La mia prima risposta è molto banale: è venuto Pintor a casa mia e me l’ha chiesto e poiché era tanto simpatico gli ho detto di sì. Ma c’era un’altra ragione. C’era una situazione tipica di una certa sinistra di allora, anche di quella di antiche origini cattoliche come la mia, che non riusciva a identificarsi col Partito comunista italiano.
Specie noi della cosiddetta neoavanguardia del Gruppo 63, se eravamo certamente orientati a sinistra, stavamo per così dire sulle scatole alla cultura ufficiale del Pci, ancora guttusiana, pratoliniana, con la sua idea di intellettuale organico che non era compatibile, tanto per fare un esempio, con gli eretici come Vittorini, diffidente verso tante nuove tendenze culturali emergenti, quasi sempre bollate come trucchi insidiosi del neocapitalismo. Una volta il buon Mario Spinella mi chiese di scrivere un lungo articolo su Rinascita per indicare quali erano i problemi che una cultura di sinistra doveva affrontare. Io scrissi di sociologia delle comunicazioni di massa e dello strutturalismo: fui coperto di feci dall’intellighentia del Pci. Mi viene da citare l’attacco dell’allora marxista Massimo Pini, poi finito in An, e un personaggio francese che scrisse «ma cosa diavolo racconta questo Umberto Eco: da un punto di vista marxista lo strutturalismo è inaccettabile». Questo signore si chiamava Althusser e due anni dopo avrebbe tentato il suo celebre connubio tra marxismo e strutturalismo.
C’era un clima molto difficile per chi volesse essere di sinistra, senza stare con il Pci. All’epoca l’unica alternativa possibile era con il giro di Lelio Basso e con il manifesto: l’unico modo di essere di sinistra senza venire irreggimentati nel Pci, anche se non era più quello togliattiano che accusava di decadentismo Visconti perché aveva girato Senso ma che tuttavia erano ancora accolte con diffidenza.
Tanto per fare un esempio, nel 1962 Vittorini pubblicava il Menabò numero 5, quello dedicato a industria e letteratura, ma proponendo un nuovo modo di intendere l’espressione «letteratura e industria», focalizzando l’attenzione critica non sul tema industriale ma sulle nuove tendenze stilistiche in un mondo dominato dalla tecnologia. Era un coraggioso passaggio dal neorealismo (dove valevano i contenuti più che lo stile) a una ricerca sullo stile dei tempi nuovi, ed ecco che dopo un mio lungo saggio Sul modo di formare come impegno sulla realtà apparivano prove narrative molto ‘sperimentali’ di Edoardo Sanguineti, Nanni Filippini e Furio Colombo.
Perciò accettai la proposta di Pintor; ma poiché avevo un contratto per la terza pagina del Corriere della sera non potevo mettere la stessa firma su due quotidiani e scelsi di firmare Dedalus.
Dedalus, una firma di grande prestigio, nel segno di Joyce.
Mi sono divertito come un pazzo a scrivere i pezzi di Dedalus. Ricordo che un po’ di anni dopo Fanfani mi incontrò, agitando la mano e facendo, garbatamente, finta di volermi picchiare. La ragione? Qualche tempo prima sul manifesto avevo scritto: «L’onorevole Fanfani, passeggiando nervosamente sotto il letto…». Altra polemica con Montanelli quando, attaccando la Cederna, aveva scritto che «annusa l’afrore degli anarchici sotto le ascelle». Scrissi: «una volta i polemisti portavano la penna all’altezza del cuore; tu, Indro, sei sceso molto più in basso». Poi Montanelli mi mandò un suo libro con la dedica: «In memoria di un colpo basso». Era un uomo di spirito.
Ma in questi quarant’anni ci sono stati grossi cambiamenti. Quali?
Sono stati totali. Il crollo del muro di Berlino, la fine delle ideologie e, di seguito, la fine dei partiti e anche la crisi del manifesto che non ha più nessuno con cui confrontarsi alla sua sinistra.
Vuoi dire che quando facevamo polemica con il Pci avevamo un ascolto e adesso che il Pci non c’è più chi ci sente?
