giovedì 25 febbraio 2016
Inutili marchette negriere
Tanto vale usare un carattere veramente piccolo [SGA].
L’austerity è «La nonna di Schäuble»
SAGGI . Un libro di Franco Berardi Bifo per ombre corte
Andrea Fumagalli Manifesto 25.2.2016, 0:06
La Grecia non è più sulle prime pagine dei giornali, anche di quelli di sinistra. La primavera greca del 2015 (al pari delle primavere arabe di qualche anno prima) è miseramente naufragata nei meandri dei ricatti della Troika e nel gorgo delle politiche d’austerity. La possibilità che fosse possibile frapporre un argine alla politica neoliberista europea imposta dalle oligarchie finanziarie si è rivelata vana. La sconfitta della Grecia è stata la sconfitta della possibilità di modificare lo stato di cose presenti dall’interno della bestia.
Ma non sembra che ci sia ancora oggi piena consapevolezza di questo dato di fatto. Ed è forse proprio questo il motivo per il quale di Grecia non si parla più, come fosse un tabù. Ben venga quindi questo agile libro di Franco Berardi Bifo, La nonna di Schäuble (ombre corte, pp. 154, Euro 13). L’originale titolo deriva da una affermazione del ministro delle Finanze tedesco, nell’estate 2015: «mia nonna diceva spesso che la bonarietà conduce alla sregolatezza». Un’affermazione sprezzante nei confronti del popolo greco, che potrà essere pure anche simpatico e bonario, ma, quasi per natura antropologica (con una vena di razzismo, il che, detto da un tedesco, suona alquanto male), non è in grado di darsi delle regole, soprattutto quelle regole di cui la Germania ordo-liberista si vuole custode inflessibile.
La dittatura finanziaria
Il testo è diviso in cinque parti. Le prime tre parti contengono alcuni contributi scritti tra il 1996 e il 2012, con l’intento di ripercorrere le varie tappe della costruzione monetaria europea secondo i dettami del pensiero monetarista e liberista e l’incidenza della crisi dei subprime del 2008 sull’inasprimento delle misure di austerity, accentuando quel ruolo dittatoriale della finanza che lo stesso Bifo ha denunciato più volte.
Le ultime due parti sono state scritte nella primavera-estate 2015, durante un soggiorno dell’autore in Grecia nelle settimane clou, segnate dal fallimento della trattativa con Bruxelles, l’indizione del referendum, la vittoria del No e la «capitolazione» di Tsipras con le dimissioni di Varoufakis. Sono i giorni in cui si infrangono le speranze di riscatto dell’Europa degli sfruttati e degli espropriati, raccontati con pathos, partecipazione, comprensione senza (giustamente) entrare nel merito delle colpe ed errori di quel «luglio amaro». O meglio, un colpevole c’è: la violenza della dittatura finanziaria e dell’ordine ordo-liberista.
Ed è da questa constatazione che si dipana il ragionamento di Bifo, a partire dall’introduzione sino alla parte finale.
Come si è potuto dispiegare questo cancro dei mercati finanziari che ha avuto la sua metastasi reale nel corpo della Grecia e non solo? «L’Europa è il luogo in cui si costituirono le condizioni di lavoro salariato: privatizzazione e individualizzazione de lavoro. Ma è anche il luogo in cui diviene concepibile l’emancipazione dal lavoro salariato: dalla Comune di Parigi in poi la riduzione dell’orario di lavoro è l’asse principale dei movimenti operai», scrive Bifo. A ciò si aggiunse, con il ’68, l’apertura di un processo di emancipazione anche del sapere che perdura ancora oggi. Ma solo dopo Maastricht, una volta che la riforma neoliberale aveva colpito duro, la cultura europeista incontrò la cultura dell’autonomia del lavoro.
Non si può quindi uscire dall’Europa neo e ordo-liberista che si è affermata nell’ultimo trentennio grazie anche all’insipienza e all’acquiescenza di una sinistra asfittica e imbelle, senza uscire dal capitalismo. «Ma cosa significa uscire dal capitalismo?». Secondo Bifo (e concordiamo) «significa uscire dal regime obbligatorio del lavoro salariato». E questo vale soprattutto oggi, dove il regime di scarsità (ereditato dalla natura) esiste solo artificialmente (come nel caso delle enclosures inglesi del XVII secolo) per perpetuare la costrizione a cedere il proprio tempo di vita per potersi guadagnare l’accesso al denaro per la sopravvivenza. Tale regime di scarsità oggi è venuto meno.
L’innovazione tecnica e il peso crescente dell’«immateriale» consentono una drastica riduzione del tempo di lavoro necessario in presenza di un abbondanza di prodotti grazie all’intelligenza produttiva. Ancora Bifo: «La crisi europea non è crisi di povertà o di scarsità. È il segnale dell’inadeguatezza della forma presente di semiotizzazione economica dell’attività intelligente. La forma capitale non può permettere il dispiegamento della possibilità che pure essa contiene»).
Per questo l’aporia della Grecia non poteva essere accettata. È prioritario impedire che si prenda coscienza che viviamo nella piena abbondanza dei beni immateriali (dalle informazioni, alle relazioni, all’istruzione, ecc.), esattamente quei beni e quelle risorse che oggi costituiscono la linfa vitale del processo di valorizzazione.
Feroci automatismi
Ecco allora che diventa prioritario che il sistema delle «regole» venga rispettato. E che la «sregolatezza» venga repressa. Ma di quali «regole» stiamo parlando? E chi le decide? Si tratta di quelle regole che consentono l’espropriazione della ricchezza sociale che l’autonomia del lavoro potrebbe oggi essere in grado di creare, se fosse libera di esprimersi. È la regola della precarizzazione della vita, è la regola del debito grazie all’imposizione coatta delle politiche di austerity. Sono le regole che il capitale, tramite la finanza, è in grado di imporre alla tecnocrazia consenziente dell’Europa attuale: «La vita sociale è stata allora sottoposta all’ordine di automatismi incorporati nella macchina tecnica di gestione della governance».
Ecco. La «vita sociale», ciò che oggi è al cuore dei processi di sussunzione e di espropriazione. Se non si perseguono processi di autonomia e di liberazione, per noi, come per la Grecia, non c’è scampo. E nessuna intermediazione né dialogo con queste istituzioni potrà portare qualche beneficio.
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