sabato 6 febbraio 2016

Pubblicare in inglese a pagamento per fottere l'Anvur e simulare la mitica "eccellenza": compromessi accademici viziosi

La saggistica italiana? Ora parla inglese 

Per tornare al centro del dibattito scientifico i nostri editori iniziano a scegliere direttamente la lingua di Shakespeare
SIMONETTA FIORI Repubblica 6 1 2016
L’autore è italiano, come italiano è il marchio editoriale. Ma il titolo e il testo sono inglesi. L’idea è venuta alla Viella, una piccola casa editrice dotata di un catalogo prestigioso: pubblicare saggi di storici italiani non nella lingua originaria ma nella traduzione inglese, destinati dunque al mercato internazionale. È una novità nell’ambito della nostra editoria, dove già esistono libri scritti nella lingua più parlata del pianeta – soprattutto album illustrati d’arte e guide di viaggio – ma non saggi pensati e scritti in italiano e poi proposti nella lingua di Shakespeare. Una collana o più collane anglofone per dare visibilità a ricerche storiche, idee e pensieri che altrimenti rischiano di morire dentro i confini del mercato nazionale.
Gli invisibili. Accade sempre più spesso nella scena culturale planetaria. Ricerche fondamentali su papi medievali e principi rinascimentali, sull’età comunale o sull’Italia delle signorie, condannate a restare nel cono d’ombra per mancanza di lettori italofoni. Se ancora qualche decennio fa, l’italiano poteva vantare il suo status di antica lingua di civilizzazione, oggi il suo prestigio ha perso molti punti e si prevede che scenda al quarantesimo posto nella classifica mondiale dei prossimi decenni (dati riportati da Lingua Madre. Italiano e inglese nel mondo globale di Gianluigi Beccaria e Andrea Graziosi, Il Mulino). Così se Isaiah Berlin aveva l’abitudine di chiacchierare in italiano con il suo vicino di casa Denis Mack Smith, oggi è più difficile immaginare in un giardino di Oxford due accademici di mezza età che fanno esercizio nella nostra lingua.
La perdita di primato investe tutte le grandi lingue europee – francese, tedesco e spagnolo – e per alcune il tracollo è ancora più drammatico. Con alcune conseguenze già visibili nei campus americani. «Il personale delle grandi library americane era un tempo perfettamente bilingue – la lingua madre e almeno una seconda lingua europea», racconta Barbara Casalini, la più importante esportatrice dei titoli italiani nelle principali biblioteche del mondo. «Oggi non è più così. Ed è anche questo uno dei motivi per cui la nostra editoria rischia di perdere il suo peso specifico nella circolazione culturale delle grandi università statunitensi». E allora si possono anche scrivere pagine importanti sull’arte di Giotto o sul nostro Rinascimento – temi che Oltreoceano continuano a esercitare grande fascino – ma senza la mediazione di un publisher anglosassone è davvero difficile essere letti da un pubblico internazionale colto. «Da qui l’idea di mettersi a tradurre libri di storia in inglese», spiega Cecilia Palombelli, editrice di Viella. «Cominciamo con un paio di collane, dedicando una particolare cura alla veste grafica. Per risparmiare sui costi ci affidiamo a una tipografia polacca. E alla distribuzione provvede Amazon».
Anche al Mulino hanno allestito un nuovo cantiere, sia per la manualistica accademica sia per le grandi monografie. «Noi già pubblichiamo in inglese», dice il direttore editoriale Andrea Angiolini, «ma stiamo prendendo in considerazione di tradurre i manuali italiani per i corsi universitari in inglese, ormai frequentissimi nelle nostre città: la spinta in questa direzione è molto forte ». Senza contare il desiderio di molti studiosi di stare sulla scena internazionale, ambizione coltivata dall’inglese Palgrave, particolarmente attenta alle nostre pubblicazioni. Un business colto, si potrebbe sintetizzare.