Il cambiamento è stato enorme. Alla fine della seconda guerra mondiale i partiti governavano. In Italia la Dc, il Pci e gli altri ancora. Con la crisi delle ideologie i partiti si sono dissolti in Italia come in Francia, ma paesi come la Francia, appunto, si sono salvati perché lì c’è uno stato, mentre in Italia lo stato è debolissimo.
E quindi in Italia siamo senza governo, nelle mani di una anarchia o di minoranze paracriminali, non perché uccidono gente per strada, ma perché sono fuori da ogni legalità.
Ma, tornando indietro, ricordo che un’altra ragione della mia collaborazione al manifesto stava nella polemica contro i gruppuscoli, che erano per l’astensionismo. Per quante simpatie si potessero avere con il cosiddetto movimento, la rinuncia al voto era inaccettabile. Ricordo che mi chiesero di dirigere Lotta continua: cercavano qualcuno che avesse in tasca la tessera dell’ordine dei giornalisti, disposto ad andare in galera. Risposi di no, perché collaboravo con il manifesto, e non potevo tenere il piede in due staffe. Il manifesto era ovviamente legato al clima del movimento, ma apparteneva pur sempre a una sinistra parlamentare.
Certo il manifesto sembra aver perduto la sua funzione storica, come il Pci e tutti i gruppi di sinistra. Direi che non siete più un partito ma resistete ancora in questo generale tracollo come una coscienza culturale.
Io lo vorrei ancora.
Bisogna pensarci, nell’attuale carenza di proposte positive, nell’assenza della sinistra: tutto è possibile e tutto è più difficile. Discutevo ieri della bizzarra proposta del colpo di stato di Asor Rosa. Il problema non è cacciare Berlusconi con un colpo di stato, contro il 75 per cento degli italiani, al quale in fondo le cose vanno bene così.
Il 75%, esageri proprio.
Non dico quelli che votano direttamente Pdl, ma quella maggioranza naturalmente berlusconiana che non vuole pagare le tasse, ha voglia di andare a 150 chilometri all’ora sulle autostrade, vuole evitare carabinieri e giudici, trova giustissimo che uno se può se la spassi con Ruby, trova naturale che un deputato vada dove meglio gli conviene.
Questa è la moralità dominante. Berlusconi è un abile e geniale piazzista, che ha capito la sostanza e gli umori dell’attuale mercato politico.
Mi torna in mente il famoso errore di Benedetto Croce, secondo il quale Mussolini era caduto dal cielo e non partorito da noi italiani.
Berlusconi è stato partorito dall’Italia di oggi e ha capito la natura profonda del nostro popolo che non si è mai identificato con lo Stato, che si è sempre massacrato nello scontro tra città e città. Non a caso abbiamo tra i nostri pensatori un Guicciardini.
Quindi anche se domani facessi un colpo di stato (che in ogni caso è sempre una cosa cattiva — non ho mai visto colpi di stato «buoni») non cambieresti gli umori del paese. Per cambiarli ci vorrebbe un’azione più profonda, di persuasione ed educazione, e di vere proposte alternative.
Ed ecco che tornerebbe buona, se ci fosse, la politica. Però mi pare che la presa di posizione polemica di Asor Rosa nasca dal sentimento (e dalla frustrazione) che il colpo di stato strisciante è già in atto (ma dalla parte opposta) con l’umiliazione del parlamento, la sua riduzione a un manipolo di yes-men, la delegittimazione della magistratura e quindi la distruzione dell’equilibrio dei poteri, l’occupazione progressiva di tutti i centri della comunicazione.
Scrivevo negli anni Sessanta che ormai per fare un colpo di stato non era necessario muovere i carri armati: bastava occupare le televisioni. Lo si sapeva già negli anni Sessanta.
E la differenza tra apocalittici e integrati? Ti ricordi?
È una distinzione molto vecchia, del 1964, superata. Allora c’era una netta divisione tra i critici del sistema delle comunicazioni di massa (pensa a Adorno) e quelli che si identificavano con il nuovo sistema della comunicazione. Questa divisione si è enormemente modificata, pensa alla Pop art, un’arte d’avanguardia che si abbevera alla comunicazione di massa.
La Pop art? Spiegati meglio.
La Pop art ha usato i fumetti, e non per criticarli (come sarebbe accaduto agli apocalittici del decennio precedente). Quindi, ha fatto provocazione d’élite basandosi su materiali una volta considerati bassi.
