domenica 28 febbraio 2016

Nominalismo e realismo in Umberto Eco

Risultati immagini per umberto ecoPer la prima volta, nel ricordare Eco qualcuno tocca un argomento interessante. Anche se in maniera superficiale e ponendo questa alternativa fuori da ogni contesto storico (e dunque politico) e in maniera unilaterale. Come se ci fosse un solo nominalismo, quello postmoderno, e soprattutto un solo realismo, quello neoliberale e di regime oggi in voga [SGA].

Mario De Caro Avvenire 21 febbraio 2016



La risonanza dell’Eco 
Il rapporto tra il semiologo piemontese e l'arte del suono. Nella vita del grande scrittore, scomparso la scorsa settimana, la musica ha avuto un ruolo di primo piano. Dall’amicizia con Gianni Coscia alle collaborazioni con Luciano Berio

Guido Michelone Alias Manifesto 27.2.2016, 19:05 
Al funerale di Umberto Eco, nel milanesissimo Castello Sforzesco, una viola da gamba e un flauto traverso, intonano La follia di Arcangelo Corelli, un brano che il romanziere/semiologo amava appunto alla follia, divertendosi in privato a suonarlo alla tromba o al flauto assieme al suo ex compagno di banco del liceo classico di Alessandria. A fare da basso continuo alle linee melodiche del fiato echiano è infatti la fisarmonica di Gianni Coscia, il quale risulta da circa trent’anni un apprezzato originale jazzista, esattamente da quando, nel 1985, un lustro dopo Il nome della rosa, si decide a esordire discograficamente con il 33 giri L’altra fisarmonica, sulla cui copertina, all’interno, «qualcuno» ne scrive un gran bene, individuandone al primo ascolto l’originalità stilistica, alle prese con uno strumento in teoria desueto e nella prassi spesso vituperato negli ambienti provincialotti del «sincopato tricolore» (più dai critici che dai jazzmen). 
Il merito della fama di Coscia è idealmente dovuto allo stesso Eco, come viene spiegato ogni volta che il fisarmonicista si appresta a ricordare il (ri)lancio a livello addirittura internazionale (oggi è sotto contratto nella stessa casa discografica di Keith Jarrett); dunque deciso a proseguire con la musica amata dai tempi dell’hot club alessandrino (il più antico d’Italia, secondo alcuni), grazie a un contesto di bebop intrinsecamente piemontese, dove già nell’immediato dopoguerra viene suonato «il moderno», da Gianni Basso a Oscar Valdambrini, da Dino Piana a Giulio Libano, quale antidoto allo swing autarchico o al mellifluo sanremese. Gianni, registrata la musica, decide di far ascoltare il master a Umberto per avere, come sempre, un giudizio schietto, obiettivo, fraterno; durante l’ascolto dal semiologo nella casa in via Melzi d’Eril, Eco, dall’inizio alla fine del nastro, resta in religioso silenzio, poi si alza di scatto per dirigersi in un’altra stanza, tornando dopo una decina di minuti, per Coscia interminabili: tiene in mano un foglio vergato a mano, dicendo che quelle saranno le «liner notes» per l’album: poche righe in cui individua il senso profondo di un sound destinato ad anticipare il cosiddetto ethno-jazz, attraverso un lavoro che per lo studioso mescola simbolicamente New Orleans al Monferrato, le reminiscenze classiche alle tradizioni popolari, insomma l’alto e il basso della cultura (musicale in questo caso) in perfetta sintonia con la semiosi echiana operata, mediante la parola scritta, lungo un’intera esistenza. 
Le mazurke di Gianni Coscia, in altre parole, valgono quanto i cerebrali sperimentalismi di Luciano Berio per un filosofo, linguista, mediologo, letterato, che, partito dall’estetica di San Tommaso giunge alla fenomenologia di Mike Bongiorno, passando da James Bond a Charlie Brown, mentre, nel mondo delle sette note non si vergogna affatto di esercitarsi al flauto in bagno o di sentire «un buon concerto jazz» nelle cantine bolognesi assieme ai propri studenti, rifuggendo la mondanità di una prima alla Scala nella «sua» Milano. Del resto la Milano musicale di Eco è un’altra Milano, semioticamente metaforizzabile come il triangolo di Charles Pierce, l’amato filosofo americano precursore della moderna semiotica; è anzitutto la città delle osterie sui Navigli, dove ha modo di ammirare, negli anni del boom, un giovane stralunato studente in Medicina che, voce stridula e chitarra battente, intona le proprie ballate arricchendole di un brechtiano cabaret e di un tocco surreale, senza mai scordare di raccontare la metropoli dei barboni, tagliati fuori dal finto progresso economico; il giovane si chiama Enzo Jannacci che presto diverrà la colonna sonora del Sessantotto meneghino (Vengo anch’io no tu) e un folksinger originalissimo in grado di distanziarsi da ogni scuola cantautorale, rivendicando per la forma-canzone quelle aperture di senso che Eco sta osservando nello studio di altri paralleli fenomeni dalla poesia al fumetto, dal cinema alla televisione. 

