L’accordo fra il ministero dei Beni culturali e la Fondazione Torlonia è nero su bianco. La più grande collezione di arte antica di proprietà privata sarà finalmente visibile, come a suo tempo anticipato da Repubblica.
Da 60 a 90 delle 620 fra statue, busti e bassorilievi chiusi in tre stanzoni di un palazzo in via della Lungara a Roma, verranno esposti in una mostra allestita nella seconda metà del 2017 probabilmente a Palazzo Caffarelli, a due passi dal Campidoglio. La mostra sarà curata da Salvatore Settis, coadiuvato da un comitato di cui farà parte Carlo Gasparri, l’archeologo che meglio conosce la storia secolare della collezione. Dopo Roma, la mostra andrà in un’altra capitale europea, forse a Londra, al British Museum, poi negli Stati Uniti, al Getty di Los Angeles e quindi l’accordo prevede una collocazione stabile. Dove e in che tempi, però, è tutto da vedere ed è stato evidente, ieri durante l’incontro che ha preceduto la firma, che le trattative proseguiranno e non saranno semplici.
D’altronde si arriva all’accordo dopo anni di tentativi subito interrotti di avviare un dialogo fra lo Stato e la famiglia Torlonia che consentisse di godere di un patrimonio dalla qualità inestimabile. Anni di diffidenze dopo la decisione, presa dal principe Alessandro Torlonia sul finire degli anni Settanta, di trasformare in appartamenti i locali che ospitavano la collezione nel suo palazzo di via della Lungara. Le statue finirono ammucchiate in tre cameroni al piano terra, inaccessibili a tutti. Seguirono sequestri, processi e sentenze.
I nuovi segnali di riavvicinamento risalgono all’estate scorsa, una volta messo diplomaticamente in parentesi il passato giudiziario. Artefici il nipote del principe Torlonia, Alessandro Poma, e il direttore generale delle antichità, Gino Famiglietti. Quindi è intervenuto il ministro Franceschini, che ha incontrato l’anziano principe.
La conclusione della vicenda attende passaggi importanti. L’organizzazione delle mostre ha preso il via. Ieri Settis e Gasparri hanno fornito assaggi sul formarsi della collezione, sulle acquisizioni e poi sul valore delle statue, sui restauri e le integrazioni subite nei secoli. Settis però non si è sbilanciato sul tipo di mostra, sul filo scientifico e narrativo che legherà i pezzi scelti.
Ma sulla collocazione definitiva è il ministero, più dei Torlonia, a mettere l’accento. Tutti parlano di un prestigioso edificio pubblico. Che però non è stato individuato (si è ipotizzato Palazzo Valentini). Diverse questioni sono da risolvere. Sarà disponibile l’archivio della famiglia Torlonia per ricostruire aspetti importanti della collezione? E inoltre: entro pochi giorni sarà designato il direttore generale che al ministero terrà insieme belle arti, paesaggio e antichità per effetto della riforma Franceschini. Non è secondario, per il buon esito della trattativa con i Torlonia, capire chi siederà sulla poltrona che erediterà il lavoro di Famiglietti.
Sarà un museo la collezione segreta dei Torlonia
«A Roma nascerà un Istituto Centrale dell’Archeologia: l’Ica sarà un luogo di raccordo delle missioni di scavo italiane e di valorizzazione della disciplina che ancora mancava nel nostro Paese». Il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini lo annuncia in risposta alle critiche contro la sua riforma che accorpa le 17 soprintendenze archeologiche con quelle che tutelano il paesaggio e le belle arti. Negli stessi giorni in cui gli archeologi protestano e lamentano l’attac–
co a una professione già fragile.
Ministro, perché ha cancellato le 17 soprintendenze archeologiche?
«Ne ho create 41 nuove: 39 uniche più due speciali (Roma e Pompei). Molti soprintendenti unici saranno archeologi. Ho fatto un’operazione che punta a rafforzare la tutela. E mi offendo quando sento dire che, al contrario, l’ho indebolita. Prima un soprintendente doveva occuparsi di una regione intera. Con la riforma, la Lombardia, per esempio, ha quattro soprintendenze che controllano un territorio più piccolo. E il cittadino che chiede di procedere con un intervento su un palazzo deve fare una sola domanda e aspettare una sola riposta».
Però, con la riforma della pubblica amministrazione e l’introduzione del silenzio assenso, i prefetti hanno più potere in materia di tutela ambientale e paesaggistica… «Il prefetto ha una funzione di coordinamento delle strutture territoriali dello Stato. Ma non sostituisce il soprintendente in nessun caso. Tutti i contrasti saranno risolti all’interno del ministero. In ogni soprintendenza c’è un responsabile per il patrimonio archeologico, storico e artistico, architettonico, per il paesaggio… Se prima c’erano 17 soprintendenti, oggi per l’archeologia ci sono 39 responsabili ».
