venerdì 19 febbraio 2016
La marchetta a Te dovuta. Lacan e posta del cuore di Repubblica
Nel secondo volume della sua monografia Massimo Recalcati, attraverso l’analisi dei casi clinici del maestro, racconta come guarire
ROBERTO ESPOSITO Repubblica 17 2 2016
Il 2 febbraio 1933, nella cittadina francese di Le Mans, due domestiche, le sorelle Papin, sgozzano le padrone, madre e figlia, cavando loro gli occhi e infierendo sui loro corpi. Il 10 aprile 1931 una donna trentottenne, Marguerite Anzieu, armata di coltello, attende una celebre attrice all’uscita del teatro, tentando di ucciderla e riuscendo a ferirla. Un bambino di quattro anni, di nome Robert, che riesce a dire solo due parole — “Signora”
e “Lupo” — cerca con un paio di forbici di tagliarsi il pene davanti ad altri bambini terrorizzati. Sono istantanee agghiaccianti tratte da celebri casi analizzati da Jacques Lacan, personaggio a cui è dedicato il nuovo libro di Massimo Recalcati, e che ha come sottotitolo La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto
(Raffaello Cortina).
Si tratta del secondo, ponderoso, tomo di uno straordinario dittico, dedicato dall’autore al grande analista francese. Il primo volume, intitolato Desiderio, godimento, soggettivazione, era già apparso qualche anno fa. Se esso ricostruiva la concezione complessiva di Lacan, inquadrandola nel suo contesto teoretico, questo è dedicato alla sua intensa esperienza clinica. Benché sia conosciuto più per i suoi geniali scritti filosofici, Lacan è stato innanzitutto uno psicanalista che passava le giornate ad ascoltare esseri umani feriti nell’animo, assediati dall’angoscia, provati dal dolore. Nelle pagine finali del libro Recalcati richiama la dialettica tra parola e silenzio mediante la quale, tacendo le proprie domande e raffrenando il proprio desiderio, l’analista cerca di tradurre la sofferenza di chi ha di fronte in un’interrogazione sulla sua intera esistenza. È il momento in cui la prassi analitica assume su di sé la responsabilità di un compito inesauribile, legando due vite in una relazione che le mette entrambe in gioco. In tale confronto esse sperimentano quella presenza enigmatica dell’Altro, costitutiva di ogni esistenza, che è al cuore dell’insegnamento di Lacan.
Il sottotitolo del libro di Recalcati, “struttura e soggetto”, nomina i due fuochi nevralgici intorno a cui si sviluppa l’intera teoria lacaniana — e cioè la costruzione della soggettività e il limite su cui essa, spesso dolorosamente, batte. Questi due elementi — il processo di umanizzazione prodotto dall’incontro con l’altro e la violenza con cui il reale investe il soggetto — costituiscono gli argini tematici del lavoro di Recalcati. Non capita di frequente che la condivisione di intenti di un autore con il proprio maestro pervenga a un risultato interpretativo così rigoroso e maturo, capace di restituire tutte le pieghe della sua opera, senza mai perderne di vista il significato d’insieme. Che sta nell’equilibrio, necessario ma sempre a rischio, tra il desiderio e la legge. Soltanto la legge — rappresentata da tutti i possibili nomi del padre — inserisce un diaframma nel rapporto, altrimenti mortifero, tra desiderio e godimento. Quando questi si avvitano fino a identificarsi, il soggetto rischia di rimanere soffocato dall’assenza di mediazioni. Senza passare per l’Altro, egli non può ritrovare se stesso.
Ma non deve cadere nell’eccesso opposto, consegnandosi interamente a esso. Se così fosse, la legge diverrebbe una potenza arbitraria che ci opprime. In questo caso avrebbero ragione Deleuze e Guattari, che nell’Antiedipo associano la legge alla repressione. Piuttosto che incarnarsi nel desiderio, essa ne impedirebbe il dispiegamento. Contro questa interpretazione, Lacan tiene fermo il punto: pur barrandolo, la legge non è nemica, ma condizione del desiderio. Ciò che gli impedisce di implodere nell’immediatezza del nudo godimento.
