mercoledì 17 febbraio 2016
Il tempo degrada e altera i colori dei quadri
Van Gogh, com’era viola la mia camera
Studio rivela: la tinta del quadro di Arles ha perso intensità con il tempo
Vittorio Sabadin Stampa 16 2 2016
Uno dei dipinti più famosi di Van Gogh, La camera di Vincent ad Arles, aveva colori molto diversi da quelli che vediamo sul quadro ora esposto al Rijksmuseum di Amsterdam. Lo ha scoperto un team dell’Art Institute of Chicago, guidato dall’italiana Francesca Casadio. Le pareti della stanza non erano in origine del pallido colore blu fiordaliso di oggi, ma di un viola che si è schiarito e degradato nel corso degli anni.
Non è una differenza da poco. Le vere pareti della stanza che Van Gogh dipingeva erano bianche e si è dunque a lungo pensato che la scelta di quelle tinte pastello spalmate sulla tela esprimessero la serenità d’animo che Van Gogh aveva ritrovato ad Arles. L’originale viola delle pareti costringe ora a rivedere l’analisi cromatico-psicologica del pittore, che era forse meno felice del suo soggiorno in Provenza di quanto si pensasse, e aveva dipinto la stanza affiancando semplicemente i colori primari ai complementari.
Lo stesso Van Gogh, in una lettera al fratello Theo, aveva parlato delle tinte usate per il dipinto della camera, accennando al viola delle pareti, al rosso della coperta e al giallo delle sedie. Quella «casa gialla» di Arles era la 37° in 37 anni che l’inquieto artista andava ad abitare.
La fluoresecenza a raggi X di un microscopico frammento di pittura prelevato dal quadro ha permesso di scoprire che la parte esposta alla luce del sole si era molto schiarita, mentre quella a contatto con la tela aveva conservato il colore originale. Il decadimento, secondo gli esperti dell’Art Institute of Chicago, è dovuto alla scarsa qualità dei colori che l’industria chimica aveva messo in commercio nella seconda metà dell’Ottocento, una novità che sostituiva i più costosi prodotti artigianali ed era diventata molto popolare tra i pittori squattrinati.
Il Politecnico di Milano aveva già indagato sui colori originali de La camera di Vincent e aveva anche scoperto che il verde fosforescente de Les bretonnes set le pardon de Pont Aven, un acquarello dipinto da Van Gogh nello stesso anno, era a sua volta dovuto a difetti dei nuovi colori usati dal pittore.
Il quadro di Amsterdam è il primo di tre dipinti della stessa camera da letto. Gli altri due si trovano a Parigi e a Chicago. Van Gogh lo ha realizzato nel 1888, mentre attendeva l’arrivo dell’amico Paul Gaugin, con il quale voleva fondare ad Arles una comunità artistica, lo «Studio del Sud». Litigarono ferocemente molto prima di entrare nei dettagli dell’iniziativa e Van Gogh, per nulla rasserenato dal clima della Provenza come l’azzurrino delle pareti ci aveva fatto pensare, minacciò Gaugin con lo stesso rasoio che di lì a poco avrebbe usato per tagliarsi un orecchio.
Se il colore tradisce il pittore
Elena Pontiggia Stampa 16 2 2016
Ma le opere d’arte vere sono anche un po’ false? I colori che vediamo nei quadri del passato (quelli autentici, per carità!) possono essere artefatti, o comunque non essere più quelli che avevano pensato e dipinto i loro autori? A volte sì. Può capitare che un colore invecchiando cambi, come la capigliatura di chi ha superato una certa età. Solo che in quel caso non c’è tintura che tenga, o comunque i procedimenti sono difficili.
Pensiamo naturalmente alla Camera ad Arles di Van Gogh, di cui riferisce nel giornale Vittorio Sabadin. Montagne di esegesi, di critiche, di riflessioni azzerate in un attimo, annullate dalla scoperta che il celeste vangoghiano era in realtà un viola. Ma non è l’unico caso. Prendiamo la Cappella Sistina. Un grande pittore come Burri si indignava di fronte al restauro che aveva rivelato le gradazioni chiare usate da Michelangelo: “Il gelato! Viene fuori il gelato!”. Eppure il restauro aveva ragione. La dominante scura era un falso dovuto a polvere e sporco. Si sarà rivoltato nella tomba Picasso che, quando nel 1917 aveva visitato i musei vaticani, era passato davanti a Raffaello dicendo spavaldamente: “Beh, questo si può fare”, ma poi davanti ai blu del maestro toscano era rimasto sgomento. “Questo è più difficile” aveva ammesso. E invece quel blu non era mai esistito. Michelangelo era, per così dire, vissuto nell’età del manierismo e aveva cercato i colori più ambigui, cangianti, iridescenti, non il tono mentale che aveva incantato il padre del cubismo.
E Seurat e Signac? Una vita trascorsa a calibrare la scala dei colori, a calcolare i complementari come fossero tabelline, a misurare le gradazioni di timbri e toni e a teorizzarle. E invece tutta quella loro arte-scienza oggi è spesso inservibile, perché se si guardano certi loro quadri (per non dire tutti) i colori si sono modificati e i conti non tornano più. Per fortuna che un dipinto non è soltanto cromatismo, e la magia della Grande-Jatte, quel pigro pomeriggio in cui non succede niente tranne l’arte, rimane intatta.
A voler cercare l’autentico e l’inalterato, comunque, c’è da disperarsi. Dieci anni fa usciva a Milano il catalogo generale di Piero Marussig, protagonista triestino del «Novecento» di Sironi. I colori esibivano una dominante dorata, una sorta di verde-oro particolarmente accattivante e non mancarono acute riflessioni sulla sapienza dei pittori mitteleuropei. Peccato che l’artista non avesse mai usato quella suggestiva cromia e quel verde-oro fosse il risultato di vecchi fotocolor uniti al precoce invecchiamento di alcune tele.
Ma ben più illustri esempi si potrebbero citare. A cominciare dalla scultura greca, che tutti, sulla scorta di Winckelmann, amiamo per il candore immacolato. E invece le statue erano colorate di azzurro, di ocra, di rosa, di carminio. Se i Greci rinascessero oggi quel bianco candeggiato non lo riconoscerebbero più.
Insomma, è come per le traduzioni: l’importante è che siano valide. Ma non pretendiamo a tutti i costi la fedeltà.
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