lunedì 1 febbraio 2016

Mi è sembrato di averlo già visto questo film ma l'attore era nero... Manifesto sempre primo nella gara di fischi per fiaschi



I cantori spericolati del socialismo cool
Da Sanders a Varoufakis, spopola il leader un po’ macho e un po’ retrò
di Paola Peduzzi Foglio | 03 Febbraio 201

Il socialista che piace al popolo più anti-marxista del mondo
Perché «i soldi si fanno altrove»

di M.Ga. Corriere 1.2.16 Bernie 
Il populismo americano, un vento tradizionalmente forte nel Mid-West. Il malessere degli elettori del ceto medio che sentono di contare sempre meno e vedono i loro redditi ristagnare o, addirittura, calare. L’ostilità nei confronti della finanza di Wall Street. Sono questi i fattori che stanno mettendo le ali alla campagna dei due candidati-ribelli della destra e della sinistra, Donald Trump e Bernie Sanders. Com’è possibile che due personaggi agli antipodi, non solo come proposta politica ma anche come stile, peschino negli stessi umori?
Perché il ridimensionamento del ruolo degli Usa nel mondo e gli squilibri nella ripresa dell’economia americana hanno aperto varchi per i candidati dell’antipolitica tanto a destra quanto a sinistra, lasciando al centro esponenti repubblicani moderati come Jeb Bush che raccolgono le briciole e Hillary Clinton costretta, anche se di malavoglia, a mettersi sulle spalle l’eredità politica di Obama. Nel suo populismo tuonante, Trump promette tutto a tutti: meno tasse, più lavoro, più servizi. Idolo degli operai bianchi conservatori perché non si presenta come miliardario ma come uno deciso a cacciare gli immigrati che «rubano» il lavoro.
Sanders, che si dichiara socialista in un Paese da sempre allergico a ogni influenza marxista, sembrava destinato a raccogliere consensi quasi solo negli Stati progressisti del New England, attorno al suo Vermont. Ma poi ha cominciato a riempire piazze e palasport da un capo all’altro dell’America mentre Hillary Clinton teneva comizi davanti a platee mezze vuote. Anche nell'Iowa, Stato di solide tradizioni conservatrici e molto religioso, Sanders sta spopolando. Qui, nel villaggio di Waterloo, lo acclamano i giovani ma anche le famiglie. La spiegazione c’è: questo Stato ha un elettorato molto ideologico, a destra come a sinistra. Alla fine, più del pragmatismo di Hillary, fa presa la logica socialdemocratica di Sanders che tocca i tasti giusti come le eccessive sperequazioni nella distribuzione dei redditi e la necessità di migliorare i servizi sanitari nelle campagne: «29 milioni di americani ancora senza assistenza medica nel Paese più ricco del mondo. Molti altri sono coperti solo in parte. E il sistema Usa costa molto di più di quelli europei che coprono tutti». Sanders ora propone di smantellare le assicurazioni sanitarie private o di trasformarle in «non profit». Quasi una «mission impossible» ma Bernie fa breccia quando dice che, affidandosi al mercato, nelle campagne non ci saranno più medici perché i soldi si fanno altrove.
Stasera si vota: vedremo se il sostegno delle piazze troverà riscontro nei «caucus». Sanders può fare bene qui e vincere in New Hampshire, ma Hillary resta favorita, visto il suo enorme vantaggio negli Stati-chiave.

Il socialista Sanders prende di petto Hillary: “Sa solo aggredire”
Il disagio di giovani e immigrati i suoi punti di forza