Oppure pensa ai Beatles che — come ha poi intuito Cathy Berberian — potevano essere ricantati come se fossero la musica di Purcell che in qualche modo li aveva ispirati. Musica di intrattenimento, ma coltissima. Pensa a Benigni: fa parte della cultura di massa o della cultura d’élite? Non hai risposta: riesce a fare passare Dante davanti a ventimila persone e cammina come un clown. Ai tempi di apocalittici e integrati non sarebbe potuto accadere. Pensa anche al romanzo poliziesco che ancora negli anni Cinquanta era roba da vendere nelle edicole, leggere e buttare, e oggi Camilleri fa romanzi accessibili alle grandi masse, ma mediante una forte sperimentazione linguistica.
Visto che ci siamo: confini tra cultura altra e cultura bassa?
Le differenze sono infinite e difficili da identificare. È quasi come in politica: potrebbe essere un gioco di società trovare personaggi di destra all’interno del Pd e di sinistra (ma è impossibile trovarne) all’interno del Pdl.
Quelli di sinistra è proprio difficile trovarli.
Sì, perché anche la nozione di sinistra si è disfatta. Qualcuno, non ricordo chi, ha scritto che la sinistra ufficiale sta facendo l’unica politica conservatrice possibile: difesa della Costituzione, difesa della magistratura, e così via. Difesa anche dei carabinieri, pensa tu se ce lo avessero detto al tempo del Piano Solo.
Ma dall’altra parte c’è di peggio.
Certo: c’è l’attacco alle istituzioni e dunque è naturale che a sinistra si diventi conservatori. I tempi cambiano, vuoi mica che ancora oggi esista la differenza tra cavouriani e mazziniani?
La polizia di Scelba manganellava i lavoratori e quella di oggi cerca di salvare i neri dai naufragi.
Gli apocalittici cosa sono diventati?
Gli apocalittici, pian piano, son diventati meno rigidi nel loro rifiuto. Pensa solo a come è andata con il fumetto, che era una delle cose più popolari, diretto a persone di cultura bassa. Poi, proprio noi intellettuali lo abbiamo riscoperto e ne abbiamo fatto un mito. Erano le letture della nostra infanzia, ma anche l’unico modo nel quale abbiamo potuto capire qualcosa dell’America.
Ormai il fumetto è diventato una forma di cultura alta, perfino difficile da leggere. Certo i bambini leggono ancora Topolino che resta, più o meno, come una volta. Ma tutte le nuove forme… il fumetto cartonato che si vende nelle librerie, certe volte faccio fatica a leggerlo tanto è raffinato. Quindi quelli che una volta erano i mezzi di massa, contro cui si scagliavano gli apocalittici, oggi possono essere interpretati solo da gente che ha letto Joyce.
Carta stampata e Internet. Un duello aperto.
Sono stufo di sentirmi rivolgere questa domanda. Due anni fa ho pubblicato un libro con Jean-Claude Carrière, Non sperate di sbarazzarvi dei libri. Ovviamente sono un utente di Internet, ho ben otto computer nelle varie case dove capito, ma difendo i diritti e il futuro del libro per una ragione semplicissima: abbiamo la prova scientifica che un libro può durare 550 anni. Prendi un incunabolo, lo apri, sembra stampato ieri e ti permette persino la previsione che forse, se lo lasci in un ambiente poco umido, può durare altri 500‑1000 anni.
Non abbiamo nessuna prova scientifica che un dischetto, una chiavetta possano durare più di dieci anni, non tanto perché si possono smagnetizzare, ma perché nel frattempo sarà cambiato il tipo di computer. I computer di oggi non leggono più i dischetti di quindici anni fa.
Certo, per me è una grande comodità viaggiare con una chiavetta che contiene tutta la mia biblioteca, però l’unica garanzia del fatto che l’informazione si conservi sta ancora nel libro cartaceo. Detto questo, Internet è una cosa utilissima, pensa a cosa sta cambiando nell’Africa del nord: senza Internet non sarebbe successo niente.
Il manifesto attraversa una nuova crisi. Tu, dicevi, perché ha perduto la sponda del Pci. Ma non è più solo per questo.
Innanzitutto c’è una generale crisi politica. Poi sono in crisi tutti i quotidiani. I giovani non comprano più i quotidiani, preferiscono leggere il giornale gratuito che si prende alla stazione.
È un fenomeno generale: se è in crisi anche il Corriere della Sera, che può pagare centinaia di inviati speciali in tutto il mondo, come può non essere in crisi il manifesto?
Se è vero che i giovani sono più attenti ai contenuti culturali, l’unica possibilità del manifesto è quella di settimanalizzarsi, non nel senso di diventare settimanale ma in quello di fare continuamente azione di approfondimento. Ha poco senso che il manifesto esca oggi dicendo quel che è accaduto ieri, perché lo ha già detto la televisione.
Insomma, ripeto: un quotidiano di approfondimento. A modo suo Il foglio lo è. Quindi il manifesto dovrebbe essere sempre più un quotidiano di commento, di proposte. È l’unica possibilità di sopravvivenza.
Ripeto una mia vecchia polemica: il quotidiano di 64 pagine non mi dà più nessuna notizia perché non faccio in tempo a leggerlo. Nel 1990 mi trovavo nelle isole Fiji dove usciva — lo davano gratis negli hotel — il Fiji Journal, che aveva otto pagine di cui sei di pubblicità, due di notizie locali e una pagina di brevissime notizie. Con quella pagina il Fiji Journal mi ha tenuto perfettamente informato su quanto accadeva in Italia e nel mondo.
Allora, o tu diventi il Fiji, quattro pagine al giorno a 20 centesimi, oppure fai 10–12 pagine di approfondimenti, discussioni critiche, polemiche. Non ce la fai a emulare il Corriere della Sera o Repubblica dando più notizie di loro, piuttosto fai una critica dei loro articoli.
Torneresti a collaborare al manifesto?
Non riesco più a tener testa a tutte le cose che devo fare e da quando sono andato in pensione lavoro tre volte tanto. Comunque, lasciami passare l’estate.
Addio UmbertoMalato da tempo, Eco è morto ieri sera. Autore di romanzi bestseller mondiali, saggista rivoluzionario. La sua ultima avventura da editore con La Nave di TeseoANTONIO GNOLI Repubblica 20 2 2016
Umberto Eco è morto. E il mondo perde uno dei suoi più importanti uomini di cultura contemporanei. Aveva 84 anni, è stato scrittore, filosofo, grande osservatore ed esperto di comunicazione e media. La conferma della scomparsa dell’autore de “Il nome della Rosa”, “Il pendolo di Foucault”, “L’isola del giorno prima” fino all’ultimo, “Numero Zero”, è stata data dalla moglie Renata e dal figlio Stefano a Repubblica ieri sera tardi. La morte è avvenuta alle 22.30 nella sua abitazione milanese.
Due o tre cose venivano in mente incontrando Umberto Eco: il whisky, i calembour e il Medioevo. Le prime due appartenevano alla sua natura giocosa e mondana, l’ultima era il frutto di una strepitosa curiosità mentale. Quel mondo remoto, segnato dalla superstizione e dalle nevrosi collettive, lo affascinava. Può stupire la dedizione a quei secoli, ingiustamente definiti bui, in un uomo che non ha mai dubitato della propria natura illuminista.
Una spiegazione si ricava dal rapporto che ebbe con Luigi Pareyson, i cui vasti interessi filosofici spaziavano dalla cultura antica a quella contemporanea. Il professore di Torino individuò in Eco (nato ad Alessandria nel 1932) e in Gianni Vattimo gli allievi più brillanti ai quali affidare le ricerche più ambiziose e remote. A Vattimo fu chiesto di occuparsi di Aristotele, mentre Eco venne indirizzato sull’estetica di Tommaso d’Aquino. Erano allievi mentalmente agili, spregiudicati, ambiziosi. Provenivano dal mondo cattolico. Arrivavano dalla provincia. Ma si intuì che avrebbero fatto molta strada. Il rapporto con Pareyson fu per Eco fondamentale. Con la libera docenza le loro strade si divisero. Fu solo negli ultimi mesi di vita (Pareyson si spense nel 1991) che avvenne il riavvicinamento: «Compresi che, per quanto forti fossero le divergenze culturali, era pur sempre stato il mio maestro. Se ci fai caso, mi disse, tutti i miei romanzi sono come un
Bildungsroman:
c’è un giovane che apprende da un legame formativo con un anziano. È la ragione per cui ho fatto il professore e resto in contatto affettuosissimo con tutti i miei studenti».
