lunedì 29 febbraio 2016

Difese fuori tempo massimo nel centenario di Bassani






















Bassani
Enzo Siciliano: Bassani, Elliot, pp. 92, 11,50

Risvolto
Giorgio Bassani, Enzo Siciliano. Un incontro fervido, un'affinità che mette in gioco la trasmissione dei saperi letterari e sentimenti. Due generazioni, quella solida e determinante di Bassani e l'altra, quella di Siciliano, colma di entusiasmo per una letteratura di concretezza e impegno civile. In questo volume vengono riuniti i saggi e gli articoli più significativi scritti da Enzo Siciliano sull'autore de "Gli occhiali d'oro": saggi e articoli che raccontano quel neorealismo romano (Moravia, Pasolini, Morante) in cui, anche per la lezione di Bassani, si allontanano i dati più ideologici e caduchi a favore di una letteratura capace di narrare la realtà, maggiormente attenta a essere anatomia dell'anima, "autobiografia letteraria" appunto. Una lettera inedita di Giorgio Bassani seguita da un estratto di un racconto di Enzo Siciliano, anch'esso mai pubblicato finora, arricchiscono questo veloce album di testimonianze sul forte legame editoriale e di amicizia intercorso tra due protagonisti della vita culturale italiana del Novecento.


Bassani, l’arte di insegnare 

Anniversari Il 4 marzo di cent’anni fa nasceva l’autore del «Giardino dei Finzi-Contini» Un grande intellettuale e un formidabile maestro raccontato dall’«allievo» Enzo Siciliano in un volume (Elliot) in libreria da domani 

