martedì 9 febbraio 2016
Piero Gobetti arruolato nel neoliberalismo
È discutibile dipingerlo come icona di sinistra In economia auspicava un deciso liberismo Lanciò nomi illustri: Giovanni Ansaldo, Montale, Carlo Levi Giacomo Debenedetti
9 feb 2016 Corriere della Sera Di Marco Gervasoni
Come si preannuncia privo di pepe quest’anno l’anniversario gobettiano. Il 15 febbraio infatti saranno novant’anni dalla morte, avvenuta in una clinica di Neuilly nei pressi di Parigi, del venticinquenne Piero Gobetti. In tempi recenti, questa ricorrenza oppure quella della nascita (avvenuta a Torino il 19 giugno 1901) avevano alimentato polemiche e scontri furibondi, in particolare nel 1996 e nel 2001.
Certo, si era in tempi di berlusconismo imperante, qualsiasi cosa ciò voglia dire, e Gobetti fu da certuni utilizzato come testa d’ariete del «vero» liberalismo contro quello supposto falso del Cavaliere, che utilizzava lo slogan gobettiano della «rivoluzione liberale», e degli intellettuali a lui vicini (all’epoca ve n’erano, e di gran qualità). A loro volta, questi risposero mettendo in dubbio la moneta liberale spacciata da un Gobetti addirittura simpatizzante della rivoluzione bolscevica e dei comunisti italiani. Bei tempi, secondo alcuni, ma irrimediabilmente finiti.
Già l’anniversario del 2006, nonostante gli ultimi bagliori della tenzone tra antiberlusconiani e berlusconiani, non ha dato adito a polemiche. Da allora, più nulla, ma non è detto che sia un male. Collocare il geniale Piero nel suo tempo, non facendo di lui quello che probabilmente non sarebbe mai diventato e non attribuendogli affermazioni che forse non avrebbe mai fatto, ci sembra il modo migliore per ricordarlo. È discutibile, ad esempio, l’averlo trasformato in un’icona della sinistra. Non solo perché all’epoca i termini destra e sinistra erano limitati alla dialettica parlamentare, e neppure a quella. Ma anche perché con il pensiero della sinistra Gobetti aprì polemiche ferocissime. Se essere di sinistra vuol dire prevedere una forma più o meno estesa di intervento dello Stato sul mercato e nell’economia, Gobetti stava da tutt’altra parte. Certe sue frasi, rilette oggi, sarebbero definite un esempio di «liberismo selvaggio». Da qui le sue polemiche durissime contro i socialisti riformisti di Filippo Turati e le cooperative, da qui il suo apprezzamento non tanto per i comunisti quanto per «L’Ordine Nuovo» di Gramsci, che a suo dire svolgeva una funzione liberistica. Un’affermazione che oggi fa sorridere, ma che nel contesto del tempo non era solo una provocazione. Persino il suo immediato antifascismo partiva dalla denuncia del carattere «socialistico» di Mussolini, per quanto in quella fase pure il Duce si definisse liberista.
Che cosa fu però soprattutto Piero? Fu uno straordinario editore e creatore di riviste, un organizzatore di cultura e un grande scopritore di talenti. Uno dei maestri del giornalismo, Giovanni Ansaldo, uno dei più eminenti poeti italiani di tutti i tempi, Eugenio Montale, e poi Carlo Rosselli, Natalino Sapegno, Carlo Levi, Giacomo Debenedetti e molti altri da lui furono lanciati. Lo stesso Gramsci fu immesso nel circuito intellettuale grazie al patronage di Gobetti, così come fu lui a fornire una sorta di cauzione a Curzio Suckert, alias Malaparte.
Fu poi uno straordinario, anche se acerbo, critico del legno storto della storia italiana e delle sue invarianti politiche e sociali: non tanto l’intuizione del fascismo come «autobiografia della nazione», che pure un nocciolo di verità lo possiede, quanto il rapporto tra élite politiche e popolo e il problema della formazione della classe dirigente. I rimedi gobettiani per raddrizzare il bastone erano un po’ confusi, ma l’analisi delle storture non mancavano di efficacia. Una denuncia che ancora oggi si legge con gusto, anche perché, last but not least, Gobetti è stato uno dei più grandi prosatori politici del Novecento italiano.