di Paolo Mastrolilli La Stampa 1.2.16
Il bus di Bernie è un po’ arrugginito e non contiene una sala operativa per gestire le emergenze nucleari, ma la gente lungo la strada lo aspetta e lo applaude. Un esempio per tutti: Olivia Abate, 18 anni, chiare origini italiane, che è venuta apposta dal Kansas con due amiche e la madre, per partecipare al fenomeno Sanders. «Ho 18 anni - dice - e sto per andare al college. L’unico candidato che parla della cose che mi interessano è lui. Voglio andare all’università, senza uscirne in bancarotta, e poi trovare un lavoro decente».
Mancano poche ore al primo voto, i caucus dell’Iowa, e Bernie sente di essere a un passo dalla sorpresa clamorosa. L’ultimo sondaggio del Des Moines register, il giornale locale, dà Hillary al 45% e lui al 42: parità, in pratica. La differenza potrebbero farla gli elettori di Martin O’Malley, che non raggiungendo la quota minima del 15%, dovranno decidere al momento se schierarsi con Sanders o Clinton, determinando il vincitore.
Per cogliere questo attimo, Bernie è salito sul bus ed è andato a fare un giro delle regioni orientali dell’Iowa, quelle più liberal, dove nel 2008 Obama aveva costruito la sua vittoria. Passa prima da Cedar Rapids, per un vero comizio politico, e poi da Iowa City, dove nel palazzetto della University of Iowa lo precede un concerto con i Vampire Weekend e Foster the People. Nomi che magari a noi non dicono molto, ma hanno trascinato in sala oltre 5.000 giovani che cantano e ballano.
Sanders cambia tono e, sentendo le difficoltà di Hillary, la attacca frontalmente per la prima volta: «Sono molto deluso dalla sua campagna. Io ho scelto di puntare su una strategia positiva, proponendo programmi, mentre lei mi aggredisce distorcendo le mie idee. Dice che sono a favore delle armi, quando sono uno dei parlamentari con la peggior valutazione da parte della lobby dei produttore Nra. Dice che sono contro l’aborto, perché mi sono permesso di criticare la scelta di Planned Parenthood di appoggiarla, quando ho sempre difeso il diritto di scelta delle donne. Dice che voglio smantellare la sanità pubblica, quando mi batto da sempre per renderla un diritto gratuito per tutti. È un modo disonesto di fare politica, ma i sondaggi ci stanno premiando: quando avevo cominciato la campagna, lei era avanti a me in Iowa di 50 punti, ora siamo pari». Sulla storia delle mail private usante quando Hillary era segretario di Stato, però, sorvola: «È una questione molto importante, ma non voglio sfruttarla politicamente. C’è un’inchiesta in corso, la commenterò quando conosceremo i risultati». Come dire: un altro motivo per non votarla.
Definire Hillary disonesta è una parola d’ordine per strizzare l’occhio ai giovani, che affollano la sala. Infatti parla solo a loro: «Bianchi e neri fumano marijuana nella stessa maniera». Il pubblico esulta: «Yeeahh!!!». Lui sorride e replica: «Non era esattamente questo il mio punto. Intendevo dire che poi i neri vengono arrestati per possesso di marijuana più dei bianchi, e quindi le loro vite vengono rovinate dai precedenti penali. Io credo che l’erba vada depenalizzata, ma state lontani dall’eroina, che uccide». Poi arriva la promessa di rendere l’università pubblica gratuita per tutti, favorire l’occupazione giovanile e difendere il diritto di scelta sull’aborto. Bernie sale persino sul palco a cantare, perché dai giovani dipenderà il successo della sua rivoluzione: «Ve lo dico francamente: se ci sarà un grande afflusso ai caucus, vinceremo, altrimenti perderemo. Sta a voi. Ma ricordate una cosa: se la politica vi annoia e non andate a votare, lasciate che qualcun altro decida il vostro futuro».

