
russofilo della Repubblica Ceca, Milos Zeman che nasce di sinistra, del
premier socialdemocratico di Slovacchia Robert Fico: ma anche, com’è
evidente, del Movimento 5 Stelle in Italia, con le movenze di sinistra,
l’elettorato composito e coltivato trasversalmente, e una chiara
predicazione antieuropea e antieuro.
Che cosa spiega questo
slittamento che restringe l’area moderata in tutto l’Occidente? La
spiegazione economico-sociale poggia sulla crisi, che partita come
fenomeno economico-finanziario ha finito per corrodere tutta
l’impalcatura intellettuale, politica e istituzionale della democrazia
materiale che ci eravamo costruiti nel dopoguerra per proteggere la
nostra vita in comune.
Scopriamo improvvisamente, in questi ultimi
anni, che il meccanismo democratico da solo non ci protegge. Anzi,
potremmo dire che la scoperta è più radicale: la democrazia non basta a
se stessa. Nasce il disincanto della rappresentanza, la nuova solitudine
repubblicana. Tutto diventa fragile e transitorio, nulla merita un
investimento a lungo termine, dunque la stessa politica tradizionale
finisce fuorigioco perché cerchiamo risposte individuali a problemi
collettivi.
C’è un elemento in più. Prima della crisi il ceto
medio emergente aveva tentato di diventare soggetto politico mettendosi
in proprio, autonomizzandosi sia dalla grande borghesia che dal
proletariato: in Italia questa avventura aveva avuto come demiurgo
Berlusconi con la promessa di uno Stato più leggero, di una forte
riduzione delle tasse, di un sovvertimento della classe dirigente. Il
fallimento del progetto berlusconiano – che non aveva evidentemente
nulla di moderato e ben poco di conservatore e il gelo della crisi hanno
frustrato due volte questo tentativo di emancipazione di soggetti
sociali che perdono la speranza di produrre politica direttamente dai
loro interessi legittimi, si proletarizzano per le difficoltà
finanziarie e ripiegano sconfitti in quella che De Rita chiama la
“grande bolla” del ceto medio.
L’esito di questi percorsi
collettivi è il riflusso da ogni discorso pubblico o appunto la
ribellione, l’antipolitica. Nella convinzione che il cittadino possa
disinteressarsi dello Stato, senza accorgersi che nello stesso tempo lo
Stato si disinteressa di lui, perché quando la sua libertà non si
combina con quella degli altri e l’esercizio dei suoi diritti resta
soltanto individuale, lui diventa un’unità anonima da rilevare nei
sondaggi, realizzando la vera solitudine dei numeri primi.
Si
capisce che a questo crocevia tra la solitudine e la ribellione stia
accampato il populismo, interessato ad entrambe. Tutti diversi tra loro,
i leader radicali hanno un tratto in comune: propongono soluzioni
semplici a problemi complessi (il “puerilismo”, lo chiamava Huizinga)
danno sempre la colpa ad un nemico esterno, attaccano un potere
gigantesco e indefinito, berciano sulle élites, si rinchiudono
nell’ossessione territoriale, immaginano complotti perché investono su
un indebolimento dello spirito critico a vantaggio di una visione
mitologica dell’avventura presente. I problemi veri – il lavoro che
manca, la crescita che arranca, Daesh che uccide – vengono evocati e
cavalcati, ma in forma fantasmatica, all’insegna di una sfiducia perenne
nei confronti delle istituzioni e della stessa democrazia.
Noi
vediamo chiaramente che tutto questo fa emergere i campioni della
neodestra, gladiatori incontrastati di una fase in cui tutto vacilla. Ma
non ci accorgiamo che parallelamente si corrode la cornice del pensiero
liberaldemocratico, proprio nella fase in cui si è insediato (lo diceva
anni fa Galli della Loggia) come l’unica dimensione politica
comunemente accettata e condivisa, dopo le tragedie nel Novecento: e
infatti il dogma di Orbàn è “il fallimento del liberalismo”, da cui
ricava la possibilità di demolire la separazione dei poteri. In realtà
la neodestra più che un pensiero ha una superstizione del mondo e
un’ideologia di sé, unita ad una feroce volontà di escludere e alla
capacità di offrire nel contempo una fruizione politica dei risentimenti
e delle paure. È la ricetta semplice e forte del fondamentalismo che
negando valore ad ogni teoria divergente o preesistente costruisce quel
senso di falsa sicurezza tipico di chi vive murato all’interno delle
fortezze, pensando come spiega Bauman di tagliare fuori così “il caos
che regna all’esterno”. È il destino della destra italiana che spento il
fuoco pirotecnico del berlusconismo consegna le sue ceneri a Salvini,
rassegnandosi dopo il titanismo del Cavaliere all’imitazione da Asterix
padano del lepenismo.
Prezzolini, guardandosi intorno sancirebbe a
questo punto la sconfitta del «vero conservatore», come lo idealizzava
lui: capace di non confondersi con i reazionari, i tradizionalisti, i
nostalgici, di non rifiutare i mutamenti purché avvengano gradualmente,
di conservare le istituzioni, soprattutto «di non confondere gli uomini
con gli angeli o con i diavoli».
Oggi la neodestra italiana sembra
invece cercare disperatamente un diavolo qualunque da scritturare, per
farlo sedere a capotavola spaventando gli elettori nell’evocazione
dell’inferno permanente, perché nel suo fondamentalismo non c’è spazio
nemmeno per un angolo di purgatorio, figuriamoci il buon vecchio
paradiso terrestre. Il problema, naturalmente, non riguarda soltanto la
destra ma l’intero sistema, cioè la cultura di governo. Perché senza un
vero conservatore non può esserci un vero riformista. E infatti…
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