lunedì 14 marzo 2016

Hilary Putnam

Americano, 89 anni, era tra i più grandi pensatori a cavallo del millennio. I suoi studi hanno spaziato in diversi campi della filosofia, della logica, delle scienze informatiche. Con un tocco di "fantascienza" e un blog di "commenti sarcastici" 

di MAURIZIO FERRARIS Restampa 14 3 2016

Il realismo e la logica di Hilary Putnam dall’illuminismo all’origine di “Matrix” 
MAURIZIO FERRRARIS Restampa 15 3 2016
Il filosofo americano è morto a quasi novant’anni. Insegnò a Princeton e al MIT Tra i massimi pensatori del Novecento, ispirò anche il film targato Wachowski
Nato a Chicago il 31 luglio 1926, Hilary Putnam, uno dei maggiori filosofi del Novecento, morto l’altro ieri, avrebbe compiuto tra pochi mesi novant’anni, e aveva appena rivisto le bozze del suo ultimo libro Naturalism, Realism, and Normativity, curato e introdotto da Mario de Caro e in uscita presso la Harvard University Press. Professore emerito all’Università di Harvard, dopo aver studiato all’Università della Pennsylvania, essersi addottorato a Los Angeles, e aver insegnato alla Northwestern University, a Princeton e all’MIT, il 2 novembre 2011 a Stoccolma gli era stato conferito il Rolf Schock Prize, l’equivalente del Nobel per la filosofia. Putnam ha esercitato la sua creatività filosofica in ambiti come la logica, la filosofia della matematica, la filosofia della mente, la filosofia della scienza, la metafisica, la filosofia del linguaggio, la filosofia morale e la filosofia della percezione. Di origini ebraiche, ma educato in forma laica e secolare, aperto con la stessa disponibilità alla scienza e alla politica, pronto a cambiare idea e a divenire critico di se stesso, negli ultimi anni si era avvicinato alla filosofia di Rosenzweig, Buber, Lévinas, quanto dire alla quintessenza della filosofia continentale. Non con un cambio di appartenenza, come avvenne nel caso del suo amico e rivale Richard Rorty, ma con una sintesi nella quale la filosofia analitica serve per evitare l’irrazionalità, mentre il ricorso a filosofi come Kierkegaard, Thoreau, Emerson, Marx e Sartre aiuta a riflettere su come dovremmo vivere, con una vocazione filosofica in cui Putnam intreccia il pragmatismo americano, l’illuminismo europeo e una vivida immaginazione teoretica (il suo esperimento mentale del “cervello in una vasca” sta all’origine del film Matrix).

Morto il filosofo Hilary Putnam Sostenne le ragioni del realismo 

Era nato a Chicago nel 1926, aveva insegnato al Mit di Boston e ad Harvard. Il suo lavoro si muoveva tra la visione analitica e la tradizione del pragmatismo americano 
di ANTONIO CARIOTI  13 marzo 2016 (modifica il 14 marzo 2016 | 10:31)
Il percorso del filosofo americano Hilary Putnam, scomparso all’età di 89 anni, era stato molto complesso e variegato, difficile da inquadrare, anche perché lui stesso aveva spesso preso le distanze dalle sue posizioni precedenti. Nato a Chicago il 31 luglio 1926, Putnam aveva esordito come studioso di matematica e di filosofia della scienza, per poi estendere i suoi interessi al tema del linguaggio, alla filosofia della mente, all’estetica e all’etica, muovendosi tra le correnti analitiche neopositiviste e la tradizione del pragmatismo americano. Aveva insegnato alla Northwestern University, a Princeton, al Mit di Boston e infine ad Harvard, dove aveva concluso la sua carriera universitaria nel 2001. Negli anni Sessanta si era schierato su posizioni politiche radicali, che poi aveva abbandonato. 
Considerato uno dei più importanti filosofi viventi, nel dibattito sul relativismo si era schierato a favore della razionalità scientifica e di un realismo «interno» di derivazione kantiana. Tra le sue opere tradotte in italiano: Mente, linguaggio e realtà (Adelphi, 1987), Ragione, verità e storia(Il Saggiatore, 1985), Matematica, materia e metodo(Adelphi, 1993), Realismo dal volto umano (Il Mulino, 1995), Etica senza ontologia (Bruno Mondadori, 2005).