Nei movimenti tutte le strade portano a Bernie Sanders
Primarie Usa. Occupy e Black Lives Matter, la sinistra Usa scende in piazza e ha scelto il proprio candidato per la Casa bianca. La lotta all’«1%» non è più uno slogan per pochi «radical» ma è il vero punto della campagna democratica di Marina Catucci  il manifesto 2.2.16
NEW YORK Un matrimonio scritto in cielo, questo è l’incontro tra Bernie Sanders, il «socialista» in corsa per la Casa Bianca e Occupy Wall Street, il movimento nato nel 2011 sui temi della diseguaglianza sociale ed economica; OWS, che nel 2012 non aveva pubblicamente sostenuto Obama (anche se di certo non ha remato contro), ora sta attivamente collaborando all’ascesa di Sanders, che da parte sua ha abbracciato gli slogan del movimento e non manca di citare «l’1%» in ogni comizio.
Sabato scorso a New York, città natale di Sanders, c’è stato un corteo di qualche migliaio di persone dal percorso a dir poco simbolico: partenza da Union Square (la piazza del sindacato) e arrivo a Zuccotti Park, da dove Occupy aveva cominciato. Nella piazza, che non era così piena da tanto tempo, gli slogan di Occupy e a quelli sostegno di Sanders si mischiano, anche perché sono stati creati dalle stesse persone.
OWS ha mostrato dal primo giorno la propria capacità di comunicazione, tratto distintivo di un movimento che in pochissimo tempo ha acquisito un’identità immediatamente riconoscibile e che ha marcato un prima e un dopo nelle modalità di protesta.
L’hashtag #FeelTheBern, che è diventato lo slogan della campagna di Sanders è opera degli Occupier, e a Des Moines, in Iowa, l’ex quartier generale di Occupy è ora quello di Sanders.
Ma com’è successo che un movimento che è sempre stato slegato dalla politica istituzionale appoggi ora un candidato per la presidenza?
«Occupy resta un movimento leaderless, senza un capo, ma come ogni movimento è per sua stessa natura in costante evoluzione – spiega Marcus, che nel 2011 era parte del primo nucleo di Occupy Wall Street – con Sanders condividiamo l’idea che la disparità economica causata da Wall Street porti un indotto di disparità sociali non più ignorabile, e Sanders non potrebbe essere dove si trova oggi, staccato da Hillary Clinton di soli pochi punti nei sondaggi, se Occupy cinque anni fa non avesse aiutato a focalizzare l’attenzione degli americani sulle idee che sono ora al centro della sua campagna».
Un terreno preparato dal movimento, quindi, quello sul quale sta fiorendo Sanders.
In effetti fino all’occupazione di Zuccotti Park argomenti ora popolari e quasi luoghi comuni erano narrativa per cellule di ultra radicali e non trovavano spazio altrove, mentre ora il concetto che una piccolissima percentuale della popolazione fiorisca a scapito della maggior parte della popolazione è una nozione comune e in pochi credono al modello americano per cui se sei ricco è merito tuo e se sei povero è solo colpa tua, perché tutti hanno pari possibilità.
Gli Stati Uniti sono cambiati.
Il termine «socialista», che solo dieci anni fa era un’offesa pari a fascista, è completamente sdoganato. New York, ad esempio ha un sindaco fieramente socialista, unico altro politico ad aver ricevuto l’appoggio di Occupy durante la sua candidatura.
«Io ho 70 anni – dice Maggie – negli anni ’60 per la prima volta ho pensato che il mondo potesse cambiare radicalmente e ne sono ancora convinta, per questo sono in piazza con Occupy Wall Street ad appoggiare Sanders. Quello che ho capito è che il mondo non si può cambiare in un giorno, in un unico movimento. Cambiare il mondo è un percorso, ora una parte di questa strada la può fare la Casa Bianca. Io ho sempre votato democratico ma nessun presidente può fare la rivoluzione, quella la deve fare il popolo, un presidente, però, può non sopprimerla. Obama non ha mai represso Occupy, sarebbe stato uguale con Romney? Non credo proprio».
Tra le facce note c’è anche quella di uno dei simboli di OWS, Ray Lewis, capitano della polizia di Philadelphia in pensione che indossando la sua vecchia divisa ha sempre sfilato con i movimenti, incluso quello di Black Lives Matter a Ferguson.
Sì, perché le strade si intrecciano, e come molti militanti di OWS sono andati in Missouri per dare lezioni di comunicazione a BLM, così Sanders ha chiesto a Black Lives Matter di istruirlo sulle specifiche istanze della comunità afro-americana.
«Se il movimento è forte – dice il reverendo Osagyefo Sekou, figura nota di BLM – la politica istituzionale non può ignorarlo. Occuparsi di chi è al potere e ci rappresenta è un nostro compito».
«Sanders si occupa di ambiente, ha definito l’attuale minimo sindacale di $ 7,25 un “salario da fame” e ha chiesto che venga raddoppiato a $15 l’ora – dice Ben, 24 anni, neo laureato in agraria — Mentre Clinton stava portando la campagna presidenziale a livello mainstream, Bernie l’ha interrotta per tornare a Washington e fare ostruzionismo a un disegno di legge che senza dirlo ai cittadini accelerava il controverso Trans-Pacific Partnership attraverso il Congresso. Ecco, queste sono alcune ragioni per cui i movimenti sperano che il prossimo presidente sia Bernie Sanders».

