mercoledì 17 febbraio 2016

La Lista di Piero genera mostri revelli. Sinistra barenga sinistra balenga



Com'è che tutte le peggio fecce del giornalismo italiano vengono dal Manifesto?
Ma avrà tutto questo seguito e questa autorevolezza Revelli? Perché chiedono a lui come va il mondo?  [SGA].

Cosa insegnano le molecole alla sinistra
Intellettuali antiliberisti. Diversità e connessione, perché nel dibattito sull’officina culturale uno sguardo alla genetica e all’evoluzione ci può aiutare nell’analisi dei pericoli da contrastare di Marcello Buiatti  Il manifest 16.2.16
La proposta di discutere fra studiosi italiani di diverse discipline sullo «stato delle cose presenti» (Piero Bevilacqua, il manifesto 28 gennaio), va colta e dunque vi aderisco molto volentieri. Io sono un agronomo di laurea ma ho sempre lavorato nell’ambito della Genetica e della Evoluzione cercando di comprendere i concetti fondamentali delle scienze della vita e i loro significati per gli umani.
Per quello che sappiamo, la evoluzione inizia da singole molecole e in particolare dalla prima, che conosciamo come Rna, poi stabilizzato in Dna. In seguito sono comparse altre molecole più piccole e poi le proteine e tutte hanno interagito nelle cosiddette «protocellule» e poi nelle cellule. Anche queste si sono divise e diversificate costruendo colonie di batteri e poi cellule più complesse, diversificate e cooperanti nei tessuti dei primi organismi animali e vegetali. Le tante specie diverse si sono collegate in ecosistemi a loro volta connessi e «dialoganti» nella Biosfera.
La storia umana non è molto diversa da quelle degli altri viventi e nasce dai primi «ominidi», organismi molto simili agli umani di ora, definiti secondo il filosofo Hans Jonas da tre «simboli», «immagine», «strumento», «tomba». Immagine è capacità di «inventare» infiniti concetti proiettati sulla materia esterna, costruendo «strumenti» utili per le vite e «tombe» che indicano pensiero trascendente. Le vite quindi restano tali grazie alla diversità e alla connessione fra diversi. Purtroppo dimentichiamo le diversità che ci permettono di cambiare e sopravvivere in contesti che cambiano e anche le connessioni fra i componenti che ci permettono di cambiare insieme.
Non è per caso che i grandi imperi a cominciare da Alessandro Magno e i Romani, se occupavano una zona, questa diventava parte dell’impero pronta a difenderlo. Così con l’impero asburgico, quello inglese e quello americano, tutti costituiti da persone di diverse culture e capacità. Ora, invece, i migranti vengono cacciati, e anche uccisi, e perdiamo i doni delle loro culture, dei pensieri, delle capacità. In Italia, se va bene sono «tollerati», mentre dovremmo essere felici della multiversità acquisita. Dimentichiamo purtroppo che la «purezza» delle razze ha portato i tedeschi alla sconfitta e ha distrutto le culture dell’impero astro-ungarico e ucciso gli ebrei.
Così perdiamo le connessioni fra diversità umane e il concetto di «purezza» viene esteso alle agricolture e alle produzioni industriali, che non puntano più alla diversificazione dei prodotti, ma alla omogeneizzazione costruita sulla pubblicità come aveva predetto il bistrattato Marcuse nel libro «L’uomo ad una dimensione» in cui si prevedeva la vittoria del consumismo, la fine della legge della domanda e dell’offerta, la riduzione del lavoro e la scomparsa del proletariato. Tutto questo è avvenuto e ne è una riprova il comportamento degli italiani che hanno ridotto del 35% le spese per il cibo ed aumentato del 70% quelle dei i cellulari. Coerente con il concetto di «purezza» è l’occupazione e distruzione delle bio-diverse agricolture locali sostituite dagli Ogm, immessi sul mercato negli anni ’90. Gli Ogm sono solo 4 piante (soia, mais, cotone, colza) modificate per soli due caratteri (resistenza ad insetti e a diserbanti), che coprono oltre 180 milioni di ettari di terreno, distruggendo agricolture con soia in America latina e cotone in India e Sud Africa, mais negli Usa. Inoltre il guadagno delle multinazionali deriva poco dalla vendita delle derrate ma molto dai costi delle royalties, dei brevetti industriali dei viventi introdotti negli anni ’90 del ’900.