Insomma, non crede di avere indebolito le soprintendenze?
«Semmai ho provveduto a una razionalizzazione. Nella comunità scientifica, il tema della soprintendenza unica divide. Il dibattito è legittimo, ma poi bisogna scegliere. Operare una sintesi: è quello che cerco di fare. Contemporaneamente alle nuove soprintendenze, nascono nuovi parchi archeologici che avranno statuti e bilanci autonomi e si occuperanno di tutela e valorizzazione. Parlo tra gli altri dei parchi archeologici di Ostia, dell’Appia Antica… finora erano semplici uffici di Roma…».
Sul futuro dell’Appia Antica c’è apprensione. Il 13 febbraio ci sarà una marcia dell’associazione Bianchi Bandinelli per i beni culturali in ricordo di Antonio Cederna… «Bianchi Bandinelli era un riformatore, non un conservatore. L’Appia Antica ci sta a cuore. Il direttore sarà scelto con un bando internazionale: avrà autonomia fiscale, gestionale… non capisco dove sia l’indebolimento. Dal punto di vista della tutela, l’archeologia ne esce rafforzata da questo secondo atto della riforma. Semmai bisognerà essere più attenti agli scavi… ».
E quindi?
«È per questo che faremo nascere un Istituto Centrale di Archeologia del ministero che supporterà le soprintendenze come luogo della ricerca e del coordinamento delle missioni di scavo italiane sul territorio nazionale e all’estero. Per l’archeologia sarà il corrispettivo dell’Istituto Centrale del Restauro e dell’Opificio delle Pietre Dure».
Quali sono i tempi?
«Saranno veloci, lo faremo in fretta. Le preoccupazioni degli archeologi vanno ascoltate».
L’età media del ministero è alta. C’è un sostanziale blocco del turn over. Lei ha avviato l’assunzione di 500 funzionari. Basteranno?
«Basteranno per qualche anno. Il numerò coprirà tutti i posti ora vacanti più quelli occupati da chi andrà in pensione nel 2016. Si ringiovanirà l’età media del ministero. Poi, più avanti, si potrà procedere a un altro concorso. Il dato positivo è che si inizia a capire che sulla cultura si può investire. Il bilancio del 2016 è cresciuto del 27 per cento rispetto all’anno scorso».
C’è una circolare del ministero, diffusa su Internet, che invita i funzionari a non parlare con gli organi di stampa… «Non l’ho vista. Il dibattito sulla riforma ci deve essere fuori e dentro il ministero. Deve essere libero e mi pare sia così».
Il nuovo disegno di legge sul cinema abolisce le commissioni ministeriali che attribuivano finanziamenti in base al cosiddetto “interesse culturale”. I crediti fiscali saranno assegnati in base a “parametri oggettivi” come i risultati economici e il successo in sala. Non si rischia di favorire i progetti di cassetta?
«L’obiettivo è quello di creare un indotto per il Paese: del tax credit hanno usufruito il remake di
Ben Hur, Zoolander, 007. Film che restituiscono l’immagine dell’Italia nel mondo. Il cinema è un’industria. C’è un nuovo interesse intorno a Roma e a Cinecittà. Se un film oggi produce l’effetto che fece Vacanze Romane, ben venga. Poi il 15 per cento del Fondo unico per lo spettacolo sosterrà comunque opere prime e seconde, start-up e piccole sale».
Si è dato una risposta chiara sull’incidente delle statue inscatolate ai Musei Capitolini, durante la visita del presidente iraniano Rouhani? Una commissione doveva accertare l’accaduto: a che punto è?
«Non ho nuovi elementi. L’indagine della commissione interna a Palazzo Chigi evidentemente non è finita. Continuo a dire che ci sono mille modi per non offendere la sensibilità di un leader straniero. Non bisognava certo coprire le sculture classiche».
Quale sarà la sede per la mostra della collezione e per il Museo Torlonia?
«È tutto aperto. L’accordo con la famiglia Torlonia è fatto, ma non ancora firmato. C’è un interesse internazionale: si tratta della più grande collezione archeologica di scultura mai vista. La mostra girerà il mondo. Dobbiamo trovare a Roma una sede di grande prestigio ».
Perché servono le soprintendenze uniche
Massimo Montella Stampa 10 1 2016
La decisione annunciata dal ministro dei Beni Culturali è quella di accorpare le soprintendenze, prima divise per ambiti disciplinari. Molti sono insorti (i soliti). Ma nessuno di loro ha spiegato perché fosse da preferire la situazione precedente. È ovvio che questo provvedimento non può risolvere il problema della salvaguardia e della valorizzazione di un patrimonio culturale micrometricamente diffuso sull’intero territorio del Paese, la cui sorte per gran parte non dipende dai poteri ministeriali. Ed è ovvio che il problema della qualità dell’azione delle soprintendenze supera la questione della loro organizzazione e investe anzitutto la omogenea formazione degli addetti, anche per evitare, come è avvenuto finora, che l’esercizio della tutela venga diversamente interpretato di luogo in luogo a seconda della discrezionale opinione di ciascun soprintendente.