La rivoluzione politica dei Millennials
Ecco il mondo che vuole la generazione cresciuta a cavallo del 2000
Sono giovanissimi ma scommettono sui “nonni” nella vita come alle elezioni, perché incarnano ideali, etica e radicalità In Francia puntano su Juppè, negli Usa spingono Sanders, in Gran Bretagna Corbyn
di Anais Ginori Repubblica 2.2.16
Qualche anno fa il manifesto della grande rivolta giovanile è stato “Indignatevi” di Stéphane Hessel, classe 1917
I veri “punk”, ribelli e antagonisti, ha scritto qualche giorno fa il Parisien, hanno tante rughe e capelli bianchi
Molti ragazzi che lavorano da mesi per la campagna elettorale del senatore del Vermont contro Hillary hanno da 17 a 30 anni
PARIGI METTI una sera in discoteca con il nuovo idolo politico dei giovani francesi. L’appuntamento è in un locale di Montmartre, tra ragazzi che bevono birra e scattano selfie. Finalmente arriva il loro candidato, quello che sperano di lanciare fino all’Eliseo nelle presidenziali del 2017. Alain Juppé si toglie subito la giacca, resta in maniche di camicia tra gli applausi. È salito a piedi fino al Sacro Cuore, centoventi scalini, e neppure una goccia di sudore. «Molti lo prendono in giro per la sua età, ma è il più moderno di tutti» esulta Matthieu Ellerbarch, 24 anni, presidente dei comitati giovanili per Juppé alle primarie dei Républicains: oltre duecento gruppi in tutto il paese. L’ex premier ha compiuto 70 anni nell’agosto scorso: se venisse eletto finirebbe il suo mandato a 77 anni. Ma per molti militanti non è un problema. Come non lo è per i ragazzi che sostengono Bernie Sanders, 74 anni, rivale di Hillary Clinton alle primarie americane e che, se vincesse, potrebbe sfiorare gli ottant’anni alla Casa Bianca. «Almeno con Juppé — continua il sostenitore ventenne — sappiamo che ci sarà un solo mandato e si impegnerà davvero nelle riforme senza pensare a come essere rieletto». L’età non ha impedito neppure Jeremy Corbyn, 66 anni, di vincere l’anno scorso la guida del partito laburista, il candidato sovversivo amato dalle nuove generazioni.
Il giovanilismo non fa per i giovani. Anzi, i Millennials, quella generazione nata tra il 1982 e il 2004, sono la categoria sociologica che sembra più vicina, per valori e affinità, ai senior. Non è solo la politica a dirlo. In Francia, libri di autori novantenni come Edgar Morin e Jean d’Ormesson sono amati soprattutto da lettori sotto ai quarant’anni che vengono alle presentazioni a chiedere autografi. E qualche anno fa il manifesto della rivolta giovanile è stato “Indignez-vous!”, Indignatevi, firmato da Stéphane Hessel, classe 1917.
Tutti pazzi per i nonni, visti più dei genitori come punto fermo in un mondo in tempesta, ponte tra vecchio e nuovo secolo. I punti in comune sono tanti. Come la generazione che ha attraversato le guerre, i Millennials sanno che il futuro non è garantito. Devono affrontare crisi sociali ed economiche, la precarietà, il terrorismo, la minaccia del cambiamento climatico. «È una generazione complessa da decifrare perché è cresciuta in un mondo complesso» spiega Alexandra Jubé, responsabile nell’agenzia di tendenze Nelly Rodi. Per i sociologi i Millennials sono ancora un’enigma, spesso in bilico tra gli estremi. Individualisti e tolleranti. Distratti ed esigenti. Lontani dalla politica e impegnati in azioni sociali dal basso. Critici del sistema ma non disposti a fare la rivoluzione. Nel lavoro come nella vita, spesso antepongono il privato al pubblico. Negli Stati Uniti sono già dominanti sul mercato del lavoro: 53,5 milioni, più della generazione X e dei baby boomers. «Cambieranno totalmente i codici di consumo e gli stili di vita» prevede l’analista.
Nella visione politica i Millennials sono in cerca della radicali- tà interpretata meglio dai senior che non da generazioni più vicine, più inclini ai compromessi, cresciute in epoche di benessere e progresso sociale. I nonni sono percepiti come outsider del sistema. I veri “punk”, ribelli e antagonisti, ha scritto qualche giorno fa il Parisien, hanno tante rughe e capelli bianchi. «I Millennials sono favorevoli alla democrazia diretta, rifiutano l’intermediazione racconta Anne Muxel, studiosa del centro di ricerca Cevipof di Sciences Po e autrice di un saggio appena uscito, “Temps et Politique”. Come sul lavoro, in cui i ragazzi non riconoscono più l’autorità assoluta, chiedono un’organizzazione orizzontale e non verticale. Se è vero che molti giovani sono attratti da forze populiste, dal Front National al Movimento 5 Stelle, Muxel osserva una tendenza in aumento per candidati che mettono avanti l’etica, tornando a valori antichi: la tolleranza, l’eguaglianza sociale. La generazione “Me, myself and I”, come cantava Beyoncé, accusata di egoismo, è invece capace di accettare le differenze, senza cedere alla tentazione dell’esclusione. I politologi Vincent Tiberj e Antoine Jardin parlano di una gioventù “pluralista” perché è mobile nelle scelte, ha abbandonato lo scontro ideologico tra destra e sinistra, e non esprime due sentimenti polarizzanti del dibattito: il rigetto dell’immigrazione e la paura dell’Islam. I “pluralisti”, notano gli studiosi, sono maggioranza tra i giovani, oltre il 60%, soprattutto nella fascia più istruita. I Millennials difendono un immaginario politico aperto e cosmopolita simile a quello nonni che hanno saputo accogliere e integrare tante ondate di immigrazione, dal dopoguerra in poi.