Analogamente anche il sistema Big Pharma ha quasi completamente smesso da dieci anni la ricerca di nuovi prodotti per cui una serie di batteri infettivi sono diventati resistenti, ma le royalties continuano ad essere pagate alle imprese. Non solo. Parallelamente alla distruzione delle diversità e la conseguente riduzione della capacità di rispondere ai cambiamenti del contesto, si sta entrando in una fase di sofferenza e turbolenza che porta alla rottura delle connessioni fra gli umani, fra questi e gli altri viventi, e con tutto il sistema Pianeta.
Da qui la accelerazione del cambiamento climatico, il balbettamento degli umani aumentato dalla crescente insofferenza fino alla rabbia e alla paura, alle divisioni, e alle guerre. Il tutto accentuato dal fallimento della epoca moderna che puntava alla costruzione tutta umana di un Pianeta meccanico, alla crescita infinita, e poi alla sostituzione di questa con la crescita della moneta online e l’allontanamento continuo dalle vite reali, le loro diversità e connessioni. 

L’Altra Europa e il big bang di sabato: «L’unità non può avere un proprietario» Sinistra. Revelli: sarà un'assemblea, non la nuova costituente. Il 19-20 marzo una nuova tappa. «L’idea di partito è superata. In Sel c’è qualcuno che ha nostalgia della coalizione» di Daniela Preziosi il manifesto 16.2.16
All’evento della sinistra del prossimo venerdì a Roma parteciperanno, sì, «considerandolo però non il processo costituente come l’avremo voluto, ma una parzialità, e tuttavia una significativa occasione di confronto». Così il sociologo Marco Revelli a nome dell’Altra Europa con Tsipras (che con Sel, Prc e altri alle Europee del 2014 ha preso il 4 per cento e tre europarlamentari, poi uno, Barbara Spinelli, ha lasciato il gruppo) spiega — in una conferenza stampa alla Camera — come va interpretata la presenza della lista alla tre giorni di ’Cosmopolitica’, dal 19 al 21 febbraioal Palazzo dei Congressi di Roma. L’evento è convocato da una gruppo di movimenti, associazioni, personalità anche molto diverse (dall’ex segretario Cgil Sergio Cofferati all’ex disobbediente Luca Casarini, per dire), ma senza dubbio risente della marca forte di Sel e Sinistra italiana, il gruppo della Camera nato dall’unione fra vendoliani ed ex pd. Ed è questa è già una prima cosa che non va: un processo aggregativo, spiega Revelli, «non può essere ipotecato da proprietari».
Per il sociologo l’altro problema di Cosmopolitica è quello dei contenuti: la piattaforma — spiega — «è un passo indietro rispetto al testo intitolato ’Noi ci siamo’». Si tratta di un documento che aveva costituito un abbozzo di piattaforma unitaria di tutta la sinistra politica (tranne le varie famiglie trozkiste). Era lo scorso autunno. Ma sotto le insegne di quel manifesto l’ebbrezza dell’unità è durata meno di un giorno: prima si è disimpegnato Pippo Civati, poi Si e Prc hanno rotto sul tema dello scioglimento dei partiti di provenienza nella nuova ’cosa’. Il Prc non ha alcuna intenzione «di sciogliere l’ultimo partito comunista italiano, anzi vede in questa richiesta un elemento reazionario», ha rincarato il segretario Paolo Ferrero sabato scorso in un seminario dove ha invitato gli esponenti di tutte le formazioni della sinistra europea per (provare a) dimostrare che l’unità non necessita dello smantellamento dei singoli partiti.