Il punto, però, è, molto semplicemente, se questo provvedimento migliori o peggiori la situazione. Sotto il profilo culturale e scientifico, soprintendenze uniche sono state ripetutamente invocate già dagli ultimi decenni del secolo scorso dai tanti che hanno denunciato la insensatezza di una ottocentesca scomposizione metodologico-disciplinare del carattere unitario del patrimonio, che dunque necessita di una azione unitaria di tutela, e che hanno ad esempio sottolineato l’assurdità di un modo di operare per cui il muro di un edificio è affare della soprintendenza architettonica, mentre l’affresco che lo copre spetta a quella storico-artistica e alla archeologica le indagini al di sotto del pavimento.
Per quanto attiene poi al rapporto fra istituzioni e cittadini, l’accorpamento ha l’indubbio vantaggio della semplificazione, dello snellimento burocratico e, soprattutto, di favorire la possibilità che le soprintendenze prendano a concepirsi non come rigide autorità di polizia, come poteri assoluti e insindacabili, ma come pubblici servizi impegnati a costruire con le comunità, nell’insieme delle loro componenti pubbliche e private, un’azione di tutela che apporti benefici sociali ed economici e così accresca la diffusa consapevolezza del valore del patrimonio.
Per contro, ma senza spiegare perché, gli oppositori e per primi i sindacati lamentano lo svilimento degli specialismi disciplinari, che dovrebbero essere però salvaguardati e al tempo stesso emendati dal rischio degli steccati, per il fatto che le soprintendenze uniche saranno articolate in aree funzionali, fra cui archeologia, storia dell’arte, architettura, ecc., sicché ciascuna concorrerebbe con tutte le altre ad una opera di tutela unitaria, interdisciplinare, diacronica.
Semmai va detto che a questa riforma dovrebbero accompagnarsi, nell’immediato, il potenziamento degli organici e delle risorse finanziarie e tecniche e, in prospettiva, soprattutto una revisione dei percorsi formativi universitari, perché ne emergano figure che abbiano una visione unitaria del patrimonio e delle complementari e coincidenti funzioni di tutela e di valorizzazione, nonché una chiara consapevolezza della natura di pubblico servizio degli uffici preposti alla tutela.
Se, poi, l’obiezione, come ha scritto qualcuno, consiste unicamente nel fatto che le soprintendenze uniche “dovevano essere un obiettivo fin dall’inizio”, rallegriamoci che siano venute almeno con un aggiustamento in corso d’opera. Ma la questione culturale di fondo è, anche, che non è più il tempo di credere che i tecnici possano sostituirsi utilmente alla politica nel governo della cosa pubblica, per quanto grande sia l’idea che hanno di se stessi.
di Tomaso Montanari Repubblica 18.3.16
DOPO il silenzio assenso, dopo l’accorpamento delle soprintendenze e la loro confluenza nelle prefetture, dopo il radicale divorzio tra musei e territorio, una riforma dell’esportazione delle opere d’arte sta per cancellare un altro pezzo del nostro umiliato sistema di tutela. E non uno qualunque: è proprio sulla regolamentazione delle esportazioni che il sistema poggia da almeno quattro secoli.
Nel 1603, il granduca di Toscana affidava all’Accademia del Disegno la «facultà di dichiarare» quali maestri fossero inesportabili. E, nel 1660, il poeta veneziano Marco Boschini lodava «la prudenza /de chi governa el Stato venezian»: perché, se in queste materie non fosse entrata «la regia man» (il potere pubblico), «piture adio, Venezia sarìa senza».
È solo grazie a questa lunga stagione di tutela che l’Italia è ancora — malgrado tutto — quella che è. Ed è in forza di questa tradizione (recepita tra i principi fondamentali della Costituzione, all’articolo 9) che l’Italia ha ottenuto l’eccezione culturale al Trattato di Maastricht (1992) grazie alla quale le opere d’arte del passato non sono merci qualsiasi.
La pessima legge proposta da Andrea Marcucci va in direzione opposta. Su richiesta della parte meno lungimirante del mercato dell’arte, allarga di vent’anni la zona franca (così, per dire, i quadri degli ultimi vent’anni di Giorgio Morandi partiranno all’istante), e soprattutto introduce l’automatismo della soglia di valore, per giunta autocertificata.
