giovedì 4 febbraio 2016

La collezione Torlonia. Settis sulla controriforma dei Beni culturali e la replica ministeriale

Firmato l’accordo tra lo Stato e i Torlonia La grande collezione sarà in mostra in Italia e all’estero, ma l’incognita è la sede definitivaFRANCESCO ERBANI Restampa 16 3 2016
L’accordo fra il ministero dei Beni culturali e la Fondazione Torlonia è nero su bianco. La più grande collezione di arte antica di proprietà privata sarà finalmente visibile, come a suo tempo anticipato da Repubblica.
Da 60 a 90 delle 620 fra statue, busti e bassorilievi chiusi in tre stanzoni di un palazzo in via della Lungara a Roma, verranno esposti in una mostra allestita nella seconda metà del 2017 probabilmente a Palazzo Caffarelli, a due passi dal Campidoglio. La mostra sarà curata da Salvatore Settis, coadiuvato da un comitato di cui farà parte Carlo Gasparri, l’archeologo che meglio conosce la storia secolare della collezione. Dopo Roma, la mostra andrà in un’altra capitale europea, forse a Londra, al British Museum, poi negli Stati Uniti, al Getty di Los Angeles e quindi l’accordo prevede una collocazione stabile. Dove e in che tempi, però, è tutto da vedere ed è stato evidente, ieri durante l’incontro che ha preceduto la firma, che le trattative proseguiranno e non saranno semplici.
D’altronde si arriva all’accordo dopo anni di tentativi subito interrotti di avviare un dialogo fra lo Stato e la famiglia Torlonia che consentisse di godere di un patrimonio dalla qualità inestimabile. Anni di diffidenze dopo la decisione, presa dal principe Alessandro Torlonia sul finire degli anni Settanta, di trasformare in appartamenti i locali che ospitavano la collezione nel suo palazzo di via della Lungara. Le statue finirono ammucchiate in tre cameroni al piano terra, inaccessibili a tutti. Seguirono sequestri, processi e sentenze.
I nuovi segnali di riavvicinamento risalgono all’estate scorsa, una volta messo diplomaticamente in parentesi il passato giudiziario. Artefici il nipote del principe Torlonia, Alessandro Poma, e il direttore generale delle antichità, Gino Famiglietti. Quindi è intervenuto il ministro Franceschini, che ha incontrato l’anziano principe.
La conclusione della vicenda attende passaggi importanti. L’organizzazione delle mostre ha preso il via. Ieri Settis e Gasparri hanno fornito assaggi sul formarsi della collezione, sulle acquisizioni e poi sul valore delle statue, sui restauri e le integrazioni subite nei secoli. Settis però non si è sbilanciato sul tipo di mostra, sul filo scientifico e narrativo che legherà i pezzi scelti.
Ma sulla collocazione definitiva è il ministero, più dei Torlonia, a mettere l’accento. Tutti parlano di un prestigioso edificio pubblico. Che però non è stato individuato (si è ipotizzato Palazzo Valentini). Diverse questioni sono da risolvere. Sarà disponibile l’archivio della famiglia Torlonia per ricostruire aspetti importanti della collezione? E inoltre: entro pochi giorni sarà designato il direttore generale che al ministero terrà insieme belle arti, paesaggio e antichità per effetto della riforma Franceschini. Non è secondario, per il buon esito della trattativa con i Torlonia, capire chi siederà sulla poltrona che erediterà il lavoro di Famiglietti.


Sarà un museo la collezione segreta dei Torlonia 
Pace fatta tra lo Stato e i proprietari: la più importante raccolta di scultura antica del mondo sarà prima in mostra e poi avrà una sede a Roma
CARLO ALBERTO BUCCI E FRANCESCO ERBANI Repuvvlica 5 1 2016
Una mostra subito, di alto valore scientifico. E un nuovo museo nel centro di Roma, in tempi non troppo lunghi. Certo più brevi dei quarant’anni passati dalla chiusura della Collezione Torlonia in via della Lungara. Dopo sei mesi di trattative, incontri intensi, a tratti difficili, rispunta la luce sulle 620 statue della più pregiata raccolta d’arte antica al mondo in mano a privati. Il ministero per i Beni culturali da una parte, i Torlonia, dall’altra, hanno raggiunto l’accordo per rendere progressivamente visibile questo prodigioso patrimonio che dal 1976 giace in tre stanzoni al piano terra di uno dei palazzi di famiglia,
accanto all’Accademia dei Lincei, ammassato su scaffali e illuminato da qualche pallida lampadina.