Stati Uniti. I volontari che aiutano il candidato dem: “È vecchio ma con lui si cambia”
“L’età non conta” Nelle strade dell’Iowa con i Bernie-Boys di Federico Rampini Repubblica 2.2.16
DES MOINES (IOWA) “Io non guardo all’età di Bernie Sanders ma alle cose che dice e a quello che ha fatto per tutta la sua vita. È uno che non ha mai preso ordini dal capitalismo». Amanda Loutris oggi ha solo 17 anni ma il diciottesimo compleanno arriva prima di novembre: giusto in tempo per votare Bernie Sanders. Di qui a là, investe questi mesi della sua vita come militante volontaria nella campagna elettorale. Lavora per un uomo che ha l’età non di suo padre ma di suo nonno: 74 anni. La trovo indaffaratissima col suo laptop, inserisce dati per gestire il traffico dei volontari, la composizione delle squadre, i turni di lavoro, i volantinaggi porta a porta. È arrivata dall’Illinois, vive in una cittadina a 45 minuti di Chicago. È una delle tante Bernie- girl, le incontro alla sede provvisoria della campagna elettorale di Sanders a Des Moines. Con lei lavora la 21enne Stella Tsantekidou, origine greca, laurea in Inghilterra e già un’esperienza nel Labour di Corbyn. Stella è convinta che Sanders sta «liberando tanti giovani americani dai pregiudizi sulla parola socialismo».
Siamo in un magazzino spartano, preso in affitto in un centro commerciale, al 3420 Martin Luther King Parkway. Amanda e Stella sono due tipiche esponenti della loro generazione: i giovanissimi sono i più entusiasti seguaci di Sanders. All’interno degli elettori democratici, l’anziano senatore del Vermont – che si autodefinisce un socialista – raccoglie addirittura il 63% dei consensi tra gli under 35. Eppure non fà nulla per nascondere il look del nonno. È un po’ duro d’orecchio e ai dibattiti televisivi qualche volta ha dovuto farsi ripetere le domande. Come colonna sonora per scaldare il pubblico prima dei raduni manda in onda la canzone “America” di Simon & Garfunkel: anno 1968. Lui viene da quell’epoca, si è formato con le battaglie pacifiste contro la guerra del Vietnam, il movimento hippy, la contro-cultura degli anni Sessanta, roba su cui la Generazione Millennio ha fatto le tesi di laurea come se fosse storia antica.
Sam Spadino è un altro di questi volontari affluiti nell’Iowa da tutta l’America. Di lontane origini italo-americane, trent’anni, vive a Minneapolis (Minnesota). Anche per lui l’età di nonno Sanders è un valore, un segno più. «È uno che ha mostrato coerenza coi suoi principi per tutta la sua vita – mi spiega – e nel suo caso i capelli bianchi sono un segno di saggezza. Ha vissuto gli anni di Ronald Reagan e gli anni di Bill Clinton, ha appreso le lezioni che andavano apprese, ha capito gli errori da non fare più, sa tante cose che la mia generazione deve ancora imparare. Voglio qualcuno come lui alla guida del paese, per aiutarci a costruire il nostro futuro». Un altro volontario appena trentenne è Aaron Wikler, pure lui arrivato da Minneapolis, quattro ore di autostrada: «Io mi preoccupo per il nostro pianeta, per l’ambiente in cui vivremo. È ora di finirla con la corruzione implicita nella nostra democrazia, il ruolo delle multinazionali nel finanziamento della politica. Sanders è l’unico che ha detto di no ai grandi finanziatori. Wikler non è alla sua prima esperienza politica. Partecipò alla campagna Obama 2012. E prima ancora, al movimento Occupy Wall Street. «Non andai al Zuccotti Park di Manhattan ma dormii alcune notti nell’accampamento di Minneapolis, quella protesta si era diffusa in molte città degli Stati Uniti».
Occupy Wall Street non è morto, dunque? Come metodo di lotta durò solo pochi mesi, tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012. Ma diffuse nel discorso pubblico americano il tema delle diseguaglianze, con immagini efficaci come “un’economia fatta per arricchire l’un per cento”. Per molti della Generazione Millennio fu un battesimo alla politica, l’iniziazione a forme di attivismo. Il fenomeno Sanders affonda le radici in Occupy Wall Street. Quel movimento effimero cercò dei padri (o nonni) storici, degli autori di riferimento, e finì per trovarli nei “classici” della contestazione degli anni Sessanta. Aver vissuto quell’epoca, aver studiato quelle battaglie e meditato su quelle sconfitte, improvvisamente diventa un titolo d’onore, una ragione per essere ascoltati.

Se la lotta di classe spunta negli Stati Uniti
di Massimo Gaggi Corriere 5.2.16
Possibile che la lotta di classe, espressione sparita dal lessico politico italiano, rispunti negli Stati Uniti, da sempre allergici a categorie politiche legate alla cultura marxista? A seguire i dibattiti elettorali che si moltiplicano sulle reti tv si ha la sensazione che l’incredibile stia avvenendo: tra i democratici Hillary Clinton è il peso massimo, ma i temi li impone Bernie Sanders. Il senatore socialdemocratico costringe gli americani a riflettere sugli enormi squilibri del capitalismo Usa, evidenti agli occhi di un europeo, ma che i cittadini degli States non erano abituati a veder sezionati con tanta precisione e insistenza: non solo le disparità estreme nella distribuzione del reddito, ma anche i costi folli dell’istruzione universitaria, l’assenza di tutele assistenziali per l’infanzia, la sanità costosissima e lacunosa che lascia 29 milioni di americani senza copertura.
   La Clinton, anch’essa impegnata sulla sperequazione dei redditi, attacca Sanders sostenendo che il suo è il programma di un sognatore. Ma è costretta a stare sullo stesso terreno, magari fissando obiettivi meno ambiziosi ma più realistici di quelli di Sanders. Che, comunque, mostra di avere un seguito vasto non solo tra i giovani, ma pure tra il ceto medio impoverito dalla globalizzazione, dalla rivoluzione tecnologica, dalla finanziarizzazione dell’economia: che ha pagato il prezzo più alto per il «meltdown» di Wall Street e la Grande Recessione del 2008-2009.
    La cosa curiosa è che qualcosa di simile sta accadendo anche a destra dove Donald Trump raccoglie soprattutto il consenso dei «colletti blu», dei conservatori bianchi meno scolarizzati che hanno perso potere d’acquisto e accumulato un rancore crescente nei confronti degli altri gruppi sociali. I grandi ricchi della finanza, certo, ma anche comunità che un tempo guardavano dall’alto in basso mentre ora sentono il loro fiato sul collo: le minoranze etniche come i neri e la nuova immigrazione ispanica. Trump per loro non è il miliardario che vive nell’oro ma il populista che promette, a modo suo, un allontanamento dall’ortodossia mercatista, dal liberismo del partito repubblicano: stop alla globalizzazione e all’immigrazione come protezione della forza-lavoro Usa.
   Sanders e Trump forse non arriveranno alla «nomination» ma quello che hanno seminato i questi mesi, a cavallo tra giustizia sociale e populismo, potrebbe avere conseguenze ben più durature di Occupy Wall Street, l’onda sociale di quattro anni fa che si trasformò ben presto in risacca. 

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