I sentimenti di un rivoluzionario liberale
9 feb 2016 Corriere della Sera Di Antonio Carioti
Quando morì non aveva ancora compiuto 25 anni, ma l’opera e la vita di
Piero Gobetti restano una miniera a cui si può ancora attingere con
profitto. Lo dimostrano iniziative e pubblicazioni di questi giorni, che
non si limitano a rivisitarne l’impegno politico.
Per esempio sul versante privato troviamo i testi di Piero e della
moglia Ada proposti da Pietro Polito e Pina Impagliazzo nel volume La
forza del nostro amore (Passigli), mentre l’antologia Avanti nella
lotta, amore mio!, curata da Paolo Di Paolo (Feltrinelli), offre un
suggestivo profilo di Gobetti scrittore a tutto tondo, capace di
esercitarsi nei campi più vari: autobiografia, critica letteraria,
artistica e teatrale, annotazioni di viaggio, ritratti di persone.
I temi politici e l’antifascismo sono invece al centro nel volume
Il giornalista arido, a cura di Paolo Bagnoli, in uscita il 15 febbraio
per l’editore Aragno con una rassegna di articoli gobettiani scritti tra
il 1918 e il 1925. Più avanti usciranno L’autobiografia della nazione
(Aras Edizioni) con i testi sul fascismo, un libro su Gobetti e la vita
internazionale per le edizioni Biblion, il volume con il carteggio
gobettiano del 1923 curato per Einaudi da Ersilia Alessandrone Perona,
la quale terrà anche all’Università di Torino il 16 febbraio, con Marco
Revelli, la prima delle otto lezioni organizzate per il novantesimo
della morte dal Centro studi Piero Gobetti. L’8 aprile è in programma a
Parigi un convegno su Gobetti e la libertà, mentre un altro momento di
dibattito dovrebbe riguardare la sua attività di editore.
A tal proposito le Edizioni di Storia e Letteratura proseguono la
ristampa di tutti volumi pubblicati a suo tempo dalle edizioni Piero
Gobetti. A giugno uscirà Paradosso dello spirito russo dello stesso
Gobetti, con una postfazione di Antonello Venturi che riesamina
quell’opera in chiave critica, collocandola nel contesto dell’epoca.
Piero Gobetti 1901-1926 L’eterno coetaneo, forever young
Moriva il 15 febbraio di 90 anni fa il “prodigioso giovinetto”, maestro di più generazioni Tra liberalismo e marxismo, ha insegnato che la rivoluzione deve essere prima di tutto morale
di Maurizio Assalto La Stampa 11.2.16
Quella
mattina di febbraio del 1926 il professor Umberto Cosmo era entrato in
aula, al liceo D’Azeglio di Torino, con l’aria grave e un giornale in
mano. C’era scritto che a Parigi era morto Piero Gobetti, il più
brillante dei suoi allievi di pochi anni prima al Gioberti. Aveva
lasciato una Torino innevata il 6 di quello stesso mese, in fuga dalle
vessazioni fasciste, per poter continuare a scrivere. L’11 si era
ammalato di una brutta bronchite, che si abbatteva su un fisico provato
dalle violenze squadriste e aggravava i suoi problemi cardiaci, il 13
era stato ricoverato in clinica, il 15, verso mezzanotte, si era spento.
Aveva 25 anni.
«Un’impressione che non mi si è più cancellata
dalla memoria», ricorderà Norberto Bobbio. Come non si sarebbe
cancellata dalla memoria dei suoi compagni della seconda A, tra gli
altri Leone Gizburg e Giorgio Agosti (mentre nella sezione B c’erano
Cesare Pavese, Massimo Mila, Vittorio Foa, Giancarlo Pajetta, Leonardo
Pestelli…). Nessuno di loro aveva mai sentito nominare Gobetti, eppure
la notizia della sua morte era stata per tutti come una scossa, la
scintilla di una presa di coscienza civile e politica. Che cos’aveva la
figura di quel «prodigioso giovinetto» (ancora Bobbio) per segnare così a
fondo, e in modo duraturo, una delle generazioni più straordinarie del
’900? Quel giovinetto che avrebbe insegnato ai grandi?
