Il monachesimo cristiano nacque in Egitto durante il terzo e quarto secolo, nelle sue due forme, anacoretica e cenobitica. Antonio, di cui Atanasio scrisse la mirabile Vita (Fondazione Lorenzo VallaMondadori), si inoltrò, solo, nel deserto, abbandonando le cose e le apparenze umane, e combattendo contro tutto ciò che era demoniaco. Pacomio nacque, nel 291, da genitori pagani della Tebaide. Venne battezzato: diventò cristiano: la stessa notte ebbe una visione: si vide irrorato di rugiada che scendeva dal cielo e si raccolse a terra alla sua destra, coagulandosi in miele; e udì una voce che gli diceva: «Comprendi ciò che avviene, perché è ciò che ti accadrà più tardi».
Pacomio cercò di diventare monaco; e gli fu indicato un anacoreta, di nome Palamone, il quale gli disse: «La mia ascesi è dura: d’estate digiuno ogni giorno, d’inverno mangio ogni due giorni, soltanto pane e sale. Veglio sempre per metà della notte, spesso per tuttala notte ». Paco mio entrò nella caverna di Palamone, e insieme praticavano l’ ascesi esi dedicavano alla preghiera. Così raccontano la Prima vita greca di Pacomio, i Paralipomeni e l’Epistola di Ammone, che sono stati da poco pubblicati dalla comunità di Bose: Pacomio, servo di Dio e degli uomini: introduzione di William Harmless, a cura di Luigi d’Ayala Valva.
Chi scrisse la Prima vita greca, era un monaco pacomiano entrato in monastero dopo la morte di Pacomio: se non lo aveva conosciuto, aveva conosciuto alcuni «padri anziani», che erano stati suoi compagni fin dalla prima ora. Egli aveva l’acuta sensazione di vivere in un tempo di decadenza: fra poco — egli pensava — i monaci malvagi si sarebbero imposti ai confratelli buoni, i giusti sarebbero stati perseguitati. Pieno di angoscia e quasi di disperazione, comprese che, scrivendo, doveva raccontare ed esaltare Pacomio e il suo tempo, sperando di richiamare la luce sulla vita dell’Egitto e di tutto il mondo cristiano.
Pacomio inventò la vita cenobitica: se Antonio si era inoltrato, solo, nel deserto, egli non amava la religione solitaria, quelle caverne nelle quali ogni monaco inseguiva isolatamente la salvezza. Raccolse comunità di cristiani, anche non sacerdoti: fondò monasteri maschili e femminili; acquistò terreni e imbarcazioni, fino a quando i monasteri pacomiani raccolsero settemila monaci. Chi aveva scelto di vivere da solo, decise di vivere insieme a dei confratelli. «È meglio, disse Pacomio, vivere in mezzo a migliaia di uomini in tutta umiltà piuttosto che solo, nella tana di una iena, con orgoglio». Non rinnegò l’ascesi: ma doveva essere sottomessa ai valori della vita comune; obbedienza, rifiuto della propria volontà, senso della misura, soprattutto umiltà, la virtù suprema del monachesimo. Il monaco doveva essere «mite ed umile di cuore», come i Vangeli dicevano di Cristo: non si faceva servire ma serviva i fratelli, e dava la sua vita per loro.
Pacomio aveva un grande talento spirituale e organizzativo. Come i suoi successori, era l’occhio: aveva la funzione dell’occhio nel corpo. Guardava: contemplava tutti i monaci, uno per uno, nel profondo del cuore: aveva uno straordinario discernimento, che gli consentiva di entrare in tutti i cuori e di distinguere gli spiriti buoni e quelli malvagi, i santi e i demòni, portando alla luce ciò che stava nascosto. Sapeva benissimo che questo discernimento non era frutto della sua intelligenza, ma gli veniva da Dio. «Non è quando noi vogliamo conoscere qualcosa delle cose nascoste che le vediamo, ma quando lo vuole la provvidenza di Dio». Il suo potentissimo sguardo scendeva in ogni aspetto della realtà: cancellava i misteri; e dovunque portava ordine, poiché Dio voleva ordine. Leggendo le Regole, restiamo impressionati dalla cura per il buon ordine in ogni cosa, fino ai minimi particolari: le corde intrecciate dovevano essere contate, i frutti che cadevano dagli alberi del frutteto dovevano essere disposti in piccoli mucchi.