HILARY PUTNAM Avvenire 15 marzo 2016


HILARY PUTNAM INSOFFERENTE A OGNI SCHEMA 

15 mar 2016  Corriere della Sera Di Umberto Curi © RIPRODUZIONE RISERVATA 
In un volume comparso una ventina di anni fa, Franca D’Agostini rilanciava una distinzione destinata a riscuotere molto successo, ma anche a suscitare discussioni. I filosofi del Novecento, specie quelli vissuti nella seconda metà del secolo, potevano essere distinti fra «analitici» e «continentali», a seconda del ruolo da essi attribuito alla filosofia. Nel primo caso, il compito principale della ricerca consisterebbe nello sviluppare un’analisi del linguaggio, volta ad esplicitare il significato dei termini e delle proposizioni impiegate. Nel secondo caso, la filosofia resterebbe nell’alveo della tradizione di matrice greca classica, come interrogazione relativa alle questioni che sono alla base della condizione umana — l’origine e il destino, la vita e la morte, il bello e il giusto. Quale corollario della distinzione, gli analitici concepiscono la filosofia come una branca della scienza, mentre per i continentali la contiguità riguarda la relazione con la letteratura o l’arte. 
La chiarezza di queste distinzioni non deve trarre in inganno. Già la stessa D’Agostini relativizzava la divergenza fra i due orientamenti di pensiero, lamentando la mancanza di una consapevolezza collettiva relativa ai compiti e ai metodi della filosofia e ai criteri che consentano di differenziarla rispetto alle scienze. Ancor più nettamente, Bernard Williams attirava l’attenzione sulla stranezza di contrapporre un filone speculativo a un’espressione geografica, mentre Michael Dummet si spingeva ad affermare che la distinzione, più che su reali divergenze nel modo di concepire il lavoro filosofico, si basava su una barriera di incomprensione reciproca. 
Hilary Putnam, scomparso all’età di 89 anni, può essere considerato un luminoso esempio della sostanziale inadeguatezza di schemi storiografici troppo elementari, per inquadrare e comprendere le peculiarità di una ricerca complessa e originale, comunque irriducibile a rigide categorizzazioni, quale quella sviluppata dal filosofo nato a Chicago nel luglio 1926. Allievo di alcune grandi figure del neopositivismo logico, come Rudolf Carnap e Hans Reichenbach, dopo essersi prevalentemente interessato di logica e di analisi del linguaggio, a metà degli anni Sessanta Putnam conosce una fase di intenso impegno politico, quando aderisce al movimento Students for a Democratic Society, e poi ad un gruppo maoista interno a quello stesso movimento, il Progressive Labor Party. La militanza politica si coniuga anche con una svolta nella sua ricerca teorica, caratterizzata da un forte interesse per il pensiero di Kierkegaard, Freud e Marx, oltre che dei francofortesi, quali Adorno e Marcuse. 
Amico e collaboratore di Willard Van Orman Quine, interlocutore privilegiato (talora in termini polemici) di un altro pensatore del tutto allergico a distinzioni precostituite, quale Richard Rorty, anch’egli fortemente coinvolto in alcune tematiche della tradizione filosofica classica, Putnam ha lasciato un’impronta inconfondibile nel pensiero del Novecento per i contributi forniti alla filosofia della mente, alla problematica del rapporto mente-corpo, alla filosofia della matematica, oltre che, in tempi più recenti, all’estetica e all’etica. La maggior parte dei suoi articoli composti a cavallo fra gli anni Sessanta e Ottanta si trova ora raccolta nei tre volumi dei Saggi filosofici, intitolati rispettivamente Matematica, materia e metodo, Mente, linguaggio e realtà e Realismo e ragione. Putnam era di famiglia ebraica. Negli ultimi anni della sua vita, si era riavvicinato alla sua matrice culturale originaria, riscoprendo la centralità delle grandi questioni metafisiche.


La Terra gemella di Hilary Putnam 
Ritratti. Addio al filosofo e matematico statunitense che smantellò il dubbio cartesiano e scrisse «The Meaning of ‘Meaning’» 

Giovanni Iorio Giannoli Manifesto 16.3.2016, 0:04 
Quando l’hacker-eroe del film Matrix si risveglia nel mondo reale (dominato da macchine, che traggono energia dal metabolismo degli esseri umani), arriva ad accorgersi che tutto quello che aveva fino allora pensato, agito, goduto e patito nella sua vita era soltanto una realtà simulata, trasmessa al cervello da un cordone di cavi.
Il film dei fratelli Wachowski uscì in sala nel 1999; riproponeva, dopo oltre tre secoli e mezzo, l’esperimento mentale suggerito da Descartes, nella sua Prima meditazione: «Io supporrò, dunque, che vi sia (…) un certo cattivo genio (…) che abbia impiegato tutta la sua industria ad ingannarmi. Io penserò che il cielo, l’aria, la terra, i colori, le figure, i suoni e tutte le cose esterne che vediamo, non siano che illusioni e inganni, di cui egli si serve per sorprendere la mia credulità. Considererò me stesso come privo affatto di mani, di occhi, di carne, di sangue, come non avente alcun senso, pur credendo falsamente di aver tutte queste cose». 
Nel 1981, quasi vent’anni prima di Matrix, il filosofo Hilary Putnam aveva discusso estesamente una eventualità del genere, con intenti affatto diversi da quelli suggeriti da Descartes (che erano, in sintesi: l’ineluttabilità del dubbio; l’intuizione dell’esistenza del pensiero e, dunque, della materia pensante; la bontà di Dio, come garanzia della verità). Accogliendo (per demolirla) l’ipotesi che noi tutti potremmo essere «cervelli in una vasca», Putnam si proponeva tre obiettivi: mostrare l’incoerenza del dubbio cartesiano; ribadire che i contenuti mentali dipendono dall’esperienza; polemizzare contro il realismo metafisico. Infatti, per Putnam, noi non possiamo pensarci come «cervelli in una vasca», perché un pensiero del genere è logicamente incoerente, e si distrugge da solo.
Del resto: ogni parola/concetto (compresa la parola «cervello») si riferisce per Putnam a qualcosa che ha determinato l’introduzione di quella parola; e, dunque, noi non possiamo avere alcuna esperienza del nostro cervello come di un «cervello nella vasca», sì da poterlo pensare/designare in quel modo. Infine: se lo scenario dei «cervelli nella vasca» è logicamente impossibile (perché i cervelli non possono guardarsi da «fuori», scoprendosi in una vasca), non c’è alcun modo di guardare al mondo con gli «occhi di Dio»: la nostra visione della realtà è limitata dai nostri schemi concettuali, anche se questi dipendono dalla nostra esperienza. Qualsiasi realtà metafisica, che prescinda dai nostri schemi concettuali e dalla nostra esperienza, è una vacuità filosofica.
Non era la prima volta, del resto, che Putnam utilizzava suggestioni mutuate dalla fantascienza, per argomentare filosoficamente. Lo aveva già fatto nel 1975, in quello che molti considerano il suo capolavoro, nell’ambito della semantica: Il significato di ‘significato’ («The Meaning of ‘Meaning’»). In questo saggio, Putnam si proponeva di reagire a una tradizione millenaria sulla natura dei concetti, in particolare all’idea che questi siano completamente contenuti nella mente, richiamabili dunque da una sorta di teatro interno, privato, isolato dagli altri esseri umani e dal «mondo esterno». 
Putnam immaginò una «Terra gemella», nella quale l’acqua non fosse composta da due molecole di idrogeno e da una di ossigeno, ma da una combinazione degli elementi X, Y e Z, non meglio specificati, ferme restando tutte le altre caratteristiche dell’acqua nostrana. In un contesto del genere, il significato della parola «acqua» – nelle due Terre gemelle – sarebbe diverso, perché diverso sarebbe il loro riferimento fisico. Ipotizziamo dunque che due individui gemelli – identici in tutto – pronuncino nelle due Terre la parola «acqua».
Essendo identici tra loro, lo saranno anche i loro stati mentali interni, quando pronunciano quella parola; ma se i significati sono diversi, mentre gli stati mentali sono identici, questo implica il fatto che il significato dei termini non può essere ridotto ai soli stati interni. Naturalmente, possono essere avanzate diverse obiezioni, rispetto a questo argomento; ed infatti, la letteratura in materia è davvero impressionante. Ma pochi mettono in dubbio che l’anti-soggettivismo di Putnam, implicito nella sua semantica, costituisca una pietra miliare del pensiero contemporaneo, una rottura di carattere rivoluzionario, rispetto all’idea che le basi della conoscenza siano tutte racchiuse nell’intimità della mente. 
Ancor prima di questi risultati, Putnam aveva avuto modo di farsi conoscere per un’altra idea stravagante: la tesi secondo la quale uno stesso stato psicologico (per esempio, il fatto di avvertire un certo dolore, ben localizzato e caratteristico) potesse essere legato a diversi stati fisici. Questa tesi – nota come quella della «realizzabilità multipla» – è in qualche modo alla base del funzionalismo contemporaneo, cioè all’idea che sia per esempio possibile costruire macchine intelligenti o forme di vita non organiche (non basate, cioè sulla chimica del carbonio) le quali risultino funzionalmente isomorfe alla mente e al corpo degli esseri umani, comportandosi alla stessa maniera e, anzi, sperimentando gli stessi stati interni. Una tesi del genere, in verità, doveva essere confutata dallo stesso Putnam qualche anno dopo, proprio sulla base della sua stessa semantica esternalista: gli stati e le configurazioni interne di una macchina non sono sufficienti, per garantire circa il significato delle rappresentazioni che quella macchina è in grado di farsi; così come non si dà una corrispondenza biunivoca tra tipi di stati fisici e tipi di stati mentali, non si dà nemmeno una corrispondenza tra tipi di stati mentali e tipi di stati funzionali. 
Già questo tipo di svolta, circa la consistenza teorica del funzionalismo e il suo valore esplicativo, dà qualche indizio su inclinazione ricorrente di Putnam: quella di ritornare sui suoi stessi risultati, per rimetterli in gioco. Qualcuno, tra i suoi colleghi più brillanti, ha addirittura proposto di numerare le fasi teoriche di Putnam, come le ere geologiche: «due Putnam fa, Putnam pensava che…». Ma nel suo necrologio, Martha Nussbaum ha voluto così ricordarlo: «La gloria maggiore del modo di filosofare di Putnam stava nella sua totale vulnerabilità. Continuando ad inseguire ogni argomento fino alle estreme conseguenze, ovunque lo avesse portato, cambiava spesso le sue opinioni; e il fatto di aver cambiato idea non era per lui un disappunto, ma piuttosto un piacere; la prova che era abbastanza umile da essere degno della sua razionalità». 
Era stato un acceso militante: attivista contro la guerra nel Vietnam, per qualche tempo fu membro di un partito maoista statunitense alla fine degli anni ’60. Questo non gli impedì restare ad Harvard, dove il corpo accademico volle difendere la libertà delle sue scelte; a quei tempi, era noto per i suoi lavori nel campo della logica e della filosofia della matematica, ma – proprio ad Harvard – tenne anche corsi di marxismo. La sua forza teorica ed intellettuale lo portò a diventare poco dopo presidente della American Philosophical Association. E, dopo i fondamentali contributi in logica, matematica, filosofia della scienza e filosofia della mente, i suoi interessi si allargarono all’etica, alla filosofia politica, all’economia, alla letteratura.
Un gigante, insomma: un gigante mite, col sorriso sulle labbra, del quale sentiremo la mancanza

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