L’eredità
culturale e morale, certamente, l’idea che una rivoluzione, per essere
davvero tale, deve innanzitutto essere una rivoluzione morale. L’etica
calvinista del lavoro, la lezione di rigore, di serietà subalpina. Ma
prima ancora, a livello più epidermico, l’immagine stessa che oggi si
potrebbe definire «pop» - con «i lunghi capelli arruffati dai riflessi
rossi che gli ombreggiavano la fronte», come l’avrebbe tratteggiato
Carlo Levi -, lo spirito inquieto, la modernità (moderno allora come
oggi), la spasmodica apertura verso il nuovo. E il fascino dell’eroe che
muore giovane.
Una vita breve ma intensa, molte vite in una.
Figlio di modesti droghieri, a 17 anni si iscrive all’università e fonda
la sua prima rivista, Energie Nove (che ospita interventi di Croce,
Gentile, Einaudi, Mondolfo, De Ruggiero), a 20 presta il servizio
militare, a 21 appena compiuti si laurea in Giurisprudenza. Subito dopo
fonda La Rivoluzione Liberale, che si propone di formare «una classe
politica che abbia chiara coscienza delle sue tradizioni storiche e
delle esigenze sociali nascenti dalla partecipazione del popolo alla
vita dello Stato». Quindi sposa Ada, la fidanzatina del liceo, e fonda
la sua casa editrice, che ha nel logo il motto, in greco, «Che ho a che
fare io con gli schiavi?» e pubblicherà in tre anni 84 titoli, tra i
quali la prima edizione di Ossi di seppia di Montale. Intanto traduce
dal francese, dal russo, studia Dante e Leopardi, scrive saggi sulla
filosofia gentiliana, si entusiasma per l’occupazione delle fabbriche,
polemizza e si rappacifica con Gramsci, fino a collaborare come critico
teatrale al suo Ordine Nuovo. Viaggia in Belgio, a Londra, a Parigi, si
trasferisce da via XX Settembre 60 a via Fabro 6, dove oggi ha sede il
Centro a lui dedicato, e a 23 anni fonda la sua terza rivista, Il
Baretti, volto alla critica letteraria e artistica. Subisce
perquisizioni, sequestri, percosse, arresti, non si ferma. Alla fine del
’25 nasce il figlio Paolo, che potrà vedere per poco più di un mese.
Una
vita di corsa, a ritmi accelerati, quasi presagisse che il tempo gli
scarseggiava. Magmaticamente attraversata da slanci (la «scoperta» della
classe operaia, l’ammirazione per Lenin e Trockij),
contraddittoriamente tesa tra liberalismo e marxismo, autorappresentata
«aridità» razionalistica e fervori ideali, pulsioni futuriste e
giovanile titanismo. Gobetti forever young, eterno coetaneo. Piacerebbe
anche ai ragazzi di oggi.
Quella giovinezza febbrile bruciata nella passione politica
Tra sdegno e amare profezie, “una lotta continua contro tutto ciò che ci può irrigidire in un passato"
di Giovanni De Luna La Stampa 11.2.16
Quando
è morto, Piero Gobetti aveva 25 anni. Era un giovane prodigioso,
destinato a lasciare un segno nella cultura politica dell’Italia del
’900. Ad aiutarci oggi a penetrare nel segreto di questa giovinezza
miracolosa ci sono anzitutto le lettere che si scrisse con Ada Prospero,
sua moglie.
Nel 1918 Piero e Ada avevano rispettivamente 17 e 16
anni. Abitavano entrambi in un vecchio stabile di via XX Settembre a
Torino. Dal loro carteggio emerge il percorso di formazione di un
adolescente che si costruisce una identità forte, pagando un prezzo
molto alto in termini di solitudine e di energie consumate, bruciando la
sua fiamma vitale in una febbrile giovinezza improvvisamente troncata
dalla morte. «Credo di poter riconoscere», scriveva, «le mie qualità più
innate in una fondamentale aridezza e una inesorabile volontà [...]. Ho
l’anima e l’inquietudine di un barbaro, con la sensibilità di un
cinico; la storia non mi ha dato eredità di sorta; l’ambiente in cui son
vissuto non mi ha offerto comunicazioni, non ha alimentato i miei
problemi; non devo nulla a nessuno. Se ho voluto la storia me la son
dovuto creare io; se ho voluto capire ho dovuto vivere…».
La
propria realizzazione come uomo e come intellettuale fu per Gobetti un
progetto di vita che non prevedeva attimi di rilassamento: una lotta
continua («bisogna alla nostra precisione e maturità imporre la costanza
di un’inquietudine, di un’inappagata ricerca, di una lotta continua
contro tutto ciò che ci può irrigidire in un passato») che finirà solo
quando Piero, estenuato, si lascerà andare per sempre. Questo dato
esistenziale si riflette anche sulla sua biografia intellettuale.
Gobetti politico fu essenzialmente il teorico di una nuova classe
dirigente, attento ai fondamenti etici dei meccanismi di selezione delle
élite, strenuamente impegnato nella battaglia per il rinnovamento di un
ceto politico sfibrato dalla lunga pratica dei compromessi giolittiani e
pronto a capitolare, imbelle, di fronte al fascismo.
Il 13
settembre 1920, durante l’occupazione delle fabbriche che tante speranze
aveva suscitato nel movimento operaio, così egli scriveva a Ada: «La
rivoluzione che oggi si prepara non muterà, non può mutare nulla negli
uomini, che saranno seri solo se si faranno tali nella loro intimità. Il
solo problema che la rivoluzione può risolvere è dare o meglio
preparare in parte una nuova classe dirigente. Si tratta di rinnovare lo
stato, non la nazione [...]. La rivoluzione non si fa in un giorno, o
se si fa è una cosa ridicola».
Bisogna cambiare anzitutto se
stessi per poter cambiare gli altri. Questa è la molla che lo spinge nei
suoi progetti di rivoluzione liberale. La prima «zona libera» da creare
è quella all’interno della propria coscienza. Tradotte in politica,
queste posizioni sfociavano in una dura polemica contro il trasformismo,
l’abitudine ai compromessi e ai «connubi» considerata come una sorta di
tara ereditaria che aveva geneticamente minato lo Stato unitario fin
dalla sua costruzione nel processo risorgimentale.
Durante la sua
brevissima stagione di politico militante, nel movimento raccoltosi
intorno alla salveminiana Unità, il suo impatto con la classe politica
nazionale fu segnato da un impeto di sdegnato disprezzo. «27 settembre
1919. Visita a Montecitorio. M’è apparso di assistere alla catastrofe.
Che questi deputati fossero mascalzoni, farabutti, cretini, cinici,
piccoli, lo sapevamo. Sino al punto cui sono arrivati oggi, no [...].
Dopo otto ore di buffonate e di vigliaccherie basse, schifose, si è
giunti, in un Parlamento che dovrebbe rappresentare l’Italia, noi,
capisci, in un’accolta di dirigenti, di élites, si è giunti a una rissa
volgare a base di calci, pugni, sputi... Ci sono 90 probabilità almeno
su 100 che si abbia il disastro. La rissa alla Camera prelude alle
fucilate nel paese».
È troppo facile cogliere il carattere
profetico di queste affermazioni. Ma non bisogna indulgere a una comoda
attualizzazione delle sue parole. La sua intransigenza morale, la sua
implacabile «aridità», la sollecitazione permanente a scegliere la parte
con cui schierarsi, il rifiuto della mediazione e del compromesso
sembrano appartenere in esclusiva ai tempi del «ferro e del fuoco» di
quella lontana esperienza giovanile, impossibili da riciclare
all’interno di una normalità politica che alle identità forti ha
rinunciato per sempre.
Uno “spazio nuovo” per l’opposizione
di Ersilia Alessandrone Perona La Stampa 11.2.16
C’è
una dimensione poco esplorata dell’azione politica di Gobetti, che
risulta ora con grande evidenza dal suo carteggio del 1923: la
costruzione di un pubblico consenziente e collaborativo, diffuso sul
piano nazionale. Ciò accadde all’indomani dell’avvento del fascismo,
quando Gobetti cominciò a pensare a «una casa editrice in grande»,
disposto anche a trasferirsi a Gorizia, dove sembravano esserci le
condizioni favorevoli.
La Rivoluzione Liberale, infatti, sarebbe
rimasta un luogo per iniziati se, oltre a pubblicare gli «articoli
incendiari» di Gobetti contro il fascismo, non avesse chiamato a
raccolta gli intellettuali pronti a schierarsi, offrendo loro non solo
le proprie pagine ma anche una casa editrice. Fondata nel marzo 1923 dal
ventiduenne Gobetti appena uscito dal carcere, senza capitali, tranne
l’aiuto dei lettori e un prestito di Riccardo Gualino poi restituito, la
Piero Gobetti Editore ebbe l’adesione immediata e non scontata di firme
ben note e di autori esordienti, scrittori di politica e letterati.
Lo
«spazio nuovo» creato da Gobetti si aprì subito non solo
all’opposizione politica, ma anche all’innovazione teatrale e
letteraria: egli intendeva dare voce alla nuova generazione, che si
applicasse «all’economia come se al romanzo o alla politica». Altri
avevano pensato di creare uno spazio analogo, e subito rinunciato:
Salvatorelli, per esempio, che non a caso fu il primo a aderire
all’impresa di Gobetti pubblicando un’opera fondamentale come
Nazionalfascismo. Due anni dopo Guido Dorso analizzò la tecnica di
Gobetti come un modello.
Tale azione non sfuggì alla polizia. E
già dal 1923, «grazie» anche alle persecuzioni fasciste, Gobetti diventò
un personaggio pubblico. Ma la sua strategia si avvalse pure di altri
strumenti, come lo straordinario lavoro di giornalista impegnato
contemporaneamente in quotidiani e riviste nazionali di vario indirizzo,
dal Popolo di Roma all’Ora di Palermo, dal Lavoro di Genova alla
protestante Conscientia. Compresa l’esperienza di direttore letterario
di Scene e Retroscene, pensata come «rivista organica di battaglia».
Gli
corrisposero da varie parti d’Italia persone di valore, di cui è
istruttivo conoscere i successivi percorsi politici, culturali e
biografici: molti di loro conobbero l’esilio, la Resistenza e in alcuni
casi la deportazione.
Da Lutero al Lingotto la civiltà del lavoro
Piero Gobetti
Mentre la nostra guida spiega i congegni ed enuncia cifre épatantes, io guardo gli uomini. Hanno tutti un atteggiamento di dominio, una sicurezza senza pose; e pare che in noi vedano dei dilettanti ridicoli da considerare con disprezzo. Hanno la dignità del lavoro, l’abitudine al sacrificio e alla fatica. Silenzio, precisione, presenza continua; una psicologia nuova si tempra a questo ritmo di vita: il senso di tolleranza e di interdipendenza ne costituisce il fondo severo; mentre la sofferenza contenuta alimenta con l’esasperazione le virtù della lotta e l’istinto della difesa politica. Quando Mussolini venne a cercare il loro applauso, questi operai dovettero guardarlo con il muto disprezzo che leggo adesso nei loro occhi. Essi sanno far rispettare le distanze.
I dilettanti, i dinamici, traggono un sospiro di sollievo quando si giunge all’ultimo piano dello stabilimento: sulla pista. Peccato che ci sia ancora la nebbia fitta! Non si può godere il panorama, gustare la poesia delle Alpi nevose! La nostra guida ci ricorda la gioia di Mussolini quando fu quassù, nella palestra di Nazzaro e di Bordino, lontano dagli operai diffidenti e noiosi. Ricorda il giro fatto dal re del Belgio a 140 km, dalla regina a 137. Siamo all’aria aperta; regno della velocità, spettacoli, feste. La vita è dei dinamici, dei più veloci. Le fantasie meridionali sono soddisfatte. Marinetti dirà il canto dei motori: parole in libertà ed entusiasmi consolanti.
Sotto si prepara la morale del lavoro, la civiltà dei produttori.
Lo spirito del protestantismo
È chiaro che tutte le rivoluzioni protestanti in Europa provarono la loro vitalità nella creazione di nuovi tipi morali; senza la rivoluzione morale il libero esame sarebbe letteratura.