2 mar 2016 Corriere della Sera di Antonio Debenedetti 
Bassani amava il romanzo, gli era fedele come si è fedeli a una religione. Non tollerava eresie. Enzo Siciliano, che amava il romanzo con eguale passione, imparò ascoltando Bassani e più tardi Attilio Bertolucci in che modo rendere attivi nel suo lavoro letterario i classici, le molte letture fatte nell’adolescenza. Con il suo amico Moravia, a proposito di libri e letture, il rapporto era diverso. Durante i loro frequentissimi incontri Alberto e Enzo si scambiavano opinioni su opere fresche di stampa, battibeccavano tenendosi reciprocamente informati. 
Bassani non prescindeva dal culto della pagina ben costruita, senza licenze o sviste. Il Siciliano esordiente dei Racconti ambigui apprese proprio da Giorgio, suo editor d’eccezione, l’arte di correggere, riscrivere, pulire e rifare. 
Sia Giorgio che Enzo mitizzavano la scuola e la preparazione scolastica. Me ne convinsi un giorno sentendoli dialogare. Entrambi sostenevano, con un calore che mi sorprese, l’importanza formativa anche per uno scrittore d’un buon liceo. Dei bei voti in italiano e latino. 
Bassani si compiaceva, con l’aiuto della letteratura, d’un suo appena accennato snobismo, tanto più elegante perché «dorato» da un tono vagamente provinciale. Siciliano non sapeva vine, ceversa dire di no alle tentazioni d’una mondanità più da salotto letterario che da quartieri alti. Entrambi avevano l’aria di perdonarsi, con divertimento, queste piccole, molto umane debolezze. 
Diciotto anni, oltretutto decisivi nella storia del costume italiano, separavano Giorgio e Enzo. Così quando si incontrarono, aiutati anche dalla differenza d’età, uno fu subito il maestro e l’altro il discepolo. Il rapporto che venne configurandosi finì con l’essere, in un certo senso, sostitutivo dell’amicizia. 
In che modo poi Bassani fosse maestro cercherò di dire in termini molto personali, lasciando parlare i miei ricordi anche più confusi. Alterati dal tempo e dai capricci della memoria. 
L’insegnamento di Bassani era anzitutto intimidente. Nell’insieme severo, senza negarsi quando occorreva alla cordialità del riso. Che dire? Il suo fare nascondeva, facendotela sentire nell’aria pronta a colpirti, la parola babbeo. Tu ti vedevi, quando era il caso, come un babbeo di proporzioni ciclopiche. A volte avevi l’impressione errata che Giorgio ti dicesse le stesse cose che ti diceva il tuo professore di liceo ma non era così. Bassani sapeva scatenare in te dubbi (salutari), insoddisfazioni (creative), sensi di colpa nemici delle scorciatoie e delle scelte culturalmente facili. 
Ebreo ortodosso, fedele persino con intransigenza al suo passato politico nel Partito d’AzioGiorgio aveva nel sangue la tradizione rabbinica e talvolta la ritrovava senza cercarla. Anche per questo forse non ti incoraggiava mai a titolo banalmente consolatorio. Spesso lasciava in te delle ombre, suscitava in te delle nubi temporalesche. Bassani, sarà bene precisarlo, era egoista e narciso come accade spesso agli artisti, salvo a farsi talvolta, per moralità, intellettualmente altruista. Magari quando gli chiedevi d’un tuo racconto, datogli con trepidazione in lettura, dopo averci pensato un attimo ti diceva: «L’ho perso, non ce l’ho, non so più dove l’ho messo. Mi spiace». Era un modo diverso e più impegnativo di farti capire che non gli era piaciuto. Era un modo però che lo coinvolgeva, lo costringeva a creare un rapporto più complesso e difficile con te di un cinico dire a mezza voce «bellissimo» e poi voltarti le spalle. Infischiandosene. Bassani, insomma, si responsabilizzava del suo rifiuto e in un certo senso si mostrava disposto a pagarne le conseguenze. 