Ma quanto costa pubblicare in inglese? Una cartella di traduzione non costa meno di venti/venticinque euro, che moltiplicate per duecento pagine arriva alla cifra di 4.000/5.000 euro. «E i fondi pubblici per le traduzioni – ossia gli aiuti erogati dallo Stato italiano alle case editrici straniere che siano interessate ai nostri libri – non superano complessivamente quota 180.000 euro», ci dice Fabio Del Giudice, il responsabile dell’Aie di Roma. E qui siamo al primo paradosso: l’Italia è il paese europeo con meno lettori potenziali (60 milioni di residenti più alcuni milioni all’estero) al confronto del mercato francofono (70-110 milioni di lettori di madrelingua), dell’ispanofono (329-400 milioni), germanofono (101 milioni), russo (175 milioni), per non parlare del mercato anglosassone con 309-400 milioni di parlanti in inglese. Quindi siamo il paese che ha più bisogno di essere aiutato nello sforzo di internazionalizzazione. Eppure lo Stato italiano – sotto la voce traduzioni – è tra i meno generosi. Basti pensare che la cifra erogata dal Centre National du Livre si aggira intorno ai 600 mila euro all’anno, con una media di 2.000 di contributo per opera (la nostra media, nel 2015, è stata di 750 euro a titolo).
A rendere ancora più paradossale la nostra eccezionalità è la condizione imposta dal ministero degli Esteri, ossia l’istituto che eroga i finanziamenti: le aree geografiche privilegiate, quelle che più beneficiano in percentuale dei fondi per tradurre i nostri libri, sono scelte in base a criteri geopolitici, ad esempio nel 2014 sono stati Nord Africa e Balcani Occidentali, Turchia e Iran. Un principio comprensibile sul piano della strategie di politica estera, ma che poco si concilia con la necessità di far circolare la cultura italiana nel sopramondo anglofono.
Nella corsa a ostacoli ci imbattiamo in un’ulteriore bizzarria, un grande progetto che mette insieme la commissione europea e il ministero dei Beni Culturali. L’ultimo bando di “Europa creativa” 2015 prevedeva finanziamenti per la traduzione di «opere narrative di alto valore letterario, romanzi, racconti, opere teatrali, poesie e fumetti e letteratura per l’infanzia», ma è rigorosamente esclusa la saggistica. E in questo non sarà diverso il bando del 2016. In altri termini è tagliata fuori proprio la produzione editoriale dedicata alla ricerca e alla cultura intellettuale. «Un’esclusione incomprensibile», la definisce Giuseppe Laterza, il più europeo tra i nostri editori. Fu lui a inventarsi le coedizioni italofrancesi con i grandi delle Annales, seguite dalla celebre collana “Fare l’Europa” diretta da Le Goff in partnership con quattro editori del vecchio continente. «Non abbiamo mai beneficiato di fondi pubblici, né per quelle collane né per Eutopia, la rivista web realizzata con Galaxia Gutenberg, Fischer e Seuil. Anche dalla commissione europea non è arrivato un soldo, come se non ci fosse un vero interesse a creare un’identità condivisa». In quest’orizzonte grigio una luce arriva dalla Seps, una organizzazione non profit che sotto la direzione di Fabio Roversi Monaco e la supervisione di Tullio Gregory elargisce oltre 200.000 euro per le traduzioni della saggistica. E la Regione Lazio ha annunciato 40.000 euro per l’internazionalizzazione degli editori locali. Ma si tratta di rare isole felici. Eppure nelle grandi fiere i titoli italiani continuano ad attirare investitori. Dal 2001 al 2015 la vendita dei diritti all’estero è cresciuta del 224,6%, con un ruolo di primo piano della saggistica (soprattutto nella media e piccola editoria che è quella che più osa sulla ricerca: una fetta del 37,2 % nella torta dei libri venduti all’estero). Tra le star dell’ultima Buchmesse di Francoforte – ci racconta Laterza – figurano gli storici Emilio Gentile, Alessandro Barbero e Massimo Montanari, corteggiati dai più prestigiosi marchi francesi. Un passo in avanti è ora la storia italiana che parla direttamente in inglese. «Cominciamo con pochi titoli per ciascuna collana», dice Palombelli di Viella. «Poi si vedrà. Almeno possiamo dire di averci provato».
Se Isaiah Berlin aveva l’abitudine di chiacchierare nell’idioma di Dante con Denis Mack Smith oggi è difficile immaginare la stessa scena a Oxford Lo Stato è poco generoso nel finanziare le traduzioni E la fiction risulta più avvantaggiata dei testi di ricerca e delle biografie

1 commento:

Marco B ha detto...

Un dubbio maligno: ma se negli Usa non imparano più una seconda lingua non sarà perché sono alle soglie di una riprovincializzazione che l'immigrazione dall'Europa, causa guerre mondiali, aveva per decenni impedito?
Non sarà poi che gente come Berlin magari si imparava le lingue per interessi che andavano oltre alla diffusione delle proprie pubblicazioni?