Infatti alle giornate Cosmopolitica il Prc formalmente non parteciperà. Ma manderà i suoi osservatori proprio in quanto componenti di Altra Europa; in più lo stesso Ferrero parlerà dal palco, per esplicito invito di Sinistra italiana. Ciò non toglie che in molte città tutta la sinistra partecipa alle amministrative con liste unitarie (tranne Milano, Cagliari e Trieste).
Torniamo all’Altra Europa. Per ora la lista non entra nel gruppo di punta del nuovo soggetto. Ma questo week end può essere l’occasione «per accettare un passo indietro e per farne due avanti» a condizione che «il tema dell’inclusività resti prioritario, che non ci siano strette organizzative che finirebbero per essere un intralcio al percorso costituente». Condizione in pratica già accettata dagli organizzatori, che immaginano il congresso fondativo del partito solo per dicembre, dopo il referendum costituzionale. Revelli chiede che «le varie partecipazioni non prevedano analisi del sangue preventive». Lui invece un’analisi al dibattito interno a Sinistra italiana se la concede: «Vedo che si torna a discutere di centrosinistra. Mi sembra la nostalgia di un’altra era geologica. In più c’è chi propone un congresso fondativo per mozioni contrapposte: liturgie congressuali di partiti organizzati sul modello dello Stato nazionale». Un eventuale nuovo soggetto dunque non dovrebbe essere un partito, strumento ormai a suo parere inutilizzabile, ma una forma organizzativa «non prigioniera del sovranismo». E se dovrà votare una linea, passaggio ineludibile per un’organizzazione che si voglia definire democratica, «dovrà procedere ’una testa un voto’, non per scontri fra gruppi predefiniti».
Ma il vero punto debole del nascituro partito a trazione Sel-Si è, per l’Altra Europa, che non tutti i dirigenti hanno fatto giuramento di non allearsi più con il Pd. Una precondizione per l’unità, secondo Revelli: «Per noi il Pd ormai ha subito una mutazione genetica, quindi non è riproponibile alcuna alleanza».
Alla discussione sul processo costituente Altra Europa mette a disposizione l’assemblea annuale di Altra Europa, che si terrà probabilmente a Torino, il 19 e 20 marzo «per un nuovo momento di confronto tra tutte le forze politiche che si muovono in questo orizzonte e che parlano a quel popolo di sinistra che da anni attende una casa comune».
la sinistra non capisce sanders 
Riccardo Barenghi Stampa 16 2 2016
Uno spettro si aggirava per l’Europa ed era lo spettro del comunismo, scrissero Marx ed Engels nel loro Manifesto del 1848. Quello spettro, riveduto e corretto (non è più comunista, per fortuna) oggi si aggira per gli Stati Uniti ed è un uomo in carne e ossa: si chiama Bernie Sanders ed è un senatore di 75 anni che si è candidato alle Primarie americane per correre verso la Casa Bianca in novembre. Sta sfidando Hillary Clinton e ha un grande successo elettorale, in particolare tra i giovani. Dice cose di sinistra, molto di sinistra, le ha sempre dette nella sua ormai lunga carriera politica. E’ stato sindaco di Burlington nel Vermont per tre volte, nel 2007 è stato eletto al Senato federale dove si è ripresentato nel 2012 ottenendo il 71 per cento dei voti e sconfiggendo così il suo avversario repubblicano.
Da quando è su piazza, Sanders non ha perso occasione per schierarsi contro tutte le guerre moderne, dal Vietnam fino all’Afghanistan e all’Iraq. Combatte per ridurre le diseguaglianze sociali, vuole un salario minimo per i disoccupati (15 dollari l’ora contro i 10,10 dell’ultima proposta dei democratici respinta dal congresso), propone che l’Università sia gratuita, che i lavoratori godano di vacanze e permessi retribuiti. Insomma, sembra di sentir parlare un dirigente della sinistra europea, un vero socialdemocratico, e non solo il leader del Labour party britannico Corbyn ma anche i nostri Bersani, Cuperlo, Vendola, Ferrero, Civati, Cofferati e compagnia cantando.