La seconda Milano musicale strettamente echiana riguarda un luogo topico (mai divenuto tipico, anzi scomparso) che è lo Studio di Fonologia della Rai in corso Sempione, dove, sia pur per breve tempo, va in scena, la neoavanguardia sonora italiana, il pendant del Gruppo 63, concretizzandosi nella musica elettronica della prima ora: una musica che nulla ha a che fare con l’omonima attuale espressione e il relativo uso sconsiderato che dell’aggettivo elettronico viene fatto in ambito musical-giornalistico. Lo Studio, purtroppo smantellato fra il 1983 e il 1987, nasce nel 1955, grazie all’intraprendenza dei geniali Luciano Berio e Bruno Maderna, quale corrispettivo dei laboratori di ricerca musicale di Parigi e Colonia: con nove oscillatori disponibili, i due compositori creano «manualmente», senza le infinite risorse degli odierni computer, dunque lavorando di taglia-e-incolla con forbici, nastri, bobine. La musica concreta o elettronica che ne fuoriesce, soprattutto da parte di Berio, si deve anche alla presenza di Eco nel condividere il desiderio di un’intera generazione, di oltrepassare i limiti della partitura tonale e della trascrizione pentagrammatica, giostrando, post-dodecafonicamente, fra rumore bianco e suoni artificiali prodotti dal lavoro umano connesso alle potenzialità espressive nell’allora rivoluzionaria tecnologia; c’è in tutto questo molto dell’«opera aperta» che il giovane docente e futuro semiologo sta elaborando sotto forma di estetica militante, a metà fra il trattato, il manuale, il programma, il manifesto; ma c’è ancor più un rapporto di stretta amicizia con Berio medesimo — già ampiamente descritto nei vari necrologi — per il fatto che i due collaborano alla stesura di un programma radiofonico che non andrà mai in onda, ma la cui sintesi è alla base di Thema (Omaggio a Joyce) realizzato nel compianto «ufficio» fonologico. 
La terza Milano musicale, che però riguarda indirettamente Eco, ma assai più da vicino Coscia, è quella dei localini come Arethusa o Taverna Messicana, dove il fisarmonicista vive spesso le jam session con ospiti di passaggio, talvolta grandi improvvisatori afroamericani. è segnicamente, il jazz, opera aperta per eccellenza, a ispirare Umberto, per il compagno Gianni, trent’anni dopo, le note di copertina: uniche dentro un’epopea letteraria di otto romanzi e circa quaranta saggi in volume, in cui tuttavia gli scritti sulla musica si contano sulle dita di una mano, nonostante l’ottima conoscenza delle sette note e una miriade di allusioni o riferimenti nella fiction o tra le bustine. 
In tal senso non esiste un pensiero di Eco sulla musica come invece esiste una elaborazione teorica su quasi tutto lo scibile umanistico; è possibile forse azzardare ipotesi sul «musicologo assente»: allo studioso di semiotica interessano fin da subito le narrazioni, così come vengono tramandate in primis dalla pagina scritta: non a caso gli stesso compie il salto dall’altra parte della barricata, trasformando l’erudito saggista — tra Marx, Einstein, Voltaire, Marcuse e Diderot — in accattivante romanziere postmoderno. Ma si può narrare, anche mediante il cinema, il fumetto, l’architettura e le arti visive in genere: il semiologo dedica pagine splendide alla civiltà delle immagini nel tempo e nello spazio. E la musica? È linguaggio astratto per eccellenza, il cui impianto sonoro non rimanda ad altro che a se stesso, dove insomma la «forma del contenuto», per citare il titolo di un suo libro famoso, è il contenuto medesimo. E, lo intuisce per primo già Eduard Hanslick nel 1854 con il volumetto Del bello musicale, un trattato di semiotica del suono ante litteram che, riallacciandosi a sua volta all’estetica formalistica di Herbart e Zimmermann, spiega la musica come un’arte che non ha alcuna possibilità di comunicare sentimenti di carattere psicologistico, considerandola piuttosto un astratto gioco di forme pure dall’oggettiva autoreferenzialità. 
Tuttavia, oltre il citatissimo saggio sulle canzonette, dapprima adoperato come premessa al duro pamphlet Le canzoni della cattiva coscienza di Emilio Jona, poi confluito in Apocalittici e integrati, ci sono due opposti interventi sulla musica che a oltre quarant’anni di distanza uno dall’altro connotano le idee di Eco a proposito del funzionamento del messaggio acustico: in una «bustina» del 26 giugno 2009 non a caso intitolata C’è musica e musica — come s’intitola il geniale programma televisivo dell’amico Berio che nel 1972 incontra i protagonisti della ricerca post-weberniana — partendo dalle lamentele di Kant sull’orecchio esposto a musiche indesiderate, riflette a fondo sull’odierno inquinamento acustico che viene imposto dalla pessima new age diffusa in ristoranti, aeroporti, bar e supermarket. 
Molto prima, in pieno Sessantotto, con La struttura assente, il libro che anticipa il fondamentale Trattato di semiotica generale, lo studioso dedica una paginetta ai codici musicali, in cui si possono riconoscere, elencare, suddividere, programmare tutti i suoni possibili e immaginali nel passato, nel presente e nel futuro; sono cinque le categorie individuate, ossia: le semiotiche formalizzate (le grammatiche musicali, i trattati d’armonia, modi maggiore e minore, eccetera); i sistemi onomatopeici (comuni anche al linguaggio verbale e ai fumetti); i sistemi connotativi (gli archi stridenti nella colonna di un film giallo, la Marsigliese quale inno alla libertà); i sistemi denotativi (lo squillo di una tromba militare per l’alza bandiera); le connotazioni stilistiche (il rock come segno di culture giovanili e l’evolversi degli stili di canto nelle tradizioni popolari). 
La musica per Eco forse resterà per sempre un’opera aperta, fondamentale, per usare sue parole, nel «capire i linguaggi umani, imperfetti e capaci nello stesso tempo di realizzare quella suprema imperfezione che chiamiamo poesia, rappresenta l’unica conclusione di ogni ricerca della perfezione».

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