A suo modo, dunque, Bassani finiva così con l’insegnare moltissimo ma a un prezzo davvero alto. «Che cosa ho sbagliato?» ti chiedevi dopo un incontro con lui, senza saperti dare una risposta. Avevi usato pigramente l’indicativo là dove, con un po’ di sforzo, ti saresti potuto allontanare dalla lingua parlata addentrandoti nella foresta insidiosa dei congiuntivi? Era la virgola che, collocata a senso, denunciava clamorosamente la tua imperizia? Dove avevi mancato insomma? Bassani te lo avrebbe detto ma non subito, non banalmente e in tempo perché tu ti potessi servire rapacemente dell’ammaestramento appena ricevuto, correndo ai ripari e correggendo il tuo sbaglio senza però aver imparato la lezione. Quando la consapevolezza dell’errore, che fosse semplice errore di grammatica o complesso errore di struttura, ti aveva attraversato come una stoccata, allora ti sentivi nuovamente pronto a cercare Giorgio. Capivi che non dovevi chiedergli infantilmente o narcisisticamente dei sì o dei no, delle assoluzioni o delle condanne utili sul piano pratico. Dovevi dialogare con lui da scrittore a scrittore, ascoltarlo come lui ascoltava te, contraddirlo come lui ti contraddiceva. Nella letteratura non ci sono grandi e piccoli, ci sono libri che a qualcuno sembrano belli mentre altri li trovano brutti. Bisogna credere nel proprio talento e armarsi culturalmente per difenderlo. 
Insomma. Bassani, almeno così a me sembra, credeva a una coraggiosa solitudine dello scrittore che ha un’unica arma: la sua pagina che deve adeguare, quanto più riesce, a una sua idea dello scrivere, del narrare, del fare romanzo o racconto. 
A Bassani capitava talvolta di balbettare o meglio di inciampare in una parola facendo fare un salto al fluire del discorso. A volte però si serviva, almeno questa è la mia impressione, di quelle impuntature verbali anche per farti riflettere. Insomma, recitava. «Sei si-curo di quello che hai scrit-to?». La conclusione, sentendoti quel «sei si-curo» risuonare nell’orecchio, era un bisogno immediato di ritornare sulla tua pagina, di verificare e casomai di buttare via tutto ricominciando nella consapevolezza dell’errore commesso. Si possono fare innumerevoli varianti, questa l’idea di fondo, d’una stessa frase prima di trovare quella giusta. Correggere due tre cinque volte è importante, è difficile e non meno «eroico» che creare. 
Una volta, incrociando Enzo Siciliano che usciva da un incontro con Giorgio, intento a rivedere i Racconti ambigui che avrebbe poi pubblicato in una collana da lui diretta, lo trovai con le occhiaie che gli arrivavano al mento, stanchissimo, quasi incapace di parlare. Che cosa fosse successo posso solo ricostruirlo e immaginarlo sulla base di esperienze personali. 
Bassani editor poteva a volte, decidendolo all’improvviso, mettersi a leggere con voce piena e forte un tuo capoverso facendo delle sottolineature con la sua dizione. Quella lettura diventava all’improvviso uno specchio nel quale vedevi riflessi, ingigantiti e finalmente lampanti certi tuoi difetti naturali (ogni scrittore ne ha e sono quasi ineliminabili). Ti rendevi conto di quelli che difetti non erano ma anzi costituivano delle tue prerogative da non disprezzare anche se potevano inquietarti per la loro originalità. Saltavano purtroppo fuori anche le goffaggini, peggio i malvezzi nati dal poco rispetto di sé o da una sottovalutazione del proprio lavoro di scrittore. Contro questi peccati di noncuranza, di ignavia l’autore degli Occhiali d’oro era implacabile. 
La lezione più bella o quanto meno più naturale e impagabile di Bassani l’ho potuta tuttavia godere al ristorante, sedendo a tavola di fronte a lui e a Attilio Bertolucci. La raffinata cultura cosmopolita di Attilio, che non sapeva resistere alla tentazione di civettare in modo creativo e maliziosamente ironico con la sua origine provinciale, incontrando il bon ton ebraico di Bassani, produceva effetti speciali davvero indimenticabili. Era una festa di richiami, di citazioni intrecciate a riferimenti sottili, a giudizi fatti di sorrisi e di mezze parole. E nomi, e nomi, e nomi che portavano con loro il ricordo di stagioni più o meno lontane del gusto e della cultura. Una girandola. Giuseppe Verdi e Roberto Longhi, Bruno Barilli e Emilio Cecchi, Cesare Garboli e Mario Soldati, Elsa Morante e Pasolini con molti, molti altri ancora che inseguendosi davano luogo a quasi una storia dell’anima e del costume italiani dotta e morbida, insinuante e leggera. A tavola sedeva anche Siciliano. Così, quando da quel dialogare saltò fuori il nome di Stendhal, non resistette: lasciò che sulle sue labbra si dipingesse un sorriso estasiato. Quello era il suo mondo, Bassani e Bertolucci erano i suoi veri maestri e in quel mare nuotavano finalmente in perfetta armonia tra loro l’erudito e lo scrittore, che in Enzo a volte viceversa confliggevano dispettosamente. 