Mancano alcuni dettagli, mancano le firme, attese entro poche settimane. Ma si avvia a conclusione una burrascosa e paradossale vicenda. Il percorso, in varie tappe, è tracciato. La prima tappa è una mostra allestita in una sede ancora da definire nel 2017 – si è pensato alle Terme di Diocleziano, ma l’ipotesi sembra venuta meno, e perde quota anche il Museo Nazionale Romano, a Palazzo Massimo. La seconda tappa prevede che gran parte delle statue, dopo la mostra, vengano ospitate stabilmente in un edificio nel cuore della Capitale. Forse Palazzo Valentini. Comunque un edificio di proprietà pubblica, di spiccato prestigio, per custodire opere che rimarranno di proprietà privata. Il nome possibile? Uno, antico e nuovo al tempo stesso: Museo Torlonia.
A luglio scorso (come anticipato da Repubblica), quando sono stati avviati i contatti fra ministero e famiglia Torlonia, si era pensato di esporre una ventina di statue, un assaggio della collezione, composta di sculture greche e romane, molte acquistate da altre collezioni, come quella che fu dei Giustiniani, con la celebre Hestia, altre recuperate negli scavi compiuti nelle proprietà dei Torlonia. Ora invece si è deciso che in mostra andranno una sessantina di opere. Tra cui la celebre serie dei ritratti imperiali.
Non sarà dunque un assaggio, bensì l’esposizione frutto di un progetto culturale centrato sulla storia e sulla fisionomia della Collezione. Il programma verrà sottoposto ai Torlonia per l’approvazione. Ma la persona scelta per curarla dà garanzie assolute: Salvatore Settis, fra i massimi studiosi d’arte antica. Con lui lavorerà Carlo Gasparri, archeologo e professore a Napoli, che più di tutti conosce la Collezione e di ogni pezzo ha individuato la provenienza: da altre collezioni, appunto (Vitali, Caetani, Giustiniani – 270 dei 620 pezzi totali – e la bottega di Bartolomeo Cavaceppi, restauratore e scultore settecentesco), o dagli scavi a Villa dei Quintili, Villa di Massenzio e Caffarella sull’Appia Antica, oltre a via Latina, Porto e Centocelle. Un sopralluogo a via della Lungara è previsto per il 16 febbraio.
La mostra avrà un impatto internazionale. Dopo Roma è possibile che vada al British e al Getty. Ferme restando le garanzie di tutela, che spetta alla Soprintendenza archeologica di Roma. Ma che potrebbe essere trasferita ad altri uffici (quali?) quando entrerà in vigore la contestata riorganizzazione del ministero voluta da Franceschini.
La famiglia Torlonia assicurerà il restauro delle opere (per la cura di un bronzo ci vogliono circa 40 mila euro). Saranno quindi moltiplicati gli interventi che già vengono praticati sotto la guida esperta di Anna Maria Carruba su alcuni pezzi custoditi a Villa Albani, capolavoro dell’architettura settecentesca realizzato da Johann Joachim Winckelmann.
La storia recente della Collezione Torlonia è assai aggrovigliata. Fino al 1976 le statue erano sistemate in 77 stanze del palazzo di via della Lungara. Non erano accessibili a chiunque, ma erano disposte con criterio e il museo conservava i tratti della collezione privata ottocentesca. Fu il principe Alessandro Torlonia, che adesso ha novant’anni, a decidere di trasferirle nei tre cameroni dove sono tuttora. Il museo doveva essere trasformato in 90 miniappartamenti. Seguì una vertenza giudiziaria. I lavori erano abusivi (il principe aveva chiesto l’autorizzazione a riparare il tetto) e inoltre lo sfratto delle statue venne considerato un danno all’integrità della collezione. Ci furono sequestri, sentenze, condanne e amnistie. Ma intanto le statue rimasero lì, nelle stanze in fondo a un corridoio un tempo adibite a granai e a scuderie. Nessuno poteva più vederle né studiarle. L’unico che aveva accesso alle sculture fu appunto Carlo Gasparri, incaricato dal tribunale di Roma di farne l’inventario. Insieme a lui potevano entrare i funzionari della Soprintendenza addetti alla tutela. Antonio Cederna scrisse decine di articoli, denunciando lo scandalo di un patrimonio sottratto al godimento e allo studio.