Peccato che questa compagnia non canti la stessa canzone di Sanders, da quando il senatore americano è sceso in campo ottenendo anche notevoli successi elettorali non si è sentita una voce, tantomeno un coro elevarsi in suo favore. Escluso un tweet del segretario di Rifondazione, la nostra sinistra più o meno radicale non ha colto l’occasione di mobilitarsi, ovvero di utilizzare pro domo sua la battaglia che si sta combattendo Oltreoceano. Strano ma vero. Eppure in altri casi l’occasione era stata colta, basti pensare alla battaglia condotta da Fausto Bertinotti sulle 35 ore prendendo esempio dall’allora primo ministro francese Lionel Jospin (battaglia vinta per garantire un altro anno di vita al governo Prodi nel ’97, ma poi persa insieme allo stesso governo l’anno successivo). Oppure all’esempio di Oskar Lafontaine, leader della Spd tedesca, che fu la bandiera della sinistra italiana per alcuni anni. Fino alla recente infatuazione per Alexis Tsipras, tanto da presentare una lista a suo nome alle ultime elezioni europee (fu un mezzo fallimento, ma comunque ottenne tre deputati).
Stavolta invece niente, non una parola, non un convegno, un’intervista, figuriamoci una manifestazione. Niente, solo silenzio. Che non si spiega neanche con il realismo di chi pensa che tanto Sanders alla fine perderà le primarie contro Hillary e che, se pure per miracolo le vincesse, perderebbe comunque la sfida per la Casa Bianca. La sinistra di cui stiamo parlando ha sempre combattuto anche, anzi soprattutto, le battaglie perse, rivendicando peraltro la loro giustezza a prescindere dal risultato finale. Dunque non può essere questa la ragione del silenzio, così come è difficile pensare che ci sia un pregiudizio antiamericano, tanto forte da impedire di guardare oltre il proprio naso. E allora perché? Troppo concentrati sulle loro piccole scaramucce, troppo presi dalla politique politicienne, troppo immersi nell’ultima diatriba per le candidature alle amministrative? O forse troppo ossessionati dalla battaglia contro Renzi, senza rendersi conto che appoggiarsi su quel che dice Sanders dalla sponda della nazione più forte del mondo alzerebbe il livello politico e culturale di quella battaglia?
La risposta, come cantava un altro americano, che ha la stessa età di Sanders e che nella sua vita ha detto più o meno le stesse cose, «is blowin’ in the wind». Chissà se i nostri sinistrati si ricordano di Bob Dylan.

Uscire dal risiko delle combinazioni elettorali
Cosmopolitica. Da tempo gli elettori hanno indicato che non amano i cartelli elettorali, come si è visto nei fallimenti precedenti, a partire dalla sinistra arcobaleno di Bia Sarasini il manifesto 16.2.16
D’improvviso se ne sono accorti tutti, dopo i risultati delle primarie del Pd per il sindaco di Milano. Non c’è più una sinistra in scena, lo conferma il profilo indistinguibile dei candidati sindaco a Milano del Pd e del centrodestra, Giuseppe Sala e Stefano Parisi. E volenterosi i commentatori, tra giornali, social e talkshow, si precipitano ad analizzare l’ampio spazio lasciato vuoto dal Pd, e dalle sciagurate scelte della sinistra arancione. Per concludere desolati, che sì, lavoratori pensionati precari avrebbero bisogno di rappresentanza politica. Ma non c’è nulla di nuovo all’orizzonte.
