venerdì 26 febbraio 2016
Negrieri contro la Germania
Risvolto
L'Europa è un continente incagliato e in declino, colpito da una crisi
iniziata nel 2008 e non ancora terminata, con sempre minor peso
economico e influenza internazionale rispetto ad altre aree del mondo
(non solo la Cina).
La situazione attuale non è però frutto della cattiva sorte, ma di
politiche economiche che, ossessionate dalla stabilità, hanno fissato
vincoli insostenibili, da Maastricht in poi. L'Italia è il paese che con
più zelo ha fatto propri questi vincoli, tanto da avere inserito nella
Costituzione un principio come il pareggio di bilancio.
A cosa si deve tutto questo? All'introduzione dell'Euro? No, o comunque
solo in parte. Il fattore chiave è il ruolo della Germania. Il paese
economicamente più forte esercita infatti la sua leadership dividendo,
anziché unendo (come il caso greco ha dimostrato), rafforzando
esclusivamente il proprio sistema produttivo e lavorando per creare
attorno a sé una corona di paesi periferici (tra cui l'Italia) a basso
salario e fortemente indebitati, sulle cui debolezze lucrare dal punto
di vista finanziario e politico. Il frequente richiamo del ministro
Schäuble a un'Europa che dovrebbe ispirarsi al "Sacro Romano Impero
della Nazione Germanica" è eloquente.
Da locomotiva d'Europa, la Germania di Merkel-Schäuble si sta
trasformando in un fattore di freno per il continente. Come il libro
evidenzia, la Germania di oggi utilizza la grande forza costruita nei
periodi precedenti per imporre scelte miopi e fallimentari, che
distruggono la solidarietà tra i paesi, riducono la democrazia e
finiranno per indebolire la stessa Germania.
Massimo D'Angelillo, economista, presidente della società di ricerca e
consulenza Genesis di Bologna, è autore di studi sulla Germania, sulle
politiche economiche e industriali, e sugli scenari di sviluppo in
diversi settori.
La bilancia spettrale del pareggio
SAGGI . «La Germania e la crisi europea», un libro di Massimo D’Angelillo per ombre corte. Il Vecchio continente strangolato da un modello pedagogico e economico fuorviante che produce disparità
Marco Bascetta Manifesto 26.2.2016, 0:08
La Germania è, nel Vecchio continente, soggetto e oggetto di numerosi pregiudizi. I paesi dell’Europa meridionale non godono, presso l’opinione pubblica tedesca, di gran buona fama: la «creatività» che viene loro riconosciuta si accompagna sempre a un certo sentore di truffa. La Bundesrepublik, a sua volta, imputata di una intramontabile e altera «volontà di potenza» è oggetto di una alternanza tra ammirata invidia e istintiva avversione. Un buon antidoto a questi diffusi giudizi sommari possiamo trovarlo in una assai chiara ricostruzione della storia politico-economica tedesca del dopoguerra a firma di Massimo D’Angelillo (La Germania e la crisi europea, ombre corte, pp.222, euro 18). Ricostruzione che mira però a dare risposta a una domanda decisiva: il ruolo che Berlino svolge oggi in Europa favorisce la stabilità, la crescita e l’integrazione dell’Unione o agisce, invece, in senso del tutto contrario? L’autore propende nettamente per la seconda ipotesi. E non è l’unico a rievocare l’inquietante spettro della politica deflazionista e recessiva condotta dal cancelliere Bruening, alla vigilia della presa del potere da parte di Hitler. Qualcosa di più di una vaga suggestione in una Europa attraversata sempre più minacciosamente da pulsioni nazionaliste, autoritarie e xenofobe e che continua ad avere nella Germania il suo centro di gravità.
La storia tedesca dopo la fine della seconda guerra mondiale, quella con capitale Bonn, prima, e quella con capitale Berlino, dopo, è stata una storia di indubbio successo. Dalla ricostruzione sotto il segno della cosiddetta «economia sociale di mercato» al riformismo e alla Ostpolitik degli anni di Willy Brandt, dal Modell Deutschland di Helmut Schmidt alla riunificazione della Germania e all’espansione verso est sotto il lungo cancellierato di Helmut Kohl, dalla dottrina della competitività ad ogni costo di Gerhard Schroeder con la sua «Agenda 2010» alla stabilità opulenta del governo di Angela Merkel, «utilizzatore finale» del corso liberista adottato dalla socialdemocrazia.