Tutte le nevrosi nascono dalla rottura di questo equilibrio a favore di un polo o dell’altro. In un quadro ricchissimo di riferimenti filosofici e letterari — in cui risaltano i nomi di Hegel e Sartre, Heidegger e Foucault, Gide e Joyce — Recalcati ripercorre gli snodi decisivi della clinica lacaniana. Dallo sviluppo, tutt’altro che semplicemente evolutivo, del bambino, alla ferita della follia, in cui la libertà del soggetto si spinge tanto oltre da strappare la propria radice. Dall’esperienza autoreferenziale della paranoia a quella, specularmente contraria, della schizofrenia. Se nella prima il soggetto si riempie di se stesso immunizzandosi nei confronti dell’altro, nella seconda esso si disarticola come «un’orchestra senza direttore». Se il paranoico — il cui esempio estremo è rappresentato dalla sindrome distruttiva di Hitler — ne è ossessionato al punto di volerlo annientare, lo schizofrenico se ne fa sbranare.
Ciò vale anche per il rapporto con l’oggetto, cui Lacan si dedica dopo gli anni Cinquanta, interrogando la doppia figura della melanconia e del feticismo. In ciascuno di essi il soggetto si perde nell’adorazione estatica dell’oggetto. Alla pretesa innocenza del soggetto paranoico, corrisponde l’immaginaria colpevolezza del malinconico, che si richiude in se stesso, come il protagonista della Nausea di Sartre (che doveva appunto intitolarsi Melanconia) o il personaggio della Tana di Kafka. Scollegato dal linguaggio dell’esistenza, non gli resta che la pura ripetizione di una vita denudata di senso. Delirio paranoico, corpo schizofrenico ed esperienza melanconica sono le tre diverse declinazioni di una psicosi che ha sempre alla base la rottura della relazione triangolare tra desiderio, godimento e legge. Allorché il godimento si emancipa dalla legge, travolgendo anche il desiderio, il soggetto ne resta schiacciato, perdendo la capacità di simbolizzazione. Quando, al contrario, è la legge a occludere il godimento, il soggetto resta sacrificato a una divinità oscura e dispotica.
Nel Seminario VII di Lacan, Sade e Kant portano all’estremo queste due opzioni, facendosi l’uno l’ombra rimossa dell’altro. Questo abbinamento enigmatico costituisce forse il vertice dell’intera opera di Lacan — il punto in cui il segreto che essa sembra celare lascia trasparire la sua verità. Entrambi, Kant e Sade, seguono un imperativo incondizionato, assegnandogli un significato universale. Sacrificare ogni godimento a favore dell’altro o godere di lui fino a distruggerlo. Entrambi si spingono aldilà del principio di piacere, dove la morte si profila non solo alla fine, ma all’origine della vita, risucchiandola nel suo gorgo. Ciò che tutti e due — i guardiani della legge e i forzati del godimento — mancano, cancellandola, è quella dimensione dell’amore che resta al centro della prassi clinica di Lacan. Il soggetto viene alla vita invocando l’altro, esprimendo una domanda d’amore, un’esigenza di riconoscimento. Ciò che esso desidera non è altro che potere, e sapere, desiderare.
Anche quando la parola gli manca — e la parola gli manca sempre. Anche quando la “struttura” prevale sul “soggetto”. Allora rischia di strapparsi la rete di simboli di cui la nostra esistenza è intessuta. Allora la libertà pare perdersi nel destino. Ma Lacan è sempre lì — a dirci che è ancora possibile ripartire.
Massimo Recalcati nel Nome del Padre
Psicoanalisi. Rivitalizzata dall’esperienza sul campo, questa riflessione sul metodo clinico lacaniano è un approdo e insieme un avvio per la analisi dei nuovi sintomi
Franco Lolli Alias Manifesto 13.3.2016, 6:00
Il contributo di Jacques Lacan alla clinica psicoanalitica è, probabilmente, quanto di più significativo e importante c’è nella sua intera opera: proprio dalla pratica quotidiana di ascolto dei suoi analizzanti, infatti, lo psicoanalista parigino seppe estrarre quelle preziose e geniali osservazioni che, fecondate dai saperi di altre discipline – la linguistica, la matematica, la filosofia, lo strutturalismo, la topologia – diedero origine alle sue innovative concezioni in ambito teorico.