Incontri e giornate di studi L’omaggio della sua Ferrara 

2 mar 2016 Corriere della Sera 
Giornate di studi, convegni nelle scuole (da domani), omaggi. Nel centenario della nascita, Ferrara ricorda il suo autore più illustre (anche se di natali bolognesi). Figlio di ebrei ferraresi, Giorgio Bassani era nato infatti a Bologna il 4 marzo 1916, ma trascorse l’infanzia e l’adolescenza a Ferrara. Dopo il liceo, si iscrisse a Lettere a Bologna, dove si laureò nel 1939. Insegnò italiano e storia agli studenti ebrei espulsi dalle scuole pubbliche e divenne attivista politico. Romanziere, giornalista, critico, sceneggiatore, nel 1956 pubblicò le Cinque storie ferraresi, con cui vinse il premio Strega, nel 1958 Gli occhiali d’oro. Raggiunse l’apice del successo con Il giardino dei FinziContini del 1962, premio Viareggio di quell’anno. Morì a Roma il 13 aprile 2000. È sepolto, per sua volontà, a Ferrara, nel cimitero ebraico di via delle Vigne, a ridosso delle mura di cui Bassani, come presidente di «Italia Nostra», promosse il restauro.

Giorgio Bassani Il mio amico poeta e i nostri dialoghi con la racchetta
Cent’anni fa nasceva lo scrittore. Che amava il tennis come la letteratura
GIANNI CLERICI Repubblica 4 3 2016
Ho letto, in un articolo di un vero intellettuale, un ricordo critico di Giorgio Bassani, lo scrittore. Scrive il Critico che, oggi, Bassani avrebbe cent’anni. Mi domando come potrei rivolgermi a Giorgio, cosa potrei dirgli, io che sono stato un suo amico, e che, lungi dall’essere un intellettuale, sono solo uno scriba. Provo dunque a rivolgergli ricordi, domande, chiacchiere. 1)«Mandaglielo tu», mi disse un altro di quelli che chiamavo zii, Mario Soldati, perché i miei veri zii non mi soddisfacevano. «Mandaglielo tu alla Feltrinelli, la Casa Editrice dove lavora. Se glielo raccomando io te lo pubblica. Ma non sarebbe giusto, deve decidere da professionista».
2) Il romanzo si chiamava i Gesti Bianchi. Era una storia di tennis, con il tema centrale di un campione, alias Gottfried Von Cramm, e due giovanissimi tennisti, uno dei quali ero io. Era, in sintesi, una vicenda dei rapporti, e degli attriti, tra l’omosessualità e l’amicizia.
Passarono sei mesi. Mi lagnai con zio Mario. Mi informò che Bassani aveva grossi fastidi con il suo editore Feltrinelli, causa un importantissimo romanzo russo, il Dottor Zivago che alcuni intellettuali del Pci non volevano. Infine venni invitato alla Casa Editrice. Bassani aveva un’aria accogliente, non pareva proprio un Professore, di quelli che mi mettevano soggezione.
«Caro Clerici, sono tennista anch’io », mi disse. «Il suo, con la Costa Azzurra di mezzo, è un bel tema, non facile. Le ho scritto, con la matita rosso e blu, dei suggerimenti, non chiamarli correzioni. Torni quando ci avrà meditato, se crede che io abbia spesso ragione. E, soprattutto, se vuol fare lo scrittore, si prenda uno pseudonimo. Se no resterà per sempre un giornalista sportivo, un caratterista che non rientra negli schemi del nostro mondo di presunti intellettuali».
Me ne andai affascinato ma ancor più insoddisfatto. Era il mio primo romanzo, il primo di tutti quelli che mi sarei visto rifiutare. Mi sentivo offeso, come la volta che Francesca, congedandomi, mi aveva dichiarato che non ero un vero macho. Passò un anno. Corressi. Bassani aveva avuto quasi sempre ragione. Gli telefonai. Rimandai i Gesti Bianchi. Appuntamento.
3) «Mi spiace Gianni — diamoci pure del tu, tra tennisti — Non ti posso più pubblicare, perché me ne vado. Feltrinelli, Il “marxista per diletto” ha addirittura tentato di forzarmi questo cassetto, questo della mia scrivania». Me lo indicò. «Temo che dovrò cercare di vivere dei miei romanzi. Non sarà facile, dopo aver fatto il professore per avere uno stipendio. L’Editor per avere uno stipendio. Se avrai la mia pazienza, qualcuno ti pubblicherà i Gesti Bianchi.
E la prima volta che vieni a Roma giochiamo insieme a tennis».
«Certo che Giorgio ce la farà — mi disse Mario, che era venuto ad abitare a Milano, profugo dal Cinema romano, in via Cappuccio, di fronte al pied- à- terre dove stavo io. «È un grande scrittore, anche se non basta per sopravvivere, in questo paese di illetterati. Ma tu fai come noi. Scrivi lo stesso».
4) Giocai, per la prima volta, con Giorgio, alle Cascine. Ad assistere alla partita c’era addirittura il Professor Longhi, anche lui tennista, che ci avrebbe invitati a casa, dopo il nostro set. Io ero da poco reduce dall’interruzione della mia carriera di giocatore, per una malattia molto grave. Temevo che Giorgio non fosse in grado di palleggiare al mio livello. Andò invece benissimo. Aveva quello che Brera chiamava “senso geometrico “, colpiva agevolmente non solo di diritto, ma con un bel rovescio. Ci divertimmo. Longhi lo prese un po’ in giro, per qualche errore. Alla fine di quello che chiamò “dialogo con racchette“, Bassani mi disse di aver imparato alla Marfisa, aveva addirittura partecipato ai Littoriali «prima che uscissero le leggi anti- ebraiche, prima di essere allontanato dal Club. Sarei almeno arrivato alla seconda categoria, come mio fratello».
