martedì 9 febbraio 2016
Alessandro Manzoni arruolato nel neoliberalismo
Cari economisti studiate iPromessi sposi
Il romanzo riletto da Luigi Einaudi. Che si soffermava in particolare sulle pagine dedicate ai tumulti per il pane e sulle soluzioni suggerite da Manzoni per contrastare la carestia e abbassare i prezzi
Alberto Mingardi Stampa 9 1 2016
L’Italia non è Paese che brilli per la cultura economica diffusa. Eppure al liceo siamo obbligati a leggere «uno dei migliori trattati di economia politica che siano mai stati scritti». Questo pensava Luigi Einaudi dei Promessi sposi. L’opera di Manzoni festeggia i 189 anni. Fa parte della nostra tappezzeria intellettuale: quante fosse abbiamo riempito col senno di poi. Parliamo ancora l’italiano di Manzoni. È inevitabile, in un Paese pieno di azzeccagarbugli, che si divide in bande «per poter odiare ed esser odiati senza conoscersi», e dove, nei posti di potere soprattutto, chi il coraggio non ce l’ha fatica a darselo.
Per quanto i Promessi sposi abbiano avuto tutte le fortune del classico, dall’adattamento teatrale alla versione con Paperino, a leggerli come un trattato d’economia politica sono stati Einaudi e una manciata di studiosi. Il gran cuneese pensa soprattutto alle prime pagine del capitolo dodicesimo, che al liceo si sfogliano velocemente («ho l’impressione che sia saltato di piè pari dagli scolari»). Quelle dedicate al tumulto di San Martino sono «pagine stupende sui pregiudizi popolari intorno alla scarsità ed alla abbondanza del frumento e della farina, agli incettatori e ai fornai». Einaudi le cita più d’una volta, sia in saggi di tenore scientifico, sia nei suoi articoli di giornale. In parte, ciò avviene proprio per la grande passione divulgativa di Luigi Einaudi: ma non gli serviva soltanto una storia da usare a mo’ di parabola.
La ricerca dell’untore
Manzoni era un cultore della scienza economica, se n’era appassionato. Da ragazzo, a Parigi, aveva frequentato gli Ideologi: il cui principale esponente era Destutt de Tracy, autore di un trattato d’economia politica che Thomas Jefferson volle tradurre in inglese e amatissimo da Francesco Ferrara, vero padre dell’economia in Italia.
Cosa c’è di tanto importante, nel dodicesimo capitolo dei Promessi sposi, da metterlo idealmente fianco a fianco con La
ricchezza delle nazioni di Adam Smith? Manzoni descrive l’atteggiamento dei milanesi innanzi alla penuria del pane a Milano e spiega come faccia a nascere «un’opinione ne’ molti, che non ne sia cagione la scarsezza». Comprendere i fenomeni sociali è sempre difficile: le cause sono remote, difficilmente riconducibili a singoli eventi, e men che meno a singole persone. Eppure, anche per il pane che manca, scatta lo stesso meccanismo psicologico entrato in gioco per la peste. Si cerca l’untore.
I danni del calmiere
«Si suppone tutt’a un tratto che ci sia grano abbastanza, e che il male venga dal non vendersene abbastanza per il consumo: supposizioni che non stanno né in cielo, né in terra; ma che lusingano a un tempo la collera e la speranza». La folla chiede a gran voce provvedimenti, pronta a tutto fuorché ad accettare un rincaro che, spiega Manzoni, sarebbe «doloroso ma salutevole». La soluzione alla crisi, scrive altrove nel romanzo, sarebbe proprio un’importazione sufficiente di granaglie estere, ostacolata dalle «leggi stesse tendenti a produrre e mantenere il prezzo basso». Il calmiere abbassa il prezzo del pane oggi, per garantirci che non se ne sforni domani.
Non è un caso se Einaudi rammenta la lezione del Manzoni nel 1919 («La lotta contro il caro viveri») e poi in articoli successivi, alla fine degli Anni Trenta, quando si va dispiegando la piena «fascistizzazione» dell’economia. Momenti straordinari portano a invocare sforzi straordinari. Peccato che «tutti i provvedimenti di questo mondo, per quanto siano gagliardi, non hanno virtù di diminuire il bisogno del cibo, né di far venire derrate fuor di stagione».
Fissare i prezzi frena la «speculazione». Se può apparirci poco commendevole che chi ha acquistato grano in tempi di vacche grasse lo rivenda a caro prezzo durante una carestia, così facendo egli svolge una funzione doppiamente utile. Da una parte, è meglio aver pane a caro prezzo che non averne. Dall’altra, cercando di praticare il prezzo più alto che può, attrarrà altri (per esempio: importatori di grani), la cui presenza ha l’effetto di abbassarlo di nuovo, il prezzo. In tal modo, ricorda Einaudi, «i prezzi, senza calmieri, senza processi, senza comizi, senza adunanze in prefettura (…) capitomboleranno e la vita tornerà a buon mercato».
Grazie agli speculatori
Lo speculatore cerca di traguardare il futuro, fa profitto in misura delle sue diottrie: ma, così facendo, aiuta anche noi a vederci meglio.
Non si pensi che Manzoni, e Einaudi con lui, biasimassero l’ignoranza economica del popolino che, tutto preso dalle sue vicende, la mano invisibile proprio non riesce a immaginarla. Sono i potenti quelli che più s’illudono circa il proprio potere. Il guaio del cancelliere Antonio Ferrer non sta nell’aver capito che «l’essere il pane a un prezzo giusto è per sé una cosa molto desiderabile» ma nell’aver pensato «che un suo ordine potesse bastare a produrla».
«Ministri, direttori generali, commissari, prefetti», ingiunge Einaudi, dovrebbero comprare una copia dei Promessi sposi e tenerla sul comodino. Così dovrebbero fare i parlamentari che, in questi giorni, votano su una legge «della concorrenza». Meglio sarebbe leggessero, magari sotto il titolo di «Elementi di politica» (capitolo sulla peste e sugli untori) «e di economia» (capitolo sulla carestia), Manzoni, «invece dei male avventurati elementi di scienza economica che si propinano oggi da insegnanti svogliati a scolari disattenti». Esortazione finita in nulla. Sarà che con le idee i potenti si regolano come Donna Prassede, «che ne aveva poche ma a quelle poche era molto affezionata» e alle «storte» in particolare.
Il Manzoni economista non tradisce mai il Manzoni romanziere. E a ben vedere i Promessi sposi, dalla prima all’ultima pagina, sono un antidoto formidabile alla mania dei complotti, all’idea che non ci sia sventura che non abbia un colpevole con nome e cognome, e alla simmetrica ambizione di risolvere ogni male «facendo una legge» («dove va a ficcarsi il diritto!»). Come se una cosa tanto complicata quale la realtà sociale, esito delle interazioni di milioni di individui, fosse un pezzo di pongo nelle mani di chi ci governa.
Al Manzoni non sarebbe spiaciuta la morale che dal suo capolavoro trasse Luigi Einaudi, ma ahinoi non le migliaia di professori di liceo che l’hanno insegnato. I politici «si decidano a levarsi fuori dei piedi per quanto si riferisce al commercio privato. Faccia il governo il suo mestiere ed i cittadini faranno il loro».
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1 commento:
Di Mingardi, che sappiamo chi è, non ci si può stupire.
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