James Frazer: La paura dei morti nelle religioni primitive, Il Saggiatore
Risvolto
Quando i wawanga che vivono alle
pendici del monte Elgon, in Kenya, attribuiscono una malattia
all’influsso maligno di uno spirito trapassato, esumano il cadavere,
bruciano le ossa su un nido di formiche rosse, quindi raccolgono le
ceneri in un cesto e le gettano nel fiume. Talvolta, anziché riesumare
la salma, conficcano una pertica appuntita nella bara e per maggior
sicurezza vi versano sopra acqua bollente: così ritengono di sopprimere
definitivamente lo spirito che causa la malattia.
Nella Paura dei morti nelle religioni primitive, opera nata da
due cicli di conferenze tenute tra il 1932 e il 1933 da Sir James George
Frazer al Trinity College di Cambridge, l’ipotesi di fondo è che esista
un atteggiamento unico nei confronti delle anime dei defunti: l’uomo
cerca di liberarsi dei pericolosi spiriti dei morti ora con la
persuasione e la conciliazione, ora con la forza e l’inganno; questa
paura dei morti è all’origine delle religioni «primitive» di tutte le
epoche e latitudini.
Come già nel Ramo d’oro – in cui si analizzavano le somiglianze
tra le credenze mitiche, magiche e religiose dei popoli di tutto il
mondo, comprese le civiltà antiche e la prima cristianità, fra riti di
fertilità, sacrifici umani, capri espiatori, nozze sacre, re maghi e dèi
morituri –, così nella Paura dei morti, testo centrale nel
corpus della sua opera, Frazer disvela la correlazione simbolica tra
mito e rito, corroborando le sue argomentazioni, oltre che con
un’esposizione brillante quanto rigorosa, con una ricca messe di notizie
documentarie cui ancora oggi gli studiosi di mitografia attingono. Per
Frazer, che si considerava discepolo e continuatore di Charles Darwin,
la teoria dell’evoluzione è da interpretare come un paradigma sociale,
un progresso dell’umanità in tre stadi: dalla magia primitiva nasce la
religione, che a sua volta culmina nella scienza.
Nonostante la scienza etnologica e antropologica successiva abbia
necessariamente superato il suo comparativismo assoluto – il quale
peraltro non comprendeva la ricerca sul campo, nutrito com’era di
resoconti di viaggio e fonti letterarie –, Frazer resta una pietra
miliare nella storia della cultura moderna e nella formazione del
pensiero del Novecento, tanto da essere accostato a Karl Marx e Sigmund
Freud, che a lui infatti attinse per Totem e tabù. La sua
influenza si è esercitata tuttavia ben oltre i confini dell’accademia e
ha condizionato generazioni non solo di pensatori e studiosi, ma anche
di artisti e poeti, tra cui T.S. Eliot, W.B. Yeats e H.P. Lovecraft,
nonché James Joyce ed Ernest Hemingway. Una fascinazione potente, che
tuttora perdura e dalla quale il Saggiatore consente oggi di farsi
ancora ispirare, come solo con i classici accade.
Sir James George Frazer
nacque a Glasgow nel 1854 e morì a Cambridge nel 1941. Fu storico delle
religioni e antropologo. Per il suo contributo è considerato uno dei
padri fondatori dell’antropologia moderna. La sua opera più celebre è la
monumentale Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, pubblicata nel 1890 e ampliata fino al 1915.
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Con
un’operazione coraggiosa Il Saggiatore ripropone “La paura dei morti
nelle religioni primitive, uno dei testi meno conosciuti di James
Frazer. Frazer, antropologo sociale, segnò con i suoi studi i decenni a
cavallo tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900. Esponente del
pensiero eurocentrico o meglio anglocentrico in un’epoca in cui il canto
Rule Britannia risuonava tra i continenti, a Frazer spetta un posto
centrale tra i grandi ispiratori dello spirito del tempo, al fianco di
Freud e di Marx. Eppure il grande antropologo «da scrivania» è oggi
quasi dimenticato. Da scrivania perché Frazer non operò mai sul campo,
come poi fecero i suoi successori. E questo fu uno dei motivi per cui
venne aspramente criticato da Ernesto De Martino all’epoca della
controversa pubblicazione de Il ramo d’oro, la sua opera capitale,
dedicata al sacrificio del re sacro e al valore culturale della sua
morte rituale, nella mai abbastanza rimpianta Collana Viola di Einaudi,
curata appunto da De Martino e da Cesare Pavese.