Come ogni spirito cristiano, Pacomio conosceva gli angeli. Mentre dormiva, un angelo lo risvegliò dicendo: «Seguimi!»: egli lo seguì: entrò nella chiesa del monastero, e vide che era tutta piena di luce, e che una moltitudine di angeli era raccolta nel luogo dove i sacerdoti officiavano il culto. Ciò era giusto, perché i monaci partecipavano a una condizione angelica superiore al livello umano. Pacomio aveva visioni. Mentre pregava, un giorno entrò in estasi, e vide l’intero mondo sotto il cielo diventare notte, mentre da diverse parti si udiva una voce: «Ecco qui la verità». Nella regione orientale del mondo scorse, in alto, una lampada che risplendeva come la stella del mattino. Un’altra voce diceva: «Non lasciatevi ingannare da coloro che vi attirano verso le tenebre, ma seguite questa luce, perché in essa è verità». Una terza voce aggiungeva: «La lampada che vedi risplendere come la stella del mattino, un giorno risplenderà per te più del sole. Essa è per te la predicazione del Vangelo di Cristo». Pacomio possedeva altri carismi: guarigioni, profezie, esorcismi, chiaroveggenza, che dipendevano dal possesso della sua vita da parte di Dio. La Prima vita greca è molto sobria nel parlare dei carismi di Pacomio: perché il diavolo era un terribile imitatore, che si nascondeva dietro i carismi e i miracoli.
I monaci sopportavano le tentazioni dei demòni, le quali avvenivano con il permesso di Dio, che voleva metterli alla prova. Essi chiedevano spesso a Dio di abolire il sonno, in modo che la loro mente restasse pronta e lucida, ogni minuto, per sconfiggere l’avversario mascherato. Qualche volta, mentre intrecciavano stuoie, appariva loro un demòne, sostenendo di essere il Cristo: ma il loro miracoloso discernimento faceva scoprire ogni traccia o ombra o eco demoniaca. Quando le tentazioni finivano, i fratelli rivelavano il loro cuore puro: tutti i pensieri impuri erano stati sopraffatti e cancellati, contemplando il timore di Dio, il Giudizio, i tormenti del fuoco eterno. La vigilanza era stata inflessibile. La potenza contemplativa dell’amore aveva reso la loro mente capace di vincere qualsiasi suggestione.
Pacomio sosteneva che egli non vedeva il Dio invisibile, ma lo scorgeva riflesso in un uomo visibile, suo tempio. Il vero tempio, il vero riflesso di Dio erano le Scritture, che dominavano la vita quotidiana dei monasteri. Quando mangiavano, i monaci si coprivano la testa con un cappuccio, affinché il fratello non vedesse il fratello masticare: non parlavano; ripetevano fra sé i versetti dei Vangeli, fissando lo sguardo sul piatto e sul tavolo. Tutte le sere si sedevano insieme, dopo il lavoro e il pasto, per scrutare insieme le Scritture. Prima di addormentarsi, ognuno nella sua cella recitava qualche versetto dell’Antico e del Nuovo Testamento, che portavano racchiusi nella memoria e nel corpo, come un tesoro presente e futuro.
Per decine d’anni, i monasteri sorsero, uno dopo l’altro, nella terra d’Egitto. La basilica di Pbow, completata nel 459, era grandissima: trenta metri di larghezza per settantadue di lunghezza. Dietro le alte mura, che limitavano l’accesso dei contadini e tenevano lontani i barbari, c’erano centinaia di celle, ognuna occupata da un monaco, e uno spazio comune, dove essi si raccoglievano per le preghiere, i pasti e l’istruzione cristiana. Un monaco faceva il contadino, un altro lavorava nella fucina, o al forno o nella falegnameria, o nel laboratorio di cardatura, o nella conceria, o nel laboratorio delle calzature, o nello scrittoio.
Tutti i monaci erano eguali: avevano un cuore solo e un’anima sola: nessuno considerava sua proprietà quello che gli serviva; ogni cosa era considerata comune. Quando si ammalavano, pensavano che ogni malattia era un dono del Signore. Con la preghiera vincevano l’acoedia, la malattia dei monasteri. Come dicono i Salmi, non c’era traccia di tenebra, né in loro né attorno a loro. Emanavano luce: i comandamenti di Dio realizzati creavano soltanto luce; luce che illuminava il presente e si estendeva illimitatamente nel futuro, in tutti i monasteri della tarda antichità, del Medioevo e dei tempi moderni.
Luigi d’Ayala Valv a (a cura di), Pacomio, servo di Dio e degli uomini , con introduzione di William Harmless, Qiqajon, Bose (Biella), pagg. 602, € 40
Lancelot Andrewes, Una guida alla preghiera , a cura di Domenico Pezzini, Qiqajon, Bose (Biella), pagg. 359, € 25
San Pacomio (292-346) L’inventore delle abbazie
L’ex soldato romano che divenne monaco e fondò, nel deserto egiziano, il monachesimo cenobitico
di Gianfranco Ravasi Il Sole Domenica 15.5.16
Il
suo nome nella lingua copta significava “falcone reale”: Pacomio, il
padre del “monastero”, una delle tipologie di vita spirituale che
permane fino ad oggi sia pure attraverso un arcobaleno di morfologie
differenti, nacque nell’Alto Egitto nel 292. Ventenne, fu arruolato
nell’esercito romano per un anno. Congedato, fu battezzato e iniziò un
itinerario di dura ascesi sotto la guida di un anacoreta, in una
solitudine e in un regime di vita molto aspro. Due misteriose
rivelazioni rivoluzionarono la sua vita. Un giorno, mentre raccoglieva
legna, udì una voce: «Pacomio, lotta, rimani in questo luogo ed erigi un
monastero!». Un’altra volta, su un’isoletta del Nilo ove era approdato
per raccogliere giunchi, durante una veglia notturna orante, un angelo
per tre volte lo aveva ammonito: «Pacomio, la volontà di Dio per te è di
servire la stirpe degli uomini per unirli a lui».
Queste due
visioni sono il germe di una svolta radicale che, quasi fosse una
squilla da lui suonata, convocò molti eremiti e anacoreti, che vivevano
nelle assolate lande solitarie del deserto egiziano isolati dal resto
dell’umanità, per riunirsi nel “monastero cenobitico”. Questa
espressione è sostanzialmente un ossimoro perché in greco mónos è “solo,
unico”, mentre koinós (donde “cenobio”) è, invece, “comune, solidale”.
Pacomio fu, dunque, se non l’inventore, certamente il pioniere di una
nuova esperienza spirituale ove alle ore di solitudine contemplativa e
agli spazi di isolamento si associavano in contrappunto fasi di
preghiera comune, di catechesi, di incontri quotidiani in quella che,
con un termine greco, veniva definita la “sinassi”, cioè l’assemblea, il
radunarsi insieme. C’era persino l’abbozzo di una veste comune: tunica
di lino senza maniche, cintura, una pelle di capra sulle spalle, un
cappuccio con l’insegna del monastero, sandali, un mantello per la
notte, per le assemblee e i viaggi.
Una comunità, dunque, di
eguali, sulla scia del ritratto che san Luca aveva abbozzato riguardo
alla Chiesa di Gerusalemme: «La moltitudine dei credenti aveva un cuor
solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli
apparteneva, ma tutto era fra loro comune» (Atti degli Apostoli 4,32).
Alla base, comunque, c’era una struttura ben codificata da Pacomio in
“regole” puntuali e destinata a ramificarsi in una vera e propria
federazione: quando il 9 maggio del 346, sotto l’infuriare della peste
egli si spegneva, in Egitto si stendeva una koinonía, cioè una rete
comunitaria di ben nove monasteri maschili e di due femminili, con
centinaia e forse migliaia di monaci (san Girolamo, esagerando, parlava
di cinquantamila!). Se il celebre sant’Antonio egiziano, nato nel 251 e
morto forse a 105 anni, era stato il padre del monachesimo eremitico,
Pacomio divenne invece il progenitore del monachesimo comunitario.
Ora,
per ricomporre il ritratto che noi abbiamo solo abbozzato, gli storici
hanno a disposizione, oltre alle Regole e alle Lettere (curiosamente
composte secondo un cifrario segreto), molte fonti biografiche giunte a
noi in un ventaglio linguistico multiplo, dal copto al greco, dall’arabo
al latino. Luigi d’Ayala Valva, membro della comunità monastica di Bose
(Biella), presenta per la prima volta in versione italiana i quattro
testi agiografici più antichi dedicati alla figura di Pacomio: il
racconto continuo e coerente della Prima vita greca del santo e del suo
principale discepolo Teodoro, che lo studioso accompagna con un
imponente ed esemplare apparato esegetico ed ermeneutico; i
Paralipomeni, cioè “le cose tralasciate”, omesse dalla stessa opera
precedente, una raccolta di narrazioni indipendenti di vario genere e
contenuto; l’Epistola di Ammone, un vescovo non meglio noto che informa
un suo collega soprattutto sul citato discepolo Teodoro e sulla comunità
pacomiana ove anch’egli aveva trascorso periodi della sua vita; infine,
un estratto della Storia lausiaca composta tra il 419 e il 420 da
Palladio, un vescovo che delineò una galleria di profili di 71 asceti,
tra i quali anche Pacomio.
A questo tuffo nell’antica e
affascinante spiritualità dell’arido e infuocato deserto dell’Egitto,
associamo un’altra esperienza collocata, invece, in un orizzonte mistico
immerso nelle brume britanniche, più vicino a noi anche
cronologicamente. È, anche in questo caso, la prima versione italiana a
cura di Domenico Pezzini, delle Praeces privatae del vescovo anglicano
Lancelot Andrewes, nato a Londra nel 1555, che rivestì incarichi
pastorali, accademici e persino politici e morì nel 1626 mentre
esercitava l’episcopato di Winchester. Queste sue preghiere, in realtà,
si trasformano in un manuale offerto a chi vuole ascendere sui sentieri
d’altura della spiritualità profonda, senza però decollare
definitivamente dalle vie polverose della valle della quotidianità.
Basti solo scorrere l’arco tematico di queste orazioni, che spaziano
dalla professione di fede alla supplica penitenziale, dall’invocazione
alla lode, dal ringraziamento alla domanda di intercessione,
dall’abbandono fiducioso al lamento implorante, per comprendere questa
unitarietà tra spiritualità e storia.
In questi testi la sobrietà
stilistica s’intreccia con l’intensità del cuore, l’evocazione diretta o
allusiva ai testi biblici e patristici s’incrocia con la freschezza dei
sentimenti personali, l’essenzialità non elide mai i colori molteplici
della realtà umana, la contemplazione non smarrisce nei cieli il
realismo dell’esistenza, la varietà degli esempi offerti si accompagna a
una serie di note pedagogiche per imparare a pregare seriamente, in
tempi e spazi (persino la “spiaggia”!) definiti. Questa ricchezza non
era sfuggita a un grande poeta come Eliot che nell’incipit del suo
Viaggio dei magi (1927) aveva posto proprio alcune frasi di Andrewes.
L’editore italiano preferisce ammiccare, invece, all’anno giubilare
attuale e, nella quarta di copertina, cita questa invocazione: «Grazie
alla tua misericordia, o Dio, non siamo annientati; la tua misericordia
ci viene incontro, ci segue, ci circonda, ci perdona, ci incorona».
Come
abbiamo sottolineato, la mistica autentica non è spiritualismo
esoterico e alienante, ma è seme deposto nel terreno delle vicende
umane. Proprio per questo vorrei citare un passo del saggio La fede dei
demoni (tradotto da Marietti 1820 nel 2010) del filosofo francese
Fabrice Hadjadj, di origine ebraica, convertito dall’ateismo al
cattolicesimo: «Satana è molto spirituale. La sua natura è la stessa di
un puro spirito. In lui non vi è neppure un’oncia di materia. Non ha
propensione per il materialismo banale. E quindi – ci si può scommettere
– la spiritualità è il suo stratagemma». Certo, Satana predilige una
spiritualità individualistica, egoistica, intimistica e detesta la
“carnalità” cristiana che unisce fede e carità. Proprio per questo,
antitetico all’autentica mistica non è solo il materialismo greve ma
anche lo spiritualismo etereo, magico, snob, impastato di esotismo, alla
“New Age”, ove messaggio e massaggio, yoga e yogurt, digiuno e dieta,
ascesi e fitness si abbracciano e si confondono.
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