A quelle parole, pronunciate con una certa nostalgia, mi venne in mente il rapporto tra Guglielmo e Adso ne Il nome della rosa (1980), il romanzo che gli cambiò la vita ma non il modo di pensare. Dopotutto, che cosa fu quel folgorante esordio narrativo se non anche un modo di tornare ai temi filosofici che gli erano più congeniali? Nel romanzo si sforzò di pensare come un uomo medievale. Immaginò, lasciandosene ammaliare, che l’uomo medievale fosse preda di oscure nevrosi alimentate da un’endemica condizione di angosciosa insicurezza. Per certi versi simile a quella nella quale oggi versiamo. Eco ne immaginò un vertice accattivante nella figura di Guglielmo di Baskerville. C’è da dire che
Il nome della rosa ribolle di araldica medievale, di simbologie minacciose, di contese teologiche, di enigmi interpretativi e di immagini mostruose. Da queste ultime Eco si sentiva attratto. Al punto che la riflessione sulla bellezza — di cui si era a lungo occupato secondo i canoni classici dell’antichità — non lasciava fuori il gusto per il deforme e il difforme. Fu, insomma, consapevole che la cultura medievale — affascinata dal prodigioso ma, al tempo stesso, dal difforme e dall’insolito — aveva fornito le basi a un nuovo modo di percepire la realtà e le sue rappresentazioni. Qualcosa di molto simile immaginò per la nostra contemporaneità, afflitta anch’essa dal disordine e dall’irregolare.
Eco amava mescolare generi letterari ed epoche storiche, padroneggiando con abilità borgesiana l’universo dei libri e i suoi segreti. Tra le tante cose, fu anche un bibliofilo raffinato e competente. Come pochi seppe giocare con la realtà. Seppe affrontarla nei suoi toni alti e bassi. Nelle sue paradossalità e infingimenti. Pensava che le teorie del falso e del vero non fossero prerogativa del mondo contemporaneo. E non fosse di nostra esclusiva pertinenza culturale la loro indistinzione. Il Medioevo aveva conosciuto la pratica di una verità riconducibile a Dio. Tuttavia, Dio non sempre era presente e in agguato c’erano i demoni pronti a confondere la mente dei logici medievali. Certo, i processi di falsificazione attuati dal mondo contemporaneo — sia nell’universo politico che in quello mass-mediologico che ben conosceva grazie alla sua esperienza in Rai nei primi anni Cinquanta — toccano solo in minima parte i problemi di fede e di credenza che l’ingenuità medievale aveva posto al centro del proprio universo. E chissà con quale sdegno Tommaso o Agosti- no avrebbero reagito alla messa in discussione del concetto di autenticità. A volte lo scrittore mostrava insofferenza verso chi liquidava i suoi lavori più popolari come il frutto evanescente della postmodernità. Al contrario, la sua mente era quanto di più moderno si potesse immaginare. Enciclopedica, classificatoria, erudita, paradossale. Giocosa. Fu tra i fondatori del Gruppo 63 insieme a Nanni Balestrini, Oreste Del Buono e Angelo Guglielmi, uno dei rari movimenti di neoavanguardia nell’Italia di quegli anni e poi fondatore del Dams, altro esperimento inconcepibile di trasformare in disciplina accademica arti e materie non allineate. Il tutto senza mai perdere l’ironia. Colse nel riso una qualità esclusivamente umana. Capace di allontanare l’uomo dall’idea di morte. Descrisse Rabelais, che congiunse il mondo medievale con il moderno, come il più straordinario interprete dell’ilarità eversiva. In questo richiamo al mondo medievale Eco rintracciava le radici stesse dell’Europa. Non solo nelle acquisizioni cristiane, non solo nelle mire espansioniste che l’Occidente cominciò a darsi con le Crociate e poi attraverso i primi viaggi; ma anche mediante la riscoperta delle conoscenze filosofiche antiche. Il paradigma medievale fu la stella che orientò il suo cammino. Perfino nei rapporti con Joyce, forse lo scrittore contemporaneo che ha amato più di ogni altro, Eco misurò la vicinanza con il Medioevo. La devozione che il grande dublinese ebbe per quei secoli — per Tommaso e la scolastica, come pure per Dante — furono la ragione di un segreto rispecchiamento. Un’idea seminale che lo avrebbe accompagnato per tutto la vita. Tra i grandi meriti di questo intellettuale c’è anche lo straordinario interesse che le sue opere hanno suscitato a livello internazionale. Fu così che l’Italia, quasi d’improvviso, apparve grazie a lui, un paese culturalmente meno asfittico e deprimente. Egli stesso si meravigliò del grande clamore che il suo nome stava producendo. L’ironia lasciò il posto a una sottile preoccupazione. Come se tutto ciò distogliesse dai veri compiti dello studioso di semiotica e di filosofia che nel corso dei decenni ci ha regalato saggi importanti, su tutte le sue variegate materie di studio: da
Opera aperta (1962) ad Apocalittici e integrati (1964); da La struttura assente (1968) a Trattato di semiotica generale (1975); fino alle sue raccolte di articoli, come quel Diario minimo (1963) che contiene due dei suoi scritti più noti al grande pubblico, Fenomenologia di Mike Bongiorno ed Elogio di Franti. E poi ci sono le tante Bustine di Minerva disseminate, negli anni, sull’Espresso, amatissime dai lettori. E naturalmente i romanzi successivi a Il nome della rosa, come Il pendolo di Foucault (1988), L’isola del giorno prima (1994), Il cimitero di Praga (2010) e l’ultimo, Numero zero, pubblicato nel gennaio dello scorso anno. Ma questa produzione letteraria recente non ha esaurito la vitalità di Eco. Perché la sua ultima grande avventura è cominciata lo scorso novembre, quando con il direttore editoriale Elisabetta Sgarbi e un folto gruppo di autori italiani e internazionali ha lasciato Bompiani, nel pieno della fusione tra Mondadori e Rcs, per fondare una nuova casa editrice, La Nave di Teseo. Ed è davvero triste che non abbia fatto in tempo a vederla salpare.
Da Diario minimo al Nome della rosa L’erudito che si fece best seller
Nato ad Alessandria, era uno degli intellettuali italiani più famosi nel mondo La passione per ogni tipo di cultura: “Per capire quella di massa bisogna amarla”
Gianni Riotta Stampa 20 2 2016
Filosofo, padre della semiotica, scrittore, docente universitario, giornalista, corsivista felice, esperto di libri antichi: in ciascuna delle sue anime Umberto Eco, scomparso ieri a 84 anni, era una stella internazionale. Ma con i suoi studenti, i lettori, i colleghi, mai Umberto Eco prendeva pose snob che i best seller mondiali, dal «Nome della Rosa» al «Pendolo di Foucault», avrebbero imposto ad altri scrittori, rideva, si informava delle novità, e –accendendo una sigaretta- raccontava l’ultima barzelletta, prima di presentare una nuova teoria linguistica.
Poliglotta, erudito alla perfezione, dalla tesi di laurea sull’estetica di San Tommaso alla lunga milizia giornalistica, sull’Espresso, dove, inviato in America Latina aveva confessato di essere stato «a mezzo passo» dalla love story con una militante, al Manifesto, dove firmava pezzi polemici anche a sinistra, per esempio contro Pasolini, con lo pseudonimo di Dedalus, al Corriere di Ottone, alla Repubblica, Eco ha rivoltato il costume culturale italiano, imponendo agli standard accademici antichi una originalità culturale rivoluzionaria.
Raccontava, senza astio, di essere andato in cattedra molto dopo i suoi coetanei, «perché non facevo gli auguri ai baroni», ma era il suo trattare la cultura «alta o bassa» con la stessa appassionata dedizione a renderlo sospetto agli snob italiani. Che un semiologo, un critico letterario, un filosofo si occupasse di fumetti –era stato tra gli animatori di Linus con Oreste Del Buono-, che un docente predicasse «per capire la cultura di massa dovete amarla, non potete scrivere un saggio sul flipper se non avete giocato a flipper» stuccava i nipotini di Croce. Per i prossimi due giorni leggerete solo articoli in cui tutti daranno del Maestro a Umberto Eco, ma da vivo faticò per affermarsi nell’accademia e molti campioni del passato, Pietro Citati per esempio, lo attaccarono senza complimenti. Il suo manuale «Come si fa una tesi di laurea» spiegava che a scrivere si impara, non è opera da geni pazzi, ma raccomandava ai laureandi di diventare specialisti della propria materia, «la vostra tesi deve essere la numero uno!».