Questa riedizione
italiana de La paura dei morti nelle religioni primitive ci permette di
ricordare quanto potente sia stata l’influenza di Frazer sulla cultura
contemporanea, in particolare su quella letteraria. Freud s’ispirò a lui
per una delle sue opere più discusse, Totem e tabù, mentre Thomas
Stearns Eliot scrisse uno dei suoi capolavori, La terra desolata, sotto
l’influenza de Il ramo d’oro. Lo stesso libro che compare, in epoca più
recente, accanto al misterioso Kurz in Apocalypse Now, la rilettura che
Francis Ford Coppola fece di Cuore di tenebra di Conrad. E pare che
Conrad stesso avesse scritto il suo lungo racconto pensando al
sacrificio del re descritto da Frazer. Un intreccio complesso e
continuo, dunque, di cui in Italia fu alfiere Cesare Pavese, che da
Frazer fu profondamente affascinato, soprattutto nella stesura dei suoi
Dialoghi con Leucò. De Il ramo d’oro, Pavese scrisse in una lettera a De
Martino: «E’ il libro che mi ha convertito all’etnologia e resta sempre
un ottimo repertorio».
Repertorio è forse la parola più adatta
per definire anche questo testo, che raccoglie due cicli di conferenze
che Frazer tenne al Trinity College di Cambridge tra il 1932 e il 1933.
La messe di dati, di racconti, di «storie» verrebbe da dire,
narrativamente parlando, che l’autore accumula nel testo, è
impressionante. Il filo conduttore, come già indicato dal titolo, è il
timore dei morti, la paura, potremmo dire, dei fantasmi, degli spiriti,
dimostrata da un’ampia scelta della letteratura specialistica. L’ipotesi
di Frazer è che le credenze riguardo la vita dopo la morte e i riti
funerari siano legati al timore nei confronti delle «anime» dei defunti e
che questo sistema di tradizioni e di riti sia all’origine del pensiero
religioso. L’assunto, nell’intenzione dell’autore, è avvalorato dagli
innumerevoli esempi presentati.
Il problema, a occhi
contemporanei, è il metodo: viene costruita una teoria, di stampo
evoluzionistico ed eurocentrico e si adattano a essa i fatti, andando
contro quello che Popper definì poi il principio di falsificabilità. In
quest’ottica, la civiltà occidentale – verrebbe da dire, leggendo
Frazer, quella britannica - è il punto più alto di un’evoluzione che
porta dalla magia, vista come un imperfetto e abortito tentativo di
scienza, alla religione e infine alla scienza vera e propria.
Gli
assunti di Frazer furono smentiti dall’antropologia successiva, in
particolare da Lévi-Strauss e da Marcel Mauss, ma i suoi libri restano
ancora oggi nell’immaginario collettivo come un immenso serbatoio di
credenze e di narrazioni. Ma perché rileggere oggi Frazer? Al di là del
valore scientifico della sua opera, egli ci permette di immergerci in
quella che fu la temperie culturale del secolo scorso, con il suo
eurocentrismo, almeno fino alla seconda guerra mondiale. Frazer, che si
considerava un erede di Charles Darwin, aveva dell’umanità un’idea
positivistica ed evoluzionistica, e fu un esempio perfetto
dell’atteggiamento britannico nei confronti del resto del mondo, che nei
suoi libri appare, Grecia e Italia comprese, come un luogo ancora preda
del pensiero magico. Dalla magia alla scienza, abbiamo detto, scienza
che, come affermato nelle prime pagine di questo libro, forse un giorno
coronerà «la lunga serie delle sue vittorie sulla Natura con la scoperta
delle origini della vita». C’è paradossalmente molto di magico, in
questo tipo di considerazioni e c’è tutta quella tendenza, ancora
diffusa anche nel mondo occidentale, a considerare i fenomeni dal punto
di vista delle teorie e a una sorta di fede nelle «magnifiche sorti e
progressive» della scienza stessa.
Sorti di cui, in questo
crepuscolo del mondo occidentale che sembriamo attraversare, è lecito
dubitare, sebbene a esse si debba affidare il nostro benessere e forse
la nostra stessa sopravvivenza come specie.
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