In maniera analoga, Massimo Recalcati ha portato a compimento il suo progetto di scrivere quello che può essere considerato, a tutti gli effetti, il primo manuale teorico-clinico in lingua italiana sull’opera di Jacques Lacan. E se nel primo volume (uscito nel 2012), metteva in evidenza la profondità speculativa, metapsicologica e teoretica dello psicoanalista francese, nel volume appena uscito, Jacques Lacan Vol. 2 La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto (Cortina, pp. XXII-667, euro 39,00) è l’accurata riflessione sulla clinica psicoanalitica a occupare una posizione di assoluto primo piano. Recalcati, infatti, conduce il lettore (anche quello non formato alla pratica lacaniana) in un percorso chiaro e, al tempo stesso, rigoroso, le cui tappe scandiscono i principali temi della clinica strutturale: il recupero della distinzione freudiana tra nevrosi e psicosi, la specificità della posizione perversa, lo studio della psicopatologia infantile, la definizione di criteri diagnostici, la considerazione del rapporto tra struttura e soggetto e così via.
Il libro è, inoltre, arricchito da un’ampia sezione dedicata alla direzione della cura e al problema della tecnica della psicoanalisi che, insieme all’appendice finale nella quale Recalcati commenta la teoria dei quattro discorsi di Lacan applicandola all’analisi della contemporaneità, attribuisce al libro – avviato da una parte di stampo eminentemente eziopatogenetico – un carattere di assoluta completezza.
Dal saggio emerge chiaramente il talento clinico dell’autore, che si traduce nell’evidente confidenza con i concetti che fondano la pratica psicoanalitica alla quale ha dedicato la propria vita. È, infatti, il Recalcati clinico raffinato e scrupoloso, dotato di un acume e di un intuito raro a venire fuori da questo ampio studio: il Recalcati che ha sempre accettato di prendere in cura casi ‘gravi’ e che, proprio su questa frontiera estrema del trattamento, ha saputo elaborare e formalizzare nuove possibilità terapeutiche, nuove modalità di presa in carico, nuovi luoghi di accoglienza per domande fragili; è questo Recalcati – in parte sconosciuto al grande pubblico – che l’uscita di un tale volume mette in primo piano.
Per chi conosce il suo percorso non sarà certo una sorpresa: Recalcati ha abituato i suoi lettori più interessati alle questioni psicoanalitiche a testi clinici di grande spessore, ormai divenuti riferimenti imprescindibili all’interno del campo lacaniano, da L’ultima cena fino a L’uomo senza inconscio, passando per La clinica del vuoto, sono molti i testi dedicati alla clinica psicoanalitica, uno dei tre grandi vettori della sua ricerca, insieme all’approfondimento dei presupposti filosofici e teoretici della dottrina lacaniana, da una parte, e all’analisi della fenomenologia psicosociale del presente, dall’altra.
Di questa serie, il volume appena pubblicato sembra rappresentare un punto di arrivo in forma di ricapitolazione esaustiva della riflessione sulla clinica lacaniana, filtrata e vitalizzata da anni di esperienza «sul campo», e al tempo stesso un punto di partenza, saturo di spunti, di proposte, di osservazioni, di suggerimenti, di prese di posizione che, pur se rigorosamente fondate sullo studio del testo di Lacan, ne costituiscono una possibilità di avanzamento e di sviluppo. È questo, forse, il merito principale di Massimo Recalcati: aver attraversato l’intera complessità dell’insegnamento di Jacques Lacan e averne proposto una lettura personale, in grado di valorizzare passaggi che il lacanismo attuale tende a sottovalutare.