Lui non se ne curava troppo, era pieno di allegria, raccontava aneddoti riproducendo gli accenti e i dialetti, da quando giovanissimo era andato alla Rai dei pionieri, col musicista Berio, con Furio Colombo, ammettendo un lungo flirt con la conduttrice Enza Sampò, ma sempre negando di avere scritto le domande per Lascia e Raddoppia di Mike Bongiorno, «Riotta tu ami le leggende urbane» sogghignava.
Con «Opera aperta» del 1962 e «Apocalittici e integrati» del 1964 Eco schiude un nuovo modo di fare filosofia e critica, utilizzando stili e metodi colti con materiali della vita quotidiana, dimostrando all’Italia che usciva dal boom economico e si apprestava a dividersi con il 1968, come si dovesse fare cultura nel mondo moderno. Il rapporto di Eco con gli studenti fu complesso, ne appoggiò il movimento, prese parte con il mensile Alfabeta alla battaglia culturale del tempo, ma prima di molti altri si rese conto che l’avanguardia del Gruppo 63, che aveva fondato, e la nuova sinistra con cui aveva tanto discusso, si stavano ripiegando su se stesse. E quando il terrorismo lacerò l’Italia Eco ammonì, in aula e fuori, che la cultura non è violenza. Aveva invitato a frequentare i Comitati di quartiere, «oggi Rastignac, l’eroe di Balzac andrebbe lì», ma insisteva nel fare studiare la cultura di destra, dal fumettista Chester Gould al poeta Ezra Pound, «o non capirete nulla».
Allineare ora le date del suo lavoro lascia increduli, nel 1975 pubblica per Bompiani, la sua casa editrice, «Manuale di semiotica», a lungo il testo chiave della disciplina, e già nel 1980 è il tempo de «Il nome della rosa», un romanzo che fu adottato all’Accademia militare di West Point come libro di testo, vivisezionato dagli strutturalisti per decenni, ma letto in metropolitana da gente semplice come un giallo appassionante.
Il corto circuito Alto-Basso era la vita di Eco, e nell’ultima intervista che gli feci per questo giornale, riconobbe «Il nome della rosa fu ispirato dal terrorismo, dagli anni terribile che vivevamo. Avevo in mente la morte di Mara Cagol, la fondatrice delle Brigate Rosse, la violenza settaria» e le gesta di Guglielmo di Baskerville sono inno, amaro e preoccupato, contro l’intolleranza, l’odio, l’ignoranza.
Gentile, generoso, affabile, Eco rifiutò le cattedre che l’America gli offriva scherzando, «non posso mica vivere in un paese in cui non si fuma né si beve un caffè», in realtà perché legato all’Italia, la Alessandria in cui era nato e di cui parlava il dialetto, Milano che amava con la sua casa biblioteca al Castello, gli amici, la famiglia, la moglie Renate e i due figli, Stefano e Carlotta. «Ora –diceva- faccio il nonno e di libri discuto con i nipotini, spiegando a Stefano che si può regalare un fucile giocattolo, il gioco è cultura no?».
Le lezioni di semiotica in cui si interpretava tutto Anche come morire STEFANO BARTEZZAGHI
E poi Umberto mi ha detto che non ho la libido docendi». Così suona la battuta con cui il protagonista dei Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino illustra i propri rapporti, catastrofici, con il mondo dell’università. Quell’Umberto sarà stato sicuramente Eco. Tutto il mondo lo ha conosciuto come scrittore erudito ma avvincente, a partire dal Nome della Rosa, pubblicato nel 1980 (come quasi tutti i suoi libri, da Bompiani).
In realtà era già molto noto, e non solo in Italia, come brillante critico e protagonista delle comunicazioni di massa (televisione, giornali, editoria libraria). Aveva animato polemiche culturali, contribuito a svecchiare il dibattito italiano importando testi e idee provenienti da settori disparati (teoria dell’informazione, linguistica, massmediologia, strutturalismo, cognitivismo, avanguardie letterarie e artistiche); aveva colorato le plumbee pagine della pensosità nazionale con i giochi del suo funambolismo satirico e parodico, dai pastiche all’enigmistica; aveva stabilito una rete intercontinentale di conoscenze e rapporti intellettuali, estesa dal Canada, al Brasile all’attuale Estonia e contribuito a fondare una disciplina tanto rigorosa quanto eclettica: la semiotica.
Tutti sapevano che, tra le altre cose, Eco era anche un professore, titolo che in Italia può apparire quasi formale, come venir chiamato «gentiluomo» («dottore» invece equivale a «buon uomo»). Per Eco era diverso. Solo chi è stato suo studente probabilmente ha percepito quanto contasse la
libido docendi,
che possedeva — lui sì — in massimo grado. La verità è che Umberto Eco è stato professore prima e molto più di ogni altra cosa. Nella sua bibliografia, fatta di titoli passati in proverbio, il più umile e il più autobiografico (ma anche uno dei più preziosi) è certamente il Come si fa una tesi di laurea, del 1975.
Io l’ho incontrato per la prima volta nel novembre del 1981, all’Università di Bologna. Voci di corridoio insinuavano che si facesse regolarmente sostituire dai suoi assistenti, distratto dal lancio internazionale del Nome della Rosa (che, a un anno dell’uscita, stava passando dallo status di inatteso bestseller alla dimensione allora inedita di megaseller planetario). Ma non era vero niente.
All’università Eco si sentiva come a casa propria. Dentro a quelle mura era un docente e non una star (in quegli anni non ho mai visto nessuno chiedergli di autografare il romanzo): bastava bussare alla sua porta per essere ricevuti e gli studenti venivano trattati come colleghi juniores. Eccolo infatti irrompere nell’aula affollata, dove per anni l’avrei visto fare lezione ogni giovedì, venerdì e sabato, fino a maggio, a volte anche con la febbre. L’anima sabauda non gli consentiva di deflettere. E poi gli piaceva proprio.
Quel primo giorno tracciò una linea orizzontale per tutta la larga lavagna, la divise in segmenti regolari, ognuno un secolo, dal V al XV d.C. Per le restanti due ore avrebbe riempito tre fasce parallele alla linea cronologica, dedicate rispettivamente ai fatti storici, a quelli culturali e alle innovazioni tecnologiche. Il Medioevo era di fronte a noi.
Molti citano un proverbio appunto medievale: « Non oportet studere sed studuisse » , conta aver studiato, non studiare. Tutte le energie didattiche di Eco sembravano volte in direzione opposta e ancora decenni dopo avrei sentito persone insospettabili dire, dopo una sua conferenza: «Mi ha messo voglia di studiare». Anche a una platea di matricole del Dams, maturate in licei e istituti di chissà quale livello, il suo messaggio arrivava nitido e chiaro: non importa quanto hai studiato sino ad ora, conta che cominci a farlo subito. Dell’Autunno del Medioevo di Johan Huizinga diceva a lezione: «Questo è un libro affascinante, da tenere sul comodino». Chi se lo procurava scopriva che era proprio così: fra docente e studente il patto di fiducia o, meglio, il transfert era attivato; il resto sarebbe venuto da sé.
In un capannello, prima di far lezione, un giorno si toccò un braccio, fingendo preoccupazione: «Mi fa male qui, sarà l’infarto?». Non lo era, decenni di attività lo aspettavano ancora. Ma da quella volta si è poi notato che della propria morte tendeva a parlare con una certa regolarità. Non solo i suoi personaggi romanzeschi più autobiografici raramente sopravvivono alla fine del libro. Anche le
Sei passeggiate nei boschi narrativi (le sue «Lezioni americane »), finiscono con Eco che pensa alla propria morte mentre in un planetario ammira il cielo stellato del 5 gennaio 1932, la notte della sua nascita. Doveva essere un suo pensiero-brivido: l’appuntamento ineludibile con ciò che non significa nulla, che non può essere interpretato, e soprattutto che non si impara né insegna. Che deplorevole inconveniente, l’Inspiegabile, per il caro Professore che non dimenticheremo...
Nessun commento:
Posta un commento