Negli anni diversi sono stati i tentativi di soluzione. Talvolta bonari, talaltra meno. Ma nessu- no ha prodotto risultati. Le statue sono rimaste a prender polvere. D’altronde ipotesi di acquisto da parte dello Stato si scontravano con il valore inestimabile della Collezione. E non era semplice trovare una sede dove collocarla. Il tempo stempera gli umori più aggressivi. Sul passato e sugli abusi commessi si prova a stendere un velo. E così quando si fa avanti un misterioso compratore che sostiene di essere in contatto con il Getty (ma dal Getty smentiscono), le comunicazioni fra il ministero e la famiglia Torlonia riprendono: il direttore generale delle Antichità, Gino Famiglietti, da una parte, Alessandro Poma, trentaquattrenne nipote del principe Alessandro, presidente della Banca del Fucino, la banca di famiglia, dall’altra.
Famiglietti è fra i grandi artefici dell’accordo. Ma la sua direzione generale sparirà, stando sempre alla riforma Franceschini: questo come influirà sull’accordo stesso? Poma ha la piena fiducia del nonno, ed è lui che, a piccoli e meditati passi, porta l’anziano principe alla trattativa con il ministero. Trattativa che inizia con la visita che nel luglio scorso Franceschini compie a Palazzo Giraud, in via della Conciliazione, residenza del principe. Il colloquio è cordiale e i negoziati iniziano. Entrano in scena gli avvocati delle due parti, non mancano battute d’arresto e scambi piccati. Ma in pochi mesi l’accordo si trova. Troppo pressante per tutti l’urgenza di restituire un patrimonio nascosto per tanto tempo.

Una riforma dei beni culturali che tratta il paesaggio come una “bad company”
di Salvatore Settis Repubblica 4.2.16
C’era una volta la Costituzione, con il perentorio articolo 9: «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Quando lo approvò la Costituente, su proposta di Concetto Marchesi (Pci) e di un giovane democristiano, Aldo Moro, quelle parole erano chiare. Erano la «costituzionalizzazione delle leggi Bottai» (Cassese), ma anche delle relative strutture, le Soprintendenze, espressamente menzionate in Costituente: questa l’interpretazione della Corte Costituzionale (269/1995). E non è vero che, come vogliono interpreti mediocri, la prima parte dell’art. 9 («La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica») parli di “valorizzazione”, nozione giuridica introdotta decenni dopo, peraltro «al fine di promuovere lo sviluppo della cultura» e non di far cassa, secondo il Codice dei Beni culturali (art.6). Vanto del nostro patrimonio è la diffusione capillare, donde la natura territoriale delle Soprintendenze, che per la Corte «salvaguardano beni cui sono connessi interessi primari per la vita culturale del Paese e la fruizione da parte della collettività».
Ma il blocco delle assunzioni ha svuotato i ruoli, il personale è invecchiato, i bilanci falcidiati da tagli micidiali. Voluta dalla politica, la crisi della tutela viene rinfacciata a chi l’ha subita, i funzionari del ministero. Come in una tela di Penelope, le strutture vengono fatte e disfatte da riforme a raffica: Veltroni (1998), Melandri (2001), Urbani (2003), Rutelli (2007), Bondi (2009). Ma con Franceschini l’accanimento terapeutico batte ogni record. A lui va riconosciuto il merito di aver avviato l’assunzione di 500 funzionari (comunque meno di quanti ne andranno in pensione nel frattempo) e di aver ottenuto qualche incremento di bilancio (ma tra quanti decenni raggiungeremo non dico i livelli della Francia, ma quelli della stessa Italia fino al 2008?). Ma non è un merito fare e disfare il ministero con colpi di mano, codicilli in Finanziaria, riforme- missile a due o tre stadi. A un’istituzione, come a un’impresa, non giovano la precarietà, l’arbitrio del potere, le decisioni dietro le quinte.
Quando nella legge di stabilità spuntò sotto Natale una “normetta” che autorizza il ministro «alla riorganizzazione, anche mediante soppressione, fusione o accorpamento, degli uffici dirigenziali, anche di livello generale, del ministero», il disegno era sopprimere le Soprintendenze archeologiche (e la relativa Direzione generale), accorpandole con Belle arti e Paesaggio. Perché, invece, non vengano accorpate le restanti direzioni generali (dieci!) è un mysterium fidei che sfugge alla comprensione degli umani. Contorcendosi come un’anguilla, il Superiore Ministero prima accorpa tre tipi di Soprintendenza in un anno, poi triplica i sottosegretari in una notte. Prima spiega che porre i soprintendenti alla «dipendenza funzionale» dai prefetti (legge Madia) non li esautora, ora insinua che azzerare le Soprintendenze archeologiche serve a “resistere” ai prefetti nelle conferenze dei servizi. Prima sussurra che il silenzio-assenso targato Madia non è poi così grave, ora sostiene che spegnere le Soprintendenze archeologiche è «necessario e urgente per attuare il silenzio assenso».
Vano spacciare per innovativi questi accorpamenti vintage: la tutela guidata dai prefetti è datata 1860, ma nel 1907 la L. 386 stabilì che (al contrario) i prefetti coadiuvano le Soprintendenze nella tutela. Quanto alla fusione di Archeologia e Belle arti (sperimentata con pessimi risultati dal 1923 al 1939), è la fotocopia del modello attuato in Sicilia con esiti fallimentari, che il ministero non si è degnato di analizzare. Sarebbe stato interessante, visto che la Sicilia è la sola regione indipendente dal ministero, che la “perse” senza fiatare (ministro Spadolini) nel 1975, otto mesi dopo la sua fondazione. Ma accorpare le Soprintendenze mortifica la professionalità, uccide la specificità delle competenze, depotenzia la tutela. Solo un forte accrescimento del personale potrebbe bilanciare questa sciagura: ma come è mai possibile, se la stessa norma vieta tassativamente «nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica»?
La neo-tutela “modello Franceschini” ha una strategia, la valorizzazione, e una tattica, la tripartizione delle strutture. Al vertice, i venti “super- musei” con nuova filosofia di gestione; un gradino più sotto, gli assai disomogenei “poli museali”; infine, le Soprintendenze territoriali. Ci sono, è vero, buone pratiche “globali” con cui devono misurarsi i musei italiani: ma essi sono diretta espressione del territorio (non lo è il Metropolitan, né il Louvre), e perciò il loro divorzio dal terreno che li alimenta non è una buona idea. Immaginata da menti a digiuno di ogni esperienza sul campo (sia in museo che sul territorio), questa riforma si presta all’effetto-annuncio, ma inciampa alla prova dei fatti. Che accadrà delle Soprintendenze, se i loro archivi e biblioteche sono trasferiti ai musei? Se vengono sfrattate dalle sedi, passandole ai musei? Che succede dei materiali in deposito, condannati a traslochi e shock inventariali? E senza personale né risorse i nuovi inventari chi li fa? Soprattutto: data la primogenitura dei musei che è il chiodo fisso del ministro, come si distribuisce il personale, che ne sarà della tutela sul territorio? Vogliamo davvero distinguere una good company (i musei) e una bad company (le soprintendenze e la cura del territorio), pronta a essere liquidata?
Segnali contraddittori vengono dal Palazzo: il Consiglio di Stato boccia la conferenza dei servizi se applicata all’autorizzazione paesaggistica (come vuole la legge Madia), e la Corte Costituzionale dichiara incostituzionali vari punti dello “Sblocca- Italia”. Intanto il governo capovolge la proposta Catania sul consumo dei suoli: gli oneri di urbanizzazione non “devono” ma “possono” essere usati per spese di urbanizzazione: cioè saranno usati per la spesa corrente («una istigazione alla distruzione dei suoli agricoli», commenta Paolo Maddalena). E un appello contro la legge Madia al Capo dello Stato di sette costituzionalisti (fra cui Gustavo Zagrebelsky), in prima su questo giornale, è rimasto senza risposta; né ha detto una sillaba in merito la stessa Madia o il capo del suo ufficio legislativo, Bernardo Mattarella. Rafforziamo pure i musei, ma il tallone di Achille della tutela è il paesaggio, su cui si accaniscono le peggiori cupidigie. E il paesaggio non si difende nei musei, ma nelle Soprintendenze. Renzi (da sindaco) ha inveito contro i soprintendenti («una delle parole più brutte del vocabolario », scrive nel suo Stil novo, 2012), e si fa presto ad attriburgli il progetto di smantellare la tutela del territorio. Mi rifiuto di crederlo. Da Renzi (presidente del Consiglio) dobbiamo attenderci il rispetto del ruolo costituzionale della tutela. Se non se ne desse un segnale cestinando l’improvvida “normetta” natalizia, la bad company sarebbe il governo, non le Soprintendenze.

“Un istituto per salvare la nostra archeologia”
 Il progetto del ministro dei Beni culturali Franceschini per rispondere alle critiche alla sua riforma: “Sarà sul modello di quello per il restauro”
DARIO PAPPALARDO Repubblica 5 1 2016
«A Roma nascerà un Istituto Centrale dell’Archeologia: l’Ica sarà un luogo di raccordo delle missioni di scavo italiane e di valorizzazione della disciplina che ancora mancava nel nostro Paese». Il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini lo annuncia in risposta alle critiche contro la sua riforma che accorpa le 17 soprintendenze archeologiche con quelle che tutelano il paesaggio e le belle arti. Negli stessi giorni in cui gli archeologi protestano e lamentano l’attac–
co a una professione già fragile.
Ministro, perché ha cancellato le 17 soprintendenze archeologiche?
«Ne ho create 41 nuove: 39 uniche più due speciali (Roma e Pompei). Molti soprintendenti unici saranno archeologi. Ho fatto un’operazione che punta a rafforzare la tutela. E mi offendo quando sento dire che, al contrario, l’ho indebolita. Prima un soprintendente doveva occuparsi di una regione intera. Con la riforma, la Lombardia, per esempio, ha quattro soprintendenze che controllano un territorio più piccolo. E il cittadino che chiede di procedere con un intervento su un palazzo deve fare una sola domanda e aspettare una sola riposta».
Però, con la riforma della pubblica amministrazione e l’introduzione del silenzio assenso, i prefetti hanno più potere in materia di tutela ambientale e paesaggistica… «Il prefetto ha una funzione di coordinamento delle strutture territoriali dello Stato. Ma non sostituisce il soprintendente in nessun caso. Tutti i contrasti saranno risolti all’interno del ministero. In ogni soprintendenza c’è un responsabile per il patrimonio archeologico, storico e artistico, architettonico, per il paesaggio… Se prima c’erano 17 soprintendenti, oggi per l’archeologia ci sono 39 responsabili ».
Insomma, non crede di avere indebolito le soprintendenze?
«Semmai ho provveduto a una razionalizzazione. Nella comunità scientifica, il tema della soprintendenza unica divide. Il dibattito è legittimo, ma poi bisogna scegliere. Operare una sintesi: è quello che cerco di fare. Contemporaneamente alle nuove soprintendenze, nascono nuovi parchi archeologici che avranno statuti e bilanci autonomi e si occuperanno di tutela e valorizzazione. Parlo tra gli altri dei parchi archeologici di Ostia, dell’Appia Antica… finora erano semplici uffici di Roma…».
Sul futuro dell’Appia Antica c’è apprensione. Il 13 febbraio ci sarà una marcia dell’associazione Bianchi Bandinelli per i beni culturali in ricordo di Antonio Cederna… «Bianchi Bandinelli era un riformatore, non un conservatore. L’Appia Antica ci sta a cuore. Il direttore sarà scelto con un bando internazionale: avrà autonomia fiscale, gestionale… non capisco dove sia l’indebolimento. Dal punto di vista della tutela, l’archeologia ne esce rafforzata da questo secondo atto della riforma. Semmai bisognerà essere più attenti agli scavi… ».
E quindi?
«È per questo che faremo nascere un Istituto Centrale di Archeologia del ministero che supporterà le soprintendenze come luogo della ricerca e del coordinamento delle missioni di scavo italiane sul territorio nazionale e all’estero. Per l’archeologia sarà il corrispettivo dell’Istituto Centrale del Restauro e dell’Opificio delle Pietre Dure».
Quali sono i tempi?
«Saranno veloci, lo faremo in fretta. Le preoccupazioni degli archeologi vanno ascoltate».
L’età media del ministero è alta. C’è un sostanziale blocco del turn over. Lei ha avviato l’assunzione di 500 funzionari. Basteranno?
«Basteranno per qualche anno. Il numerò coprirà tutti i posti ora vacanti più quelli occupati da chi andrà in pensione nel 2016. Si ringiovanirà l’età media del ministero. Poi, più avanti, si potrà procedere a un altro concorso. Il dato positivo è che si inizia a capire che sulla cultura si può investire. Il bilancio del 2016 è cresciuto del 27 per cento rispetto all’anno scorso».
C’è una circolare del ministero, diffusa su Internet, che invita i funzionari a non parlare con gli organi di stampa… «Non l’ho vista. Il dibattito sulla riforma ci deve essere fuori e dentro il ministero. Deve essere libero e mi pare sia così».
Il nuovo disegno di legge sul cinema abolisce le commissioni ministeriali che attribuivano finanziamenti in base al cosiddetto “interesse culturale”. I crediti fiscali saranno assegnati in base a “parametri oggettivi” come i risultati economici e il successo in sala. Non si rischia di favorire i progetti di cassetta?
«L’obiettivo è quello di creare un indotto per il Paese: del tax credit hanno usufruito il remake di
Ben Hur, Zoolander, 007. Film che restituiscono l’immagine dell’Italia nel mondo. Il cinema è un’industria. C’è un nuovo interesse intorno a Roma e a Cinecittà. Se un film oggi produce l’effetto che fece Vacanze Romane, ben venga. Poi il 15 per cento del Fondo unico per lo spettacolo sosterrà comunque opere prime e seconde, start-up e piccole sale».
Si è dato una risposta chiara sull’incidente delle statue inscatolate ai Musei Capitolini, durante la visita del presidente iraniano Rouhani? Una commissione doveva accertare l’accaduto: a che punto è?
«Non ho nuovi elementi. L’indagine della commissione interna a Palazzo Chigi evidentemente non è finita. Continuo a dire che ci sono mille modi per non offendere la sensibilità di un leader straniero. Non bisognava certo coprire le sculture classiche».
Quale sarà la sede per la mostra della collezione e per il Museo Torlonia?
«È tutto aperto. L’accordo con la famiglia Torlonia è fatto, ma non ancora firmato. C’è un interesse internazionale: si tratta della più grande collezione archeologica di scultura mai vista. La mostra girerà il mondo. Dobbiamo trovare a Roma una sede di grande prestigio ».




































Perché servono le soprintendenze uniche 
Massimo Montella Stampa 10 1 2016
La decisione annunciata dal ministro dei Beni Culturali è quella di accorpare le soprintendenze, prima divise per ambiti disciplinari. Molti sono insorti (i soliti). Ma nessuno di loro ha spiegato perché fosse da preferire la situazione precedente. È ovvio che questo provvedimento non può risolvere il problema della salvaguardia e della valorizzazione di un patrimonio culturale micrometricamente diffuso sull’intero territorio del Paese, la cui sorte per gran parte non dipende dai poteri ministeriali. Ed è ovvio che il problema della qualità dell’azione delle soprintendenze supera la questione della loro organizzazione e investe anzitutto la omogenea formazione degli addetti, anche per evitare, come è avvenuto finora, che l’esercizio della tutela venga diversamente interpretato di luogo in luogo a seconda della discrezionale opinione di ciascun soprintendente.
Il punto, però, è, molto semplicemente, se questo provvedimento migliori o peggiori la situazione. Sotto il profilo culturale e scientifico, soprintendenze uniche sono state ripetutamente invocate già dagli ultimi decenni del secolo scorso dai tanti che hanno denunciato la insensatezza di una ottocentesca scomposizione metodologico-disciplinare del carattere unitario del patrimonio, che dunque necessita di una azione unitaria di tutela, e che hanno ad esempio sottolineato l’assurdità di un modo di operare per cui il muro di un edificio è affare della soprintendenza architettonica, mentre l’affresco che lo copre spetta a quella storico-artistica e alla archeologica le indagini al di sotto del pavimento.
Per quanto attiene poi al rapporto fra istituzioni e cittadini, l’accorpamento ha l’indubbio vantaggio della semplificazione, dello snellimento burocratico e, soprattutto, di favorire la possibilità che le soprintendenze prendano a concepirsi non come rigide autorità di polizia, come poteri assoluti e insindacabili, ma come pubblici servizi impegnati a costruire con le comunità, nell’insieme delle loro componenti pubbliche e private, un’azione di tutela che apporti benefici sociali ed economici e così accresca la diffusa consapevolezza del valore del patrimonio.
Per contro, ma senza spiegare perché, gli oppositori e per primi i sindacati lamentano lo svilimento degli specialismi disciplinari, che dovrebbero essere però salvaguardati e al tempo stesso emendati dal rischio degli steccati, per il fatto che le soprintendenze uniche saranno articolate in aree funzionali, fra cui archeologia, storia dell’arte, architettura, ecc., sicché ciascuna concorrerebbe con tutte le altre ad una opera di tutela unitaria, interdisciplinare, diacronica.
Semmai va detto che a questa riforma dovrebbero accompagnarsi, nell’immediato, il potenziamento degli organici e delle risorse finanziarie e tecniche e, in prospettiva, soprattutto una revisione dei percorsi formativi universitari, perché ne emergano figure che abbiano una visione unitaria del patrimonio e delle complementari e coincidenti funzioni di tutela e di valorizzazione, nonché una chiara consapevolezza della natura di pubblico servizio degli uffici preposti alla tutela.
Se, poi, l’obiezione, come ha scritto qualcuno, consiste unicamente nel fatto che le soprintendenze uniche “dovevano essere un obiettivo fin dall’inizio”, rallegriamoci che siano venute almeno con un aggiustamento in corso d’opera. Ma la questione culturale di fondo è, anche, che non è più il tempo di credere che i tecnici possano sostituirsi utilmente alla politica nel governo della cosa pubblica, per quanto grande sia l’idea che hanno di se stessi.

Ma il valore della bellezza va ben oltre il mercato
di Tomaso Montanari Repubblica 18.3.16
DOPO il silenzio assenso, dopo l’accorpamento delle soprintendenze e la loro confluenza nelle prefetture, dopo il radicale divorzio tra musei e territorio, una riforma dell’esportazione delle opere d’arte sta per cancellare un altro pezzo del nostro umiliato sistema di tutela. E non uno qualunque: è proprio sulla regolamentazione delle esportazioni che il sistema poggia da almeno quattro secoli.
Nel 1603, il granduca di Toscana affidava all’Accademia del Disegno la «facultà di dichiarare» quali maestri fossero inesportabili. E, nel 1660, il poeta veneziano Marco Boschini lodava «la prudenza /de chi governa el Stato venezian»: perché, se in queste materie non fosse entrata «la regia man» (il potere pubblico), «piture adio, Venezia sarìa senza».
È solo grazie a questa lunga stagione di tutela che l’Italia è ancora — malgrado tutto — quella che è. Ed è in forza di questa tradizione (recepita tra i principi fondamentali della Costituzione, all’articolo 9) che l’Italia ha ottenuto l’eccezione culturale al Trattato di Maastricht (1992) grazie alla quale le opere d’arte del passato non sono merci qualsiasi.
La pessima legge proposta da Andrea Marcucci va in direzione opposta. Su richiesta della parte meno lungimirante del mercato dell’arte, allarga di vent’anni la zona franca (così, per dire, i quadri degli ultimi vent’anni di Giorgio Morandi partiranno all’istante), e soprattutto introduce l’automatismo della soglia di valore, per giunta autocertificata.
Ora, non solo il valore venale non è l’unico metro per decidere (ci sono opere importantissime storicamente che non costano più di 150mila euro), ma soprattutto non si deve far valutare l’opera dal suo interessato proprietario. Tra errori in buona fede e non, rischia di uscire davvero di tutto, e gli eventuali controlli ex post non potranno recuperare i buoi fuggiti dalla stalla.
Con la stessa legge, in Slovacchia un busto di marmo raffigurante papa Paolo V è uscito perché valutato 24mila euro: salvo poi scoprirsi che era di Gian Lorenzo Bernini (è finito al Getty di Los Angeles, pare per 30 milioni di euro).
Possiamo e dobbiamo rendere più efficienti e autorevoli gli Uffici Esportazione (magari assumendo giovani storici dell’arte), ma non possiamo sostituire il loro giudizio con l’arbitrio del mercato e l’interesse privato. Se questa legge passerà, verrà il giorno in cui gli stessi mercanti si accorgeranno di non aver più nulla da vendere, in Italia. Ma sarà tardi.

«Franceschini blocchi la riforma dei Beni culturali» 24 mar 2016 Corriere della Sera Di Paolo Fallai © RIPRODUZIONE RISERVATA
La protesta è dura: la riforma dei Beni culturali «sta smantellando il sistema delle tutele», e l’appello a Dario Franceschini è accorato: «Si fermi, perché è del patrimonio italiano che stiamo parlando». Seguono firme illustri, da Antonio Paolucci, ex ministro e direttore dei Musei Vaticani, a Maria Vittoria Marini Clarelli che ha diretto per anni la Galleria nazionale d’arte moderna, a Pietro Guzzo, «storico» Soprintendente di Pompei. Sono tra i molti che hanno aderito alla due giorni romana convocata da Assotecnici, Associazione Bianchi Bandinelli e Comitato per la Bellezza, proprio per sentire il parere di archeologi, storici dell’arte, architetti, docenti universitari.
Sotto accusa la separazione tra tutela e valorizzazione, fra soprintendenze e musei «che sta provocando un autentico caos nella gestione quotidiana dei Beni culturali». E la legge Madia che inquadra le Soprintendenze nelle Prefetture. «Così comanderà la politica», ha sintetizzato Antonio Paolucci, ricordando la sua esperienza di Soprintendente fiorentino e i rapporti del premier Matteo Renzi con quegli uffici: «La sua antipatia nei confronti delle soprintendenze viene dagli anni in cui era sindaco. Lui pensava di fare lo scoop mondiale trovando Leonardo sotto gli affreschi del Vasari nel Salone dei ’500, gli esperti lo hanno fermato». Il loro obiettivo, secondo Paolucci, è arrivare «a un’autorità unica, più facilmente controllabile dal potere politico. L’avesse fatta Berlusconi una proposta del genere avremmo visto le piazze invase dai girotondo e i musei bloccati dagli scioperi». La tutela, cioè le Soprintendenze, diventano una sorta di «bad company» dei beni culturali secondo Paolo Liverani, docente di Archeologia a Firenze. Le Soprintendenze archeologiche — le prime a sorgere in Italia — vengono unificate a quelle storico-artistiche e a quelle paesaggistiche. Taranto, capitale della Magna Grecia, perde una Soprintendenza esistente dal 1907 e gli archeologi vengono «affogati» in Soprintendenze unificate a Brindisi, a Lecce, a Foggia. Maria Vittoria Marini Clarelli si è chiesta: «Dove finiscono e a chi le loro biblioteche, i loro archivi, i loro laboratori?». Come potrà sopravvivere Roma, smembrata, e che faticosamente aveva trovato un equilibrio grazie ai ricavi dei biglietti del Colosseo?
Uno spazio non secondario nella discussione l’ha avuto il tema paesaggistico: «Nel triennio 2010-2012, in piena crisi edilizia, sono stati ricoperti altri 72 mila ettari, un’area pari alla somma dei Comuni di Milano, Firenze, Bologna, Napoli e Palermo». E nelle città solo a Napoli è stato cementificato il 62,1 per cento del territorio comunale. «Se entreranno in vigore tutti i decreti attuativi della legge Madia saremo alla devastazione dello Stato» ha detto l’urbanista Paolo Berdini.
Se lo spirito dei provvedimenti contestati è «valorizzare, cioè cavare soldi, dai beni culturali, a cominciare dai musei», la cultura in Italia — ha ricordato Vittorio Emiliani — resta la Cenerentola. Gli stanziamenti ci collocano al 23° posto in Europa, dopo Cipro e Malta e prima della Romania. L’obiettivo dell’assise romana è proseguire la pressione sul ministero «creando una rete in grado di mostrare che alcune posizioni della riforma sono ideologiche». Prossimo appuntamento il 7 maggio, con un corteo a Roma, dalla Bocca della Verità all’Arco di Costantino. «È emergenza cultura, Franceschini ci ascolti».

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