Non è dalla favola del nuovo, questa postazione ambita da chi deve conquistare l’attenzione della narrazione mediatica, che viene una lettura capace di comprendere quello che avviene. Nuovo non è fare fuori i vecchi, in una coincidenza pseudo-naturalistica tra la freschezza delle idee e l’età anagrafica. Si rischia di non comprendere il nuovo che viene da Bernie Sanders, o Jeremy Corbin, in scenari dove tutto sembrava già capito, per questo classificati come nuovissimi negli schemi delle élite internazionali. Non afferrare perché questi anziani politici viene attribuita la definizione che è stata affibbiata al giovane Pablo Iglesias: antisistema. Una parola-sintomo, che rivela ciò che si teme. Che si butti all’aria il sistema.
E se torniamo in Italia, l’accusa di essere vecchi, non è quella più frequente tra i pezzi sparsi di sinistra? Lo dico subito, sono in parte in causa. Ho dedicato tempo a cercare di creare uno spazio in cui stessero insieme forze politiche che, come si è constatato con la rottura del tavolo, non possono e non vogliono stare insieme, preferiscono organizzarsi in proprio. Ma non scrivo per recriminare, anche se è evidente che la separazione mina fortemente la credibilità . Nei confronti degli elettori, ma anche nei confronti degli attivisti. Che preferiscono rivolgere le loro energie, a cause più mobilitanti. A liste unitarie per le amministrative. E soprattutto alla battaglia per i referendum istituzionali e sociali. Punto cruciale, per ogni futuro scenario politico e sociale del Paese. Una battaglia che ha bisogno di vitalità, speranza, convinzione. Una battaglia da fare uniti, nella prospettiva più ampia possibile.
In questo fine settimana a Roma l’assemblea convocata dal documento «La sinistra di tutte e tutti» invita a un percorso per un nuovo soggetto politico. Un invito che ha senso, se dall’assemblea si aprirà un processo dalle molte tappe, che arrivi a fine anno al congresso che fonderà il nuovo partito, nell’apertura, non nella chiusura. Senza dare per scontate fin da ora future alleanze elettorali tra parti diverse. È da tempo che gli elettori hanno indicato che non amano i cartelli elettorali, come si è visto nei fallimenti precedenti, a partire dalla sinistra arcobaleno. Questo insegna il successo modesto, ma finora unico dopo una serie di sconfitte, dell’Altra Europa con Tsipras. Una vera esperienza unitaria, che andava oltre le sigle. E lo dico ben consapevole dei problemi successivi, e della delusione che hanno seminato.
Per questo sono convinta che il processo costituente per il nuovo soggetto non possa che essere unico, che va lasciato alla responsabilità di ciascuno il tenersene fuori, senza esclusioni preventive. Per questo mi auguro che al centro dell’assemblea, e di tutto il processo, ci sia la politica, e non le pur necessarie preoccupazioni organizzative. Il campo delle opzioni è ampio, tra partecipa. C’è perfino chi immagina il futuro come un ritorno all’Ulivo. Lo confesso, è una discussione che non mi appassiona, questa sì la trovo molto vecchia. E con me credo che appassioni ben pochi. E pochissime. Non c’è nulla di più vecchio del gioco dei posizionamenti.
È stato un inizio di anno drammatico, in Italia e in Europa. Le banche rischiano di crollare, insieme all’intero sistema, mentre si chiudono ovunque le frontiere. I migranti, da fenomeno stagionale, su cui commuoversi solo d’estate, continuano ad arrivare in massa e si comincia a capire che non ci lasceranno più. Dopo gli attentati di Parigi che hanno spinto la Francia, la culla della democrazia occidentale, a cambiare la Costituzione, il terrorista cambia volto e si manifesta come molestatore, nella piazza di Colonia. Solo le femministe, tenute ai margini della scena politica, alzano la voce per spiegare che non c’è un’esclusiva musulmana della violenza maschile, e non si arruolano nell’isteria collettiva. La sinistra è afasica, mentre le destre più reazionarie non hanno paura di parlare. Per questo è necessaria la politica, la capacità di trovare una parola che dia un senso condiviso ai fatti, indichi una possibilità di cambiamento, che non sia una resa. Per questo mi auguro che nell’assemblea si abbandoni il risiko delle combinazioni. E si apra la strada a cercare una propria forza. Non dei numeri, non solo. Di una visione. 