5) Mentre continuavo in quello che Giorgio e Mario definivano “un equivoco “, e cioè a scrivere di sport, Cesare Garboli accolse un mio romanzetto su un Centrattacco, tanto vero che due centrattacchi si indignarono, e Gianni Rivera mi scrisse: «Un giocatore del Milan non si permetterebbe mai di far qualcosa di simile » (conservo la lettera).
Giorgio e Mario lo presentarono al Premio Strega. Fui ricevuto dalla Signora Bellonci che ebbe a dirmi «Lei è quello del tennis? Ma sa che fa benissimo anche i congiuntivi». Ebbi tre voti. «Non fai parte di nessun gruppo», mi disse il terzo dei miei votanti, Gaio Fratini. «Hai mai visto un ciclista che corre il Giro da solo?».
6) A questo proposito, dell’ottenere una tessera di appartenenza a un Partito Letterario, mi giunse un invito, per partecipare a Palermo alla riunione di quello che sarebbe divenuto il Gruppo 63. Incerto, raggiunsi Roma, e scesi dal treno per salutare Bassani, che abitava di fronte ai Giardini di Villa Borghese. Finì che giocammo al Tennis Club Parioli, e io restai privo del sostegno di un Partito Letterario. Giorgio me ne congratulò.
7)Sempre a Roma, presi a incontrare regolarmente Bassani ogni volta che passavo di lì. In primavera, ci si vedeva regolarmente ai Campionati Internazionali di Tennis, al Foro Italico. Non ho mai più trovato un vicino, in tribuna stampa, tanto sicuro dei propri giudizi, capace di sezionare il gioco, e quel che passava nella mente di un campione, come un grande psicologo. «Non è difficile. Basta immaginare che il campione sia un personaggio», sorrideva lui.
7) Giorgio era ormai giunto ai riconoscimenti del Veillon, dello Strega, del Viareggio. Ci ritrovammo una volta a Bologna. Lo vidi animato di una insolita emotività, quasi gli fosse accaduto qualcosa di misterioso. Mentre camminavamo diretti non so più dove, mi prese per un braccio, trascinandomi in un portone. Ero attonito, ma pronto alla stravaganza di un amico. Mi recitò alcuni versi. «La poesia», mi disse. «Certo, ne avevo sempre scritte. È il destino di tutti noi che scriviamo. Tutte le energie che prima consumavo in tanti modi, sciupavo, disperdevo, si coagulano, come mi siedo alla scrivania. Ho un rapporto diretto con quello che faccio».
Dissi che lo capivo. Da quello spiritualista che ero diventato. Ma Giorgio, sullo spiritualismo, non ci sentiva. «Ecco, ho trovato», mi disse, «è come se tutto un match di tennis si tramutasse in una successione ininterrotta di match point. E io riuscissi a affrontarli con la disinvoltura di un banale quindici, ma con l’attenzione trasfigurata di un match- point. È la religione della poesia, mio caro spiritualista».
8) «Basta, andiamo via. Questo non è il mio libro. Fa schifo! Via». Eravamo andati, con Giorgio, all’anteprima del film tratto dal suo romanzo più famoso, Il Giardino dei Finzi Contini. L’avevo visto, via via, infastidito, incredulo, corrucciato. Alla fine, quando si accesero le luci, esplose come mai l’avevo visto fare. Era stata, quella, la fine di una vicenda che nessuno scrittore dovrebbe affrontare, se non per estremo bisogno di denaro. La sceneggiatura era stata infatti più volte rifatta da successivi specialisti, Zurlini, Laurani, Pinelli, e dai miei amici Brusati e Bonicelli. Vittorio Bonicelli, grande critico cinematografico traversato dal desiderio di sceneggiare, mi aveva anche invitato a un minima partecipazione, che avevo evitato dicendo «Non sarei capace».
Alla fine di rifacimenti e innovazioni, Vittorio De Sica era stato costretto a girare un film diverso dal libro. Fu l’unica volta che vidi un uomo dolce, ragionevole, comprensivo di errori suoi e altrui, perdere il controllo si sé. Capii che si era identificato a tal punto con il libro, da ritenersi ferito da un’opinione altrui, come da un tradimento.
9) Avrei rivisto Giorgio per l’ultima volta in un Club di Tennis, il nuovo Tennis Club Parioli. Sapevo che stava male, avevo chiesto notizie nella sua nuova casa, mi era stato risposto che era meglio non visitarlo. Mi recai al Parioli, e lo vidi, insieme a un badante, che osservava un doppio di vecchi consoci, ridendo ad ogni errore, disturbando il palleggio in corso, immaginando ad alta voce un punteggio che nulla aveva a che fare con quello reale.
Ad un cambio di campo mi rivolsi interrogativo ad uno dei giocatori. «Lo so che non è facile», mi anticipò, «ma gli siamo tutti debitori. Per quello che ha fatto, per quello che ha scritto». Alla fine della partita, trovai il coraggio di rivolgermi a Giorgio. Mi guardò dolcemente e «Chi sei?», mi domandò alla fine. Me lo chiedo spesso, in risposta a chi mi onorò di una grande amicizia.

Nessun commento: