lunedì 29 febbraio 2016

Cinghiali


Apperbohr, il baratro del linguaggio 
Narrativa. «Il cinghiale che uccise Liberty Valance» di Giordano Meacci, per minimum fax. Un personaggio epifanico si aggira per un sonnolento villaggio tra Toscana e Umbria 

Giorgio Vasta Manifesto 8.4.2016, 0:04 
Un giorno Apperbohr, «una massa che i secoli hanno plasmato a forma di cinghiale», aggirandosi nelle campagne tra Toscana e Umbria – gli zoccoli che scavano nella torba, le mele rubate e mangiate – si ritrova su una sua personale via di Damasco: la luce che lo abbaglia non lo redime ma lo precipita nel baratro del linguaggio. Perché il presentimento della lingua – la possibilità che i suoni significhino e che in ogni loro miscuglio ci sia l’ambizione (se non la tracotanza) di estrarre dal mondo qualcosa di comprensibile – non potrà che essere per lui gloria e tormento, ciò che suo malgrado lo separa da tutti, siano essi cinghiali o umani, costringendolo in un punto intermedio, a metà del guado, uno spazio-tempo minuscolo e insieme smisurato in cui non può stare nessuno se non lo stesso Apperbohr e la sua esperienza delle parole. A rendere ancora più struggente questa solitudine sarà l’innamoramento per una sua – ormai non più – simile («’Llhjoo-wrahh, amore mio’, è questo e solo questo che vorrebbe dirle»), il tempo in cui le parole «non hanno significato, sono distruttive, invadenti, sono il male che interviene a spiegare quello che è già tutto lì»; al posto delle parole c’è solo l’inadeguatezza, e l’unico senso che emerge è un’invocazione originaria e impronunciabile: «non mi lasciare solo». 
Non sappiamo da quale polla dell’immaginazione di Giordano Meacci sia scaturito Apperbohr – personaggio epifanico di una tenerezza fiera, l’inscalfibile messo in scena nella sua maestosa vulnerabilità –, e non sappiamo in che modo, appena nato, questo cinghiale sia riuscito a fare irruzione nel capolavoro di John Ford del 1962 (un film in cui leggendario e reale si incrociano rivelando l’epica western nella sua costitutiva ambiguità) fino a incastonarsi nel suo titolo; non sappiamo neppure quale sia l’embrione di Corsignano, «addormentata e sola sulle colline da cui nasce», il piccolo centro apparentemente immoto in realtà febbrile dove si svolgono i fatti narrati, un frammento di provincia tra Toscana e Umbria (uno spazio corale che esiste con la stessa intensità di Winesburg e di Yoknapatawpha, di Macondo e di Brigadoon) – le c aspirate e gli armaioli, il corteo funebre e il derby contro l’A.S. Torracchio, il bar, le confidenze e i tradimenti, l’abitacolo in orgasmo di una Panda, le adolescenze timide e impetuose, i fantasmi etruschi: «tutti i riferimenti minimi e puntuali di cui sono fatte le vite di ogni paese dacché gli uomini esistono». Ciò che sappiamo è che Il cinghiale che uccise Liberty Valance, il romanzo d’esordio di Giordano Meacci – già autore della raccolta di racconti Tutto quello che posso e di Improvviso il Novecento. Pasolini professore – appena pubblicato da minimum fax, è un libro che non lascia scampo. 
Nell’arco di quattrocentocinquanta pagine che smontano e riannodano tra loro una serie di vicende avvenute tra il 1999 e il 2000 (ma in realtà nel Cinghiale il tempo non se ne sta mai fermo – freme si inarca si comprime e si dilata come la sintassi che gli fa da scheletro), la scrittura di Meacci accumula una materia espressiva multiforme, dalle percezioni sensoriali («la parabola di graffio le frigge con l’intensità liminare delle bruciature improprie: le sfioràte di carta tagliente sul polpastrello, o i patimenti d’amore quando si è ragazzi») alle consapevolezze teologiche (per esempio a proposito del «Dio raccogliticcio che immaginiamo sul bordo dell’infinito, quasi fosse un inquilino del piano di sopra cui s’è smurato il soffitto») alle intuizioni su che cos’è l’anticipazione («può essere che ci sia qualcuno in grado di vedere prima – un segno labile nel tempo, un accento, un apostrofo luminoso, una particella di azoto, un coriandolo fucsia a passeggio per la ionosfera – il momento di passaggio tra un tempo e l’altro»), e in questo modo dà forma a una narrazione sbalorditiva fondata su un continuo irrefrenabile esondare (e se il rischio che corre è la dissipazione, ben venga, ma soprattutto grazie, perché il romanzo di Giordano Meacci rassicura sul fatto che esistono ancora immaginazioni letterarie per le quali tra il patrimonio e la sua dilapidazione non ci sono differenze). 
Affetto da quella che Peirce chiamava semiosi illimitata – l’impulso a una significazione percussiva, il testo come luogo di rispondenze interne tra le parole, di vincoli, rime, allusioni, parentele – Meacci trasforma la sua patologia in una forma di splendore: osservando il progressivo fabbricarsi del linguaggio sotto la fronte del cinghiale, ci rendiamo conto che il romanzo è il luogo in cui si dà la parola a ogni fenomeno, anche al più negletto e infinitesimale, soprattutto al più negletto e infinitesimale (compresi i versi degli animali e i rumori delle cose); raccontare, del resto, vuol dire battezzare ancora nuove parole, ancora nuove particelle di realtà. Il tutto in una tonalità fastosa e assorta, seria e cialtrona, ribalda e commossa, tra il Decameron e le Beatitudini, il Tristram Shandy e il Cantico delle creature: in Meacci la furfanteria suprema di chi nel salto nasconde la mano che toccherà il pallone deviandolo in rete coesiste con l’estro di chi un attimo dopo, le nocche ancora rosse dell’urto contro la sfera, si inoltra in qualcosa che a calcio è guizzo dribbling serpentina e in letteratura è l’avventura della lingua, la luccicanza delle frasi, certi passaggi di punteggiatura prodigiosa, le parole che sciamano attraverso la pagina come stelle in una galassia. 
Sulla falsariga di Robert Bresson, che nel 1966 aveva fatto dello sguardo di un asino il punto di vista tramite cui rivelare l’umano a se stesso (e non a caso Balthazar è il nome con il quale a un certo punto il cinghiale verrà battezzato), ciò che terminata la lettura del romanzo di Meacci resiste indelebile è il grifo cupo e misericordioso di Apperbohr che – cosciente dell’impossibilità di ogni linguaggio – ci guarda, e nei suoi occhi c’è quell’unico infinito rimpianto che domina Il cinghiale che uccise Liberty Valance: «Se si potesse dire amore in cinghialese: se si potesse dire amore in qualsiasi lingua».


Storia dell’animale che alla verità preferì la leggenda 
Nel suo travolgente “Il cinghiale che uccise Liberty Valance” lo scrittore e sceneggiatore Giordano Meacci ci regala una galleria di episodi e personaggi unici

ANGELO CAROTENUTO Restampa 24 4 2016
Eravamo rimasti al tonno di Bacchelli, ai corvi al rospo e al porco delle Favole della dittatura di Sciascia, ai pesci rossi di Cecchi. Quando nella letteratura italiana gli animali parlano, si muovono di solito nel territorio di un genere, gli exempla morali di Esopo. Ora arriva un cinghiale a mutare la scena, si chiama Apperbohr ed è più surreale finanche di quel grillo che comunicava con un burattino di legno. Vaga con il suo branco nelle campagne dell’immaginaria Corsignano, fra Umbria e Toscana, dove s’imbatte in una folla di personaggi teneri e grotteschi, infidi e indifesi, di cui non si può tenere il conto, anzi non si deve, questo è il bello, il bello è perdersi.
Teorizzatore di una letteratura che sia allo stesso tempo «commovente e inadeguata, raffazzonata e ingombrante», Giordano Meacci scrive in piena coerenza Il cinghiale che uccise Liberty Valance”. Ingombrante è il suo romanzo, l’opera italiana recente più imparentata con l’Underworld di DeLillo, un posto in cui possono stare insieme Bud Spencer, i Baustelle, il Siena Calcio, Nietzsche, le Crociate e perfino l’ispettore Manetta, chi se lo ricordava più l’ispettore Manetta, l’assistente del commissario Basettoni. Meacci è romano, 45 anni, ed è uno della “banda Caligari”, fra gli sceneggiatori di Non essere cattivo.
Non c’è pagina in cui non si veda. Sfoggia una potentissima scrittura per immagini e una serie di riferimenti cinefili, a partire dal titolo, esibiti o nascosti, per costruire un ambiente che può dirsi di commedia all’italiana, ma senza concessioni, con uno sguardo alla Marco Ferreri.
Il cinghiale Apperbohr attraversa questa galleria di figure e trame spacchettate, trafitto da un raggio di luce (uscito dalla tv), da quel momento conquistando facoltà di pensiero, commuovendosi per la musica, scoprendo la capacità di comprendere la lingua degli uomini (gli «Alti sulle Zampe »), ma soprattutto avendo percezione di sé e consapevolezza della morte. Non è più solo un cinghiale ma non è del tutto uomo. La coscienza fa penetrare misteri ma alla fine ti lascia solo, e da soli si fanno le scelte.
Dire polifonia per questo romanzo è poco. Meacci innesta il parlato locale nell’italiano standard, sempre che possa dirsi standard una scrittura in cui spesso le sdrucciole portano l’accento grafico (rigùrgito, spàzzola, bàndolo), le parole si fondono (tornotorno, senzatregua, filodiscozia) e gli «zoccoli sgricciolano» tra una «falda stazzonata» e un «faro di smalto». In più c’è il cinghialese, lingua biologica di Apperbohr, con tanto di dizionario e grammatica in postfazione. «Quando le parole non ci sono bisogna trovarle, masticarle come se fossero ossa di cervo da spolpare, e se al dio delle parole non va bene allora che si perda, che mi perda».
Prendetevi cinquanta pagine per entrare a Corsignano e non c’è più verso di volerne uscire. Meacci crea situazioni comiche e liriche, descrive benissimo odori e orge, mescola la sintassi delle forze dell’ordine a quella dei copioni cinematografici, usa una punteggiatura dissidente, inventa nomi azzeccati — il carabiniere Venanzio De Zan, il linguista Rodrigo Galderisi Stocchi — in una continua compresenza di tempi, «in una infinità di universi», perché «il futuro non si prevede, o si aspetta, semplicemente c’è, e coincide con il presente».
Una riflessione filosofica sull’uomo, sulla coppia, sull’amore, un’indagine sulla identità e sul genere, di quella che ossessionò Gaber e Luperini. «Se si potesse dire amore in cinghialese: se si potesse dire amore in qualsiasi lingua». Un romanzo libero. Una prova di letteratura scarcerata. Una sfida alle carinerie, al delizioso, a tutte le regole di buon governo e di correttezza. L’anno scorso Enrico Ianniello e il suo Isidoro Sifflotin che parlava fischiando come gli uccelli, si spinsero fino al premio Campiello per l’opera prima. Stavolta, Giordano Meacci scende con Apperbohr nell’arena dello Strega. Non è certo quello un luogo per sperimentatori, ma il suo cinghiale arriva pur sempre da Corsignano, dove tra la verità e la leggenda, vince la leggenda.
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Il cinghiale di Meacci sa tanto di polistirolo Oltre la finzione, il nullaLibero 16 giu 2016 DAVIDE BRULLO RIPRODUZIONE RISERVATA
Billy Wilder diceva che l’Oscar lo beccano sempre quelli che interpretano «gli storpi o i ritardati o gli alcolizzati», quelli che «devono farsi notare», perché gli esperti della giuria «sono una manica di sfigati». La storia del cinema, nonostante l’Oscar, si è sempre fatta altrove: troppo facile premiare Dustin Hoffman in Rain Man («Che fatica costruire il personaggio? Stronzate!»), i veri divi i critici-guru non li capiranno mai. La considerazione sarà gradita a Giordano Meacci, il cui romanzo muscolare (minimun fax, pp. 452, euro 16) è fitto di omaggi cinematografici, fin dal titolo, (che sgorbia il film di John Ford: L’uomo che uccise Liberty Valance), senza contare i raffinati riferimenti filmici (avete mai visto Brigadoon di Vincente Minnelli?) e la raggiera di opinioni su Terrence Malick («è l’assoluto e l’eternità»), Stanley Kubrick, John Wayne e James Stewart.
Solo che Meacci non sarebbe piaciuto a Wilder. Perché il suo romanzo, ambientato nei boschi toscani, che parla di un cinghiale, Apperbohr, che compie la sua personale anabasi esistenziale, più che pretenzioso (ogni scrittore deve pretendere di aver scritto il romanzo che uccide tutti gli altri) è presuntuoso: presume che i suoi lettori siano dei cretini, che bastino un paio di aggettivi in più per imbambolarci ululando al «romanzo più sorprendente di questi mesi» (Goffredo Fofi). In verità, il romanzo è puramente esornativo, le peripezie del cinghiale in mezzo agli Alti sulle Zampe, gli uomini (una citazione da Balla coi lupi, dove la bella si chiama Alzata con Pugno?), non ci appassionano. D’altronde Meacci ha voluto farci vedere quanto è bravo, disinteressandosi della trama, fino al grottesco (il vocabolario “cinghialese” in calce al libro mima i glossari elfici di Tolkien, con l’aggravante che Apperbohr non è Aragorn...).
Così, la Corisgnano di Meacci (che, specifica lui, ennesima citazione, «è come nei racconti di Sherwood Anderson»), che tanto piace ai critici (è come la Macondo di Garcia Marquez, che è come la Yoknapatawpha di Faulkner, che è come la Dublino maccheronica di Joyce...), sembra la scenografia di quei western con le case di polistirolo, oltre la finzione il nulla, e il suo romanzo fa l’effetto di una parodia di Sentieri selvaggi girata dai cugini di quinto grado dei Monty Python. Avremmo sperato di leggere un Moby Dick con cinghiale, ma far parlare gli animali è difficilissimo: Meacci avrebbe dovuto andare a ripetizioni da Rudyard Kipling (I cani rossi), Horacio Quiroga ( Anaconda) o Lev Tosltoj (Cholostmér) e sprofondare in Horcynus Orca di Stefano d’Arrigo. Ha preferito puntare sull’ignoranza dei letterati italici. Gli è andata bene, l’hanno spedito allo Strega, l’Oscar della nostra letteratura.

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