Le voci sulla paternità del leader di Sel
Gli amici raccontano: “Vendola avrà un figlio” Insieme al compagno Eddy Testa sarebbe già negli Stati Uniti in attesa della nascita del bimbo di Lello Parise Repubblica 16.2.16
BARI. «E’ così: sta per nascere». Nichi Vendola, cattolico e gay, diventerà papà. Gli amici del leader di Sel ed ex presidente della Puglia a bassa voce confermano la notizia che rimbalza anche in Parlamento.
Nessuno vuole esporsi. Ma nessuno intende smentire un progetto di vita che da tempo è stato dichiarato da Vendola. «Se anche fosse - ripetono sono fatti suoi». Altri, addirittura fanno sapere che il lieto evento «potrebbe verificarsi perfino nel giro di una manciata di settimane». In realtà un pò tutti parlano di due mesi.
Vendola, insieme con il compagno Ed Testa, sarebbe infatti in America. Qualcun parla di California. Sebbene la soluzione più semplice sarebbe il Canada. Ed infatti è canadese e i suoi genitori vivono a Montreal. Peraltro la maternità surrogata proprio in Canada è perfettamente legale. Una normativa considerata tra le più avanzate in questo campo. Una circostanza che è stata valutata con attenzione.
Nessuno conosce il sesso del futuro nascituro e comunque nessuno intende parlare apertamente della vicenda. Ma avvertono che qualunque sarà il colore del fiocco, azzurro o rosa, Nichi ed Ed avrebbero l’intenzione di rimanere all’estero almeno per due-tre mesi, al riparo da occhi indiscreti. Secondo gli amici più stretti della coppia, i due non intendono vivere l’incubo di finire nel tritacarne mediatico. Il bambino/a rischia di essere il bersaglio preferito di curiosi e soprattutto paparazzi. Una foto, è la loro preoccupazione, può diventare il trofeo più ricercato. L’unico che con nome e cognome veste i panni del pompiere per spegnere il fuoco del gossip, è il coordinatore di Sinistra e libertà, Nicola Fratoianni: «Non mi risulta niente del genere ». Eppure chi conosce la vita familiare dell’ex governatore pugliese qualche cenno di assenso lo fa. Certo, nessuno va oltre le chiacchiere benevole, ma prudenti. Ma nessuno se la sente di smentire gli obiettivi di quello che a Bari negli anni scorsi era stato soprannominato il “rivoluzionario gentile”.
Lo stesso Vendola del resto non aveva mai negato non solo il desiderio di essere genitore, ma anche quello di volere pronunciare il fatidico sì in un matrimonio. «Vorrei farlo» raccontava a
Repubblica a marzo dell’anno scorso: «Uso provocatoriamente questo mio sogno contro la pigrizia della politica sul tema dei diritti civili, che devono essere uguali per tutti e per tutte». Avere un erede, non suonava come un capriccio: «Appena lascerò l’incarico alla Regione, rifletterò se affrontare la paternità. Questo è un pensiero che riposa in un angolo della mia vita e che ho sempre rimandato. Per quanto mi riguarda, ogni volta che leggo di un neonato abbandonato in un cassonetto dell’immondizia, vorrei correre a prendermi cura di quella creatura».

Sinistra, sfida per l’egemonia
Intellettuali antiliberisti. Ritrovare una connessione tra la lettura critica del presente, fondata su robuste basi teoriche, e i luoghi e gli strumenti con cui filtrare la produzione intellettuale nella cultura politica diffusa di Antonio Floridia il manifesto 17.2.16
L’intervento di Piero Bevilacqua non sollecita soltanto una riflessione sulla parcellizzazione dei saperi: da qui si può partire, infatti, anche per affrontare un problema immediato, legato alle sorti del nuovo partito della sinistra che si vuole costruire.
Un tratto costitutivo e originale di questa nuova formazione dovrebbe essere la sua capacità di ricreare, e di ripensare su basi nuove, un rapporto tra cultura e politica, oggi profondamente logorato o del tutto inesistente.
L’assenza di questo rapporto si materializza in un dato: da una parte, non si può dire che sia assente una produzione intellettuale — anche di alto livello — che possiamo definire «critica» (ovvero, che non si adegua ad una qualche visione apologetica del presente); dall’altra parte, queste idee non riescono in alcun modo a farsi cultura politica, cioè a diventare forma di auto-comprensione dei comportamenti politici. Uno scarto, insomma, tra ciò che il pensiero critico e democratico del nostro tempo comunque produce e il suo essere in grado di tradursi nelle idee e nel senso comune della prassi politica quotidiana.
Un solo esempio: la teoria e la filosofia politica contemporanea riflettono da tempo su una definizione ideale e normativa di democrazia, sui modi possibili con cui essa può misurarsi oggi con due grandi temi:
a) il pluralismo irriducibile delle visioni del mondo e l’interrogativo sul come costruire, in queste condizioni, una base condivisa di consenso sui fondamenti di una democrazia costituzionale;
b) la tensione tra la logica impersonale e funzionale degli imperativi sistemici globali, che agiscono alle spalle degli individui, e la necessità di riconquistare e garantire una nuova forma della sovranità democratica dei cittadini.
Ebbene, chiediamoci: cosa passa o resta di tutto questo nell’idea diffusa di democrazia che orienta la cultura politica diffusa, anche quella di coloro che continuano a definirsi, e sono, progressisti, democratici e di sinistra? Poco.
Capita anzi di constatare come spesso, in realtà, si esprimano idee — nel migliore dei casi — del tutto fuori tempo rispetto ai compiti del presente -, ma molto spesso anche implicitamente gravate da altre fonti, e da fonti non controllate. Ad esempio, agisce una visione schumpeteriana della democrazia come mera selezione competitiva delle elites o, per altro verso, una visione ingenuamente direttistica e anacronistica della partecipazione popolare.
Ma lo stesso vale per la cultura economica: e basti qui richiamare una celebre battuta di Keynes: «Le idee degli economisti e dei filosofi politici, così quelle giuste come quelle sbagliate, sono più potenti di quanto comunemente si creda. (…) Gli uomini della pratica, i quali si credono liberi da ogni influenza intellettuale, sono spesso gli schiavi di qualche economista defunto (…) odono voci nell’aria, distillano le loro frenesie da qualche scribacchino accademico di pochi anni addietro».Insomma, il concetto gramsciano di senso comune, come stratificazione spesso incoerente e irriflessiva di idee ricevute, non ha perso nulla del suo valore. Ma dove nasce questo scarto? Sarebbe troppo facile addebitarlo (ma nondimeno è una parte della spiegazione) all’assenza di buone letture, o alla logica dell’usa e getta che oggi domina anche il mercato delle idee. Il problema è che, da un trentennio almeno, si è spezzata una qualche connessione organizzata tra produzione intellettuale e cultura politica, in grado di produrre egemonia. I canali si sono interrotti. E si possono individuare due lati del problema.
Da una parte, una malintesa lettura della cosiddetta crisi delle ideologie e l’idea che i partiti possano reggersi solo sui programmi e non anche, e prima di tutto, su una visione della società, dei suoi conflitti, delle possibili alternative (su un sistema di idee, conoscenze e paradigmi, che plasmano programmi e strategie). Su questo punto, qualsiasi progetto di ricostruzione della sinistra deve sforzarsi di reinventare delle istituzioni di raccordo stabile tra tre livelli fondamentali: la produzione scientifica e intellettuale «alta», la cultura politica diffusa, le idee che ispirano l’auto-comprensione dei singoli individui (il loro senso comune).