Tra questi, sicuramente, la centralità del desiderio e della sua potenzialità generativa, che costituisce, in effetti, il fulcro concettuale (ereditato dal Lacan dei seminari degli anni sessanta) intorno al quale Recalcati ha scelto di focalizzare il proprio lavoro di ricerca. Rispondendo così al problema capitale di fronte al quale si è trovata la sua attività clinica (come quella di ogni suo contemporaneo): la tendenza delle persone che abitano il presente a indugiare in un’esistenza ingolfata dal narcisismo, dall’edonismo, dal nichilismo, derive alle quali la debolezza del registro simbolico, l’infiacchimento dell’ideale, il progressivo smantellamento del principio di autorità – ovvero l’evaporazione di ciò che Lacan chiamava il Nome del Padre – sembrano aver spianato la strada.
Il potere del desiderio di contrastare le derive autolesive del godimento, un godimento non più regolato dal limite che il sistema simbolico ha tradizionalmente imposto, trova nell’intero lavoro di Recalcati una accentuazione che lo percorre trasversalmente, la cui più fondata giustificazione sta proprio nella pratica psicoterapeutica. Il trattamento psicoanalitico (come del resto qualunque trattamento psicoterapeutico) riesce nella misura in cui, attraverso il dispositivo significante sul quale è basato (l’utilizzo esclusivo della parola, la non reciprocità della relazione terapeutica, il rispetto di regole necessarie al funzionamento del setting, l’istituzione di un ritmo di presenza-assenza, la promozione della capacità di attendere e della possibilità di sopportare il rinvio, e così via), è in grado di agire sull’economia libidica sintomatica, facendo sì che il soggetto possa mettere al proprio servizio quell’eccesso pulsionale dal quale sarebbe, altrimenti, tendenzialmente cancellato.
È questo un dato clinico incontestabile che Recalcati ha messo al centro del proprio lavoro riuscendo a farne una chiave di interpretazione del presente, così come l’hanno restituita i suoi testi più noti, Cosa resta del padre, Il complesso di Telemaco, L’ora di lezione, dotati di una innegabile forza di penetrazione nell’opinione pubblica. Di questa sua posizione – nella quale alcuni commentatori hanno visto risvolti problematici sul piano teorico, per la possibile esposizione a letture di tipo nostalgico, motrici di sentimenti di rimpianto nei confronti di un ordine culturale superato dalla storia – l’argomentazione sul piano clinico manifesta, al contrario, una coerenza difficilmente confutabile: la prepotenza pulsionale in gioco nelle cosiddette nuove forme del sintomo – attacchi di panico, dipendenze, depressioni, sociopatie adolescenziali, tendenze all’isolamento, iperattività infantili – può essere contenuta e canalizzata in altro solo grazie a un assetto terapeutico che funzioni, a tutti gli effetti, come argine simbolico.
Detto altrimenti: le possibilità di cura del disagio contemporaneo sono profondamente dipendenti dalla forza con cui l’intervento terapeutico sa imporre una misura, una continenza, un principio di moderazione alla pulsione di morte che, nelle sue molteplici manifestazioni, spicca come tendenza dominante del mondo occidentale.
Come se, l’indubbia pertinenza delle considerazioni maturate in ambito clinico costringesse a pensare la necessità – spostata, questa volta, sul piano macrosociale e culturale – di inventare nuove forme del simbolico, per avvalersi di nuovi sembianti, costruire nuove forme di narrazione che, lungi dal trasformarsi in sussulti reazionari, si dimostrino capaci di ripristinare un concetto di trascendenza, e di riabilitare una funzione sublimatoria in grado di contrastare la presa desoggettivante e annichilente della sintomatologia ipermoderna. Quasi che – sembrerebbe affermare Recalcati – l’esortazione di Freud a trarre dalla clinica gli elementi necessari alla fondazione e allo sviluppo della teoria possa essere estesa alle riflessioni sociologiche e agli studi antropologici. E come se, coerentemente all’insegnamento di Lacan, pur dovendo fare a meno del registro simbolico, fossimo tutti chiamati a servircene.
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