Ora, non solo il valore venale non è l’unico metro per decidere (ci sono opere importantissime storicamente che non costano più di 150mila euro), ma soprattutto non si deve far valutare l’opera dal suo interessato proprietario. Tra errori in buona fede e non, rischia di uscire davvero di tutto, e gli eventuali controlli ex post non potranno recuperare i buoi fuggiti dalla stalla.
Con la stessa legge, in Slovacchia un busto di marmo raffigurante papa Paolo V è uscito perché valutato 24mila euro: salvo poi scoprirsi che era di Gian Lorenzo Bernini (è finito al Getty di Los Angeles, pare per 30 milioni di euro).
Possiamo e dobbiamo rendere più efficienti e autorevoli gli Uffici Esportazione (magari assumendo giovani storici dell’arte), ma non possiamo sostituire il loro giudizio con l’arbitrio del mercato e l’interesse privato. Se questa legge passerà, verrà il giorno in cui gli stessi mercanti si accorgeranno di non aver più nulla da vendere, in Italia. Ma sarà tardi.
«Franceschini blocchi la riforma dei Beni culturali» 24 mar 2016 Corriere della Sera Di Paolo Fallai © RIPRODUZIONE RISERVATA
La protesta è dura: la riforma dei Beni culturali «sta smantellando il sistema delle tutele», e l’appello a Dario Franceschini è accorato: «Si fermi, perché è del patrimonio italiano che stiamo parlando». Seguono firme illustri, da Antonio Paolucci, ex ministro e direttore dei Musei Vaticani, a Maria Vittoria Marini Clarelli che ha diretto per anni la Galleria nazionale d’arte moderna, a Pietro Guzzo, «storico» Soprintendente di Pompei. Sono tra i molti che hanno aderito alla due giorni romana convocata da Assotecnici, Associazione Bianchi Bandinelli e Comitato per la Bellezza, proprio per sentire il parere di archeologi, storici dell’arte, architetti, docenti universitari.
Sotto accusa la separazione tra tutela e valorizzazione, fra soprintendenze e musei «che sta provocando un autentico caos nella gestione quotidiana dei Beni culturali». E la legge Madia che inquadra le Soprintendenze nelle Prefetture. «Così comanderà la politica», ha sintetizzato Antonio Paolucci, ricordando la sua esperienza di Soprintendente fiorentino e i rapporti del premier Matteo Renzi con quegli uffici: «La sua antipatia nei confronti delle soprintendenze viene dagli anni in cui era sindaco. Lui pensava di fare lo scoop mondiale trovando Leonardo sotto gli affreschi del Vasari nel Salone dei ’500, gli esperti lo hanno fermato». Il loro obiettivo, secondo Paolucci, è arrivare «a un’autorità unica, più facilmente controllabile dal potere politico. L’avesse fatta Berlusconi una proposta del genere avremmo visto le piazze invase dai girotondo e i musei bloccati dagli scioperi». La tutela, cioè le Soprintendenze, diventano una sorta di «bad company» dei beni culturali secondo Paolo Liverani, docente di Archeologia a Firenze. Le Soprintendenze archeologiche — le prime a sorgere in Italia — vengono unificate a quelle storico-artistiche e a quelle paesaggistiche. Taranto, capitale della Magna Grecia, perde una Soprintendenza esistente dal 1907 e gli archeologi vengono «affogati» in Soprintendenze unificate a Brindisi, a Lecce, a Foggia. Maria Vittoria Marini Clarelli si è chiesta: «Dove finiscono e a chi le loro biblioteche, i loro archivi, i loro laboratori?». Come potrà sopravvivere Roma, smembrata, e che faticosamente aveva trovato un equilibrio grazie ai ricavi dei biglietti del Colosseo?
Uno spazio non secondario nella discussione l’ha avuto il tema paesaggistico: «Nel triennio 2010-2012, in piena crisi edilizia, sono stati ricoperti altri 72 mila ettari, un’area pari alla somma dei Comuni di Milano, Firenze, Bologna, Napoli e Palermo». E nelle città solo a Napoli è stato cementificato il 62,1 per cento del territorio comunale. «Se entreranno in vigore tutti i decreti attuativi della legge Madia saremo alla devastazione dello Stato» ha detto l’urbanista Paolo Berdini.
Se lo spirito dei provvedimenti contestati è «valorizzare, cioè cavare soldi, dai beni culturali, a cominciare dai musei», la cultura in Italia — ha ricordato Vittorio Emiliani — resta la Cenerentola. Gli stanziamenti ci collocano al 23° posto in Europa, dopo Cipro e Malta e prima della Romania. L’obiettivo dell’assise romana è proseguire la pressione sul ministero «creando una rete in grado di mostrare che alcune posizioni della riforma sono ideologiche». Prossimo appuntamento il 7 maggio, con un corteo a Roma, dalla Bocca della Verità all’Arco di Costantino. «È emergenza cultura, Franceschini ci ascolti».
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