Questo successo poggiava su una combinazione, certamente non usuale, tra la forza della moneta (il marco) e il grande volume dell’export, assicurato dalla qualità dei prodotti made in Germany, da alta produttività e stabilità sociale e, naturalmente, dalla crescente domanda di tecnologia sul mercato mondiale. La moneta forte rendeva obbligatoria l’innovazione produttiva. Beninteso questi successi non sono stati a costo zero per i lavoratori tedeschi in termini di disoccupazione, (alla fine del cancellierato di Schmidt) o di restrizione del welfare e diffusione del lavoro sottopagato durante il governo di Schroeder.
Dipendenze reciproche
La Spd ha ricorrentemente prestato la sua opera per preservare le «riforme» liberiste da un’eccessiva conflittualità sociale. Fatto sta che il cosiddetto «keynesismo dell’export» non poteva garantire in permanenza i margini necessari a una equilibrata crescita sociale. Dove l’export la fa da padrone il benessere di molti è sempre a repentaglio.
Nondimeno la «locomotiva» germanica, quando girava a pieno ritmo, aveva comportato visibili vantaggi anche per le economie più deboli del Vecchio continente, soprattutto fino a quando queste avevano potuto sostenere le proprie esportazioni e subforniture con la svalutazione della moneta nazionale e poi con il gioco al ribasso sul costo del lavoro. Il che non ne avrebbe comunque mutato la condizione periferica. L’Europa sarebbe rimasta dipendente dalle scelte di Berlino sia nei momenti di massima forza dell’economia tedesca, sia in quelli di maggiore debolezza. Dipendenza, beninteso, reciproca visto che il 57 per cento delle esportazioni tedesche è assorbito dai paesi europei e il 40 per cento da quelli dell’eurozona. Circostanza che sconsiglierebbe, se ci trovassimo nell’ambito di un pensiero razionale (ma così non è), di strangolare buona parte del continente imponendogli politiche di austerità.
Quanto al valore di modello dell’economia germanica, si tratta di una fantasticheria pedagogica, pari a quella dell’«alunno modello» che esegue a puntino i «compiti a casa», senza fondamento alcuno nella storia reale. Pochi propositi sono campati in aria come l’aspirazione a «fare come la Germania», che si tratti di singoli paesi, o, a maggior ragione, della politica economica europea nel suo insieme. Solo la Germania può «fare come la Germania» per numerose ragioni che hanno radici profonde, le quali affondano nello sviluppo prebellico di quel paese e anche più indietro. L’«austerità competitiva» prescritta alle economie più deboli d’Europa è una pura e semplice baggianata. Competizione significa che il successo degli uni determina l’insuccesso degli altri, che il surplus di una bilancia commerciale corrisponde al deficit di altre. Gli americani non hanno mancato di lamentarsene con Berlino, trovando ben poco ascolto. E il fatto che in determinate fasi di crescita qualche beneficio possa estendersi alla periferia non cambia in nulla la sostanza della cosa. Fatto sta che oggi non ci troviamo con tutta evidenza in una simile fase.
Locomotive e cassaforti
Nonostante la sua vocazione industriale e produttiva anche la Germania è entrata nell’epoca del capitale finanziario. All’immagine della locomotiva si sostituisce quella della cassaforte. L’attenzione rivolta alle banche, ai patrimoni, e ai «risparmiatori» è rapidamente cresciuta in rapporto a quella dedicata ai produttori e agli investimenti. Il nuovo Modell Deutschland ha il volto di Wolfgang Schaeuble e si propone all’insegna dei «conti in ordine». Certamente il vantaggio produttivo acquisito è ancora cospicuo, l’infrastruttura culturale e industriale decisamente solida. Ma l’aria è cambiata. Ed è un’aria mefitica per le economie indebitate dell’Europa meridionale e per lo sviluppo dell’integrazione europea in termini non solo brutalmente contabili. Il ruolo della Germania si è dunque andato configurando come un freno.
Il risvolto politico di questo cambiamento è evidente. La Bundesrepublik resta una delle più solide ed efficienti democrazie d’Europa, ma se non vogliamo spingerci fino a denunciare una rinascita del nazionalismo tedesco, converrà comunque non minimizzare quella ripresa di «egoismo nazionale» che sta alimentando pericolosi slittamenti antieuropei nell’opinione pubblica germanica e uno spostamento a destra degli equilibri politici a Berlino.
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