Lutero e Calvino sono gli antesignani della morale del lavoro postulata dalle nascenti democrazie produttrici. Essi bandiscono ai popoli anglosassoni la religione dell’autonomia e del sacrificio, dell’iniziativa e del risparmio. Il capitalismo nasce da questa rivoluzione individualistica delle coscienze educate alla responsabilità personale, al gusto per la proprietà, al calore della dignità. In questo senso lo spirito delle democrazie protestanti è identico con la morale liberistica del capitalismo e con la passione libertaria delle masse. […]
Il pauperismo italiano s’accompagna con la miseria delle coscienze: chi non sente di compiere una funzione produttiva nella civiltà contemporanea non avrà fiducia in se stesso né culto religioso della propria dignità. Ecco in qual senso il problema politico italiano, tra gli opportunisti e la caccia sfrontata agli impieghi e l’abdicazione di fronte alle classi dominanti, è un problema morale.
Il romanzo mancato inseguendo il capolavoro
Paolo Di Paolo
Esiste un altro Gobetti, che storiografia e critica letteraria hanno sempre trascurato. Di più: non lo hanno mai davvero messo a fuoco. È il Gobetti scrittore - e non lo scrittore politico. Proprio quando scavalca i confini della prosa - sentenziosa e però crepitante - del liberale rivoluzionario, dell’oppositore di Mussolini e del fascismo, dell’organizzatore e del teorico, la voce di Gobetti rivela un’altra e diversa grana. È quella, per esempio, dei testi autobiografici, che Franco Antonicelli raccolse in volume nel ’66 e che si riflette nell’epistolario, dei progetti in veste di letterato puro o di drammaturgo. Frenati tuttavia da un eccesso di consapevolezza: non scrivo un romanzo, confessa, perché vorrei che fosse subito un capolavoro.
«In genere prevaleva in me il senso dell’avventura umana»: radiografo di stati d’animo, quando si tratta di contribuire alla critica di sé stesso, con uno stile nervoso, spezzato, lirico. Impareggiabile ritrattista quando cerca negli altri qualcosa di sé: nell’energia «eccessiva» di Giacomo Matteotti, nel suo non essere capito, nel suo destino; in Rosa Luxemburg, in quella «esuberanza di giovinetta». L’ironia, che rende corrosiva la pagina politica, sfuma e lascia spazio a tonalità differenti: ne risulta una rara capacità di descrivere i paesaggi interiori.
Quando si dedica a uno degli amati russi - Gogol’ - ne rileva con trasporto il «bisogno di ideale» che «non gli lasciò pace, lo trascinò quarantaquattrenne alla tomba. Invece la sua fantasia ne fu tutta presa, convinta, redenta». Se si occupa di Casorati, lo sfida proprio sul suo stesso campo di pittore - e ce lo mostra «curioso, con le dispersioni caratteristiche del naturalmente ricco», immerso sempre nel «viaggio di un provinciale che si stupisce». Quando incontra Eleonora Duse, ne resta quasi abbacinato: «giovane di una giovanezza meravigliosa le è rimasta la voce e lo spirito ardente».
Ma le sorprese maggiori vengono da lampi di scrittura di viaggio - un soggiorno londinese, passando dai sobborghi con uno spirito di meditazione dickensiana - e da abbozzi di saggi sulla pittura. Proprio perché rimasta in forma di appunto, la prosa acquista una sua speciale e ritmata musica - poesia travestita da aforisma. Una delle ultime cose a cui ha lavorato è un ritratto del pittore inglese settecentesco Thomas Gainsborough: è il piccolo romanzo di una vita, stretto in tre pagine, una biografia in miniatura dentro cui, ancora una volta, Gobetti specchia qualcosa di sé. «Seppe trovare la sua strada magicamente, nonostante la notte».
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
1 commento:
Anche Gaetano Salvemini era un liberista, o anti-protezionista. Questo articolo è una mastodontica cavolata priva di ogni minimo buon senso di determinazione storica, ovvero solito esempio di quello che fanno i revisionisti storici italiani, da sempre collaboratori del Corriere della Sera.
Posta un commento