Ma una spiegazione adeguata di quello scarto richiede altro. E non può che richiamarsi all’esito della vicenda storica del movimento operaio, socialista e comunista, nel Novecento. Schematizzando, si può qui dire questo: la sinistra, sia nelle varianti socialdemocratiche che in quelle comuniste, ha sempre pensato la propria funzione come inscritta, incastonata, in un movimento oggettivo della storia.
La politica era pensata dentro un qualche orizzonte finalistico: ed era questo orizzonte che dava senso all’azione quotidiana e unificava i saperi. La teoria doveva essere la levatrice di questo movimento delle cose, mentre dalla struttura sociale emergeva il soggetto collettivo che se ne poteva fare interprete.
L’idea che un altro modello di società fosse possibile, ed anzi concretamente avviato alla realizzazione in qualche parte del mondo, agiva come potente collante delle forme di coscienza collettiva.
Tutto questo, oggi, è finito, ed è impossibile recuperare una qualche idea di orizzonte a cui rifarsi. Né può supplire a questo vuoto un richiamo ai valori: anche laddove si riuscisse a sfuggire ai rischi della retorica, un valore ha poi sempre bisogno di essere tradotto in un orientamento politico e programmatico.
Ma se non può esserci più alcun ancoraggio ad un senso della storia, ad una direzione che unifichi conoscenze scientifiche, coscienza teorica e prassi politica, non per questo è venuto meno il bisogno di dare un senso a ciò che accade. Il nostro orizzonte, oggi, può essere solo quello della nostra epoca, e le possibilità di cambiamento devono essere intese non come l’aspirazione soggettiva di qualcuno, ma come una risposta credibile ai problemi del presente, e come una potenzialità già inscritta nei fatti che abbiamo sotto gli occhi. È questo il terreno su cui riconnettere produzione intellettuale e cultura politica. La sinistra, in particolare, deve assumere fino in fondo su di sé il compito di ridefinire le forme e il senso della democrazia, globale e locale, nel nostro tempo: e non è un compito pacifico. La battaglia delle idee, come la si definiva un tempo, non ha esiti scontati.
Che vuol dire, oggi, «crisi della democrazia»? Se vuol dire ingovernabilità, allora hanno un senso le risposte e le pratiche istituzionali di tipo plebiscitario e decisionistico, che oggi prevalgono; se vuol dire crisi di legittimazione, occorre cercare altre risposte. E il confronto non è solo tra il neoliberismo (formula che rischia di diventare un comodo pass-partout) e la sinistra (vecchia o nuova): vi sono letture diverse anche tra coloro che pure si oppongono allo stato di cose presente. Da alcuni versanti antagonistici, ad esempio, provengono letture apocalittiche della democrazia, che in modo molto disinvolto sottovalutano la necessaria difesa di uno stato costituzionale di diritto e buttano alle ortiche ogni idea di democrazia rappresentativa. O che si appellano al proliferare di micro-conflitti prodotti da soggettività mutevoli e contingenti, magari da unificare con la creazione artificiale di un popolo. Non sono temi, questi, da considerare oggetto di convegni e seminari: dall’idea di democrazia che abbiamo in testa discendono anche i comportamenti politici quotidiani.
Una lettura critica del presente, fondata su robuste basi teoriche e solide acquisizioni scientifiche, da un lato; e dall’altro, i luoghi e gli strumenti con cui filtrare la produzione intellettuale nelle idee e nella cultura politica diffusa: se non si ricostruisce questa connessione, una qualche egemonia — con quello che questa vecchia parola evoca — avrà comunque modo di affermarsi. Ma